Il metacinema, ovvero il cinema che parla di se stesso, che si svela o si cita, sia nella struttura operativa
che nel linguaggio e negli intenti, è probabilmente un fenomeno vecchio quanto il cinema stesso. Non ho
dati oggettivi, ma quantomeno non ho dubbi che non sia cosa recente, se è vero che uno dei primi esempi
risale a detta di molti addirittura agli anni ‘50 (proprio del 1950 è infatti “Viale del tramonto”, il film in
cui Billy Wilder fa recitare Gloria Swanson nella parte di una diva, appunto, sul viale del tramonto,
ovvero nella parte di se stessa; operazione ripresa – tra l’altro – dalla regista Coralie Fargeat in “The
Substance”, del 2024).
È un tipo di narrazione che si contrappone a quella classica, diegetica, in cui lo
spettatore viene cullato nella finzione filmica, senza vedere l’artificio che rende possibile il prodigio e
senza la necessità, in realtà, di doversi sforzare in alcun modo per capire quanto viene messo in scena,
perché i personaggi agiscono in modo lineare seguendo pattern ben consolidati che li portano
all’inevitabile conclusione della storia, lieta o tragica che sia.