“La vera sconfitta in tutto è di dimenticare e specialmente ciò che ci ha fatto crepare, e crepare senza capire sino a qual punto gli uomini siano cani. Quando usciremo da questo crogiuolo, non occorrerà fare i furbi, ma nemmeno dimenticare; occorrerà raccontare tutto senza cambiare una parola, tutto quello che c’è di piu schifoso negli uomini; e poi morire e scendere nella tomba. Come lavoro, basta, per una vita intera..” (Louis-
Ferdinand Céline)
Sono anni che questa recensione si stava scrivendo nella mia testa: forse l’ho iniziata ancora
prima che questo blog aprisse i battenti, un milione di anni fa, quando vidi per la prima volta questa
meravigliosa copertina della prima edizione Corbaccio datata 1992 nella vetrina di una libreria, al
tempo della sua uscita. Senza saper nulla di nulla, né dell’autore né della trama, mi feci catturare
dal titolo e iniziai a fantasticarci sopra. Uno o forse due tra i miei amici dell’epoca pare lo avessero
già letto (o almeno così divenao), ma non volli indagare più di tanto e iniziai il mio percorso di
scoperta di Louis-Ferdinand Céline in completa autonomia, spinto non solo ovviamente da un titolo
e una copertina, ma dal fatto che quello era l'uomo che fece dire a Charles Bukowski, mentre
leggeva appunto il Voyage, "Céline mi ha fatto vergognare di quanto sia scarso io come scrittore
rispetto a lui". (1)
Ero, all’epoca, un accanito lettore di Bukowski, uno degli scrittori più visionari e
sregolati del secolo scorso, accanito al punto da portare sempre nella tasca della giacca qualcosa
di suo, e quella sua dichiarazione d’amore nei confronti di Céline mi aveva improvvisamente
indicato la strada.
Tuttavia il mio fu un processo lentissimo, anche perché il prezzo di copertina di “Viaggio al termine
della notte”, cinquantamila delle vecchie lire, era spaventosamente (e ingiustificatamente) alto per
le mie finanze, in anni in cui, mediamente, un libro ne costava diecimila o meno. “Pazienza”, mi
dissi, “aspetterò che esca in edizione economica”. Sto ancora aspettando. Nemmeno il passaggio
all’euro avrebbe ridimensionato le pretese della casa editrice, e ad oggi solo l’aumento
generalizzato dei prezzi dei libri lo fa apparire più o meno allineato alla media.
Non fu però il “Voyage” il mio primo incontro con lo scrittore francese, e il tramite non fu nemmeno
la carta stampata. Lo incontrai a teatro (era prima di allora, tipo il 1990) in occasione del passaggio
di “Féerie” di Luca Ronconi in una location eccezionalmente d’atmosfera, la chiesa sconsacrata di
San Carpoforo in Brera. Nato dalla riduzione dell'opera di Céline “Pantomima per un'altra volta”,
“Féerie” era un unico monologo che aveva come protagonista lo stesso poeta francese
(nell’interpretazione di Franco Branciaroli), ritratto in uno dei momenti più drammatici della sua
esistenza, di ritorno dal lungo periodo di prigionia trascorso in Danimarca in seguito alle accuse di
collaborazionismo. Ma di questo magari parleremo un’altra volta.
Misi le mani su quella mitologica edizione del “Voyage” circa dieci anni più tardi, e fu un gradito
regalo della mia fidanzata dell’epoca, alla quale più volte ebbi modo, tra un sospiro e l’altro, di
esternare la mia frustrazione per quel libro così attraente ma così tremendamente costoso. Credo
che in parte decise di regalarmelo sull’onda dello sfinimento, ma mi piace pensare che avesse
scelto di farlo solo per la gioia di farlo. Ne fui felice al punto che la fidanzata di allora oggi è
diventata mia moglie. Sì, ok, non è solo per quello che l’ho sposata, ma tra i mille motivi per cui ho
deciso di trascorrere con lei il resto dei miei giorni c’è anche quel vecchio episodio.
Oggi, dopo
trent’anni lungo quel percorso, posso riconoscere che Louis-Ferdinand Céline è l’uomo che ha
scritto alcuni tra i più belli e sconvolgenti dei romanzi del '900 e che, rileggendoli oggi, vi ritroviamo
perfettamente inalterati molti dei fantasmi e degli incubi dei tempi moderni, trasfigurati da uno stile
di scrittura che nessuno ha mai saputo o saprà mai ricreare.
In una sera di fine millennio, aprii quindi timidamente la mia copia fresca di stampa del “Voyage” e
fu come spalancare le porte di un tempio, un luogo segreto a cui solo una élite di iniziati aveva fino
a quel momento potuto accedere, e che quella sera mi si rivelava. Ci tengo a usare queste parole
perché vorrei provare a trasmettere, a chi mi legge oggi, quel senso di estasi religiosa che la lunga
attesa aveva suscitato.
Non vi sorprenderà sapere che al termine della lettura compresi (ed è
quello che mi dissi) che non avrei avuto bisogno di leggere nient’altro nella mia vita. Senza arrivare
a quell’eccesso (è ovvio che ho letto molto altro in tutti questi anni), si potrebbe dire che il “Voyage”
è una di quelle letture immersive che ti accompagnano, attraverso il punto di vista del protagonista,
alla scoperta di un ventesimo secolo che i libri di storia non sono mai stati in grado di raccontare (o
si sono ben guardati dal farlo), quelli della Francia della Grande Guerra, con le ingenuità che
l’hanno causata e gli orrori che l’hanno accompagnata, della folle corsa colonizzatrice, con tutte le
sue contraddizioni, e dei sentimenti di un popolo travolto dalle macerie post belliche; di chi è in
fuga verso il sogno di un mondo migliore, di chi si nasconde in una vita da sorcio, vivendo di
espedienti.
Solo in parte autobiografico, il “Voyage” è scritto in modo molto personale, colloquiale,
fortemente intinto nel linguaggio tipico delle banlieue, rozzo e volgare, ed è questo uno degli
aspetti che distingue Céline e che ha contribuito a renderlo uno dei maggiori romanzieri del
Novecento e un rivoluzionario in letteratura.
Come il suo alter ego Ferdinand Bardamu, anche Céline prese parte come volontario alla Prima
guerra mondiale e si sporcò le mani nelle trincee, anche Céline fu ferito in azione e decorato con la
Croce di Guerra, anche Céline soffrì fianco a fianco con i sottomessi nelle colonie francesi in
Africa, anche Céline prese una laurea in medicina e con quella si nascose in una realtà americana
di cui era impossibile diventare parte integrante, anche Céline ritornò in Francia a fare il medico dei
poveri, indignandosi per le meschine rivalità del mondo medico e accademico.
Ed è affascinante
accompagnarlo attraverso l’intero arco di tutta la sua vita, ascoltando i suoi pensieri, condividendo
le sue frustrazioni, combattendo le sue battaglie, in un immenso affresco che puzza di malattia e
putrefazione. Ed è anche affascinante assistere ai suoi cambiamenti di umore e di opinione e
scoprire che ogni sua opinione finisce per corrompersi nel tempo e il suo motivo originale viene
dimenticato, spesso a causa della malvagità dell'uomo, della malvagità dei tempi, a cui Bardamu
non è in grado di sfuggire, e ogni tentativo di farlo finisce in agonia e disperazione. Una lenta
marcia verso la morte, unica via d’uscita, e solo una manciata di trascurabili divertissement
riescono ad alleviarne il dolore, tenui raggi di speranza destinati a vaporizzarsi appena girato
l’angolo.
È impossibile non notare, pagina dopo pagina, la sua profonda anarchia, il suo disprezzo per tutto
e per tutti, dagli ufficiali dell’esercito ai ministri delle colonie, dalla piccola e media borghesia fino al
proletariato, colpevole tanto quanto gli altri del diffondersi di una quantità infinita di tumori
all’interno della società francese.
Céline, attraverso il personaggio che lo rappresenta, strappa via
tutte le maschere e fa a pezzi ogni nostra illusione, accresce la nostra consapevolezza del
degrado dell'umanità, giunto ahimè inalterato fino ai giorni nostri.
"Viaggio al termine della notte", in estrema sintesi, ci parla dell'insensatezza dell'esistenza, tenta di
dimostrare che la vita è una battaglia inutile, che si fa beffe dei nostri ideali, aspirazioni e
ambizioni; soprattutto, ci ricorda che non abbiamo nessuno scopo o significato superiore nella vita.
Ed è curioso riflettere sul fatto che Céline, nato in un sobborgo di Parigi nel 1894, aveva solo 38
anni quando pubblicò questo romanzo che, capitolo dopo capitolo, affronta frontalmente tutti i
grandi mali del secolo in cui è stato scritto. Così giovane, Céline, e già sembrava che avesse
vissuto un'intera vita e che non ci fosse più nulla che potesse sorprenderlo.
"Creato da Dio per dare scandalo", disse George Bernanos a proposito di Céline, intendendo dire
che apprezzava il coraggio di un'onestà brutale e senza compromessi, una lucidità che
scandalizzava perché nulla perdonava a sé stesso e agli altri. E forse l‘autore del “Journal” non
aveva tutti i torti, se pensiamo a cosa egli aveva riversato in quel meraviglioso dattiloscritto di 900
pagine, che fu inviato all'editore Robert Denoël nell'aprile del 1932 e pubblicato seduta stante.
A “cosa”, ma soprattutto a “come”, visto che il “Voyage”, come accennato in precedenza, si
distingue soprattutto per lo stile, per l’utilizzo di una lingua che trascende la parola stessa, quasi
come se fosse il flusso di coscienza del lettore, che finisce per perdersi nei labirinti che Céline gli
ha costruito attorno imprigionandolo in quell’esperienza grottesca che è la vita.
Un romanzo da
leggere assolutamente almeno una volta nella vita e poi custodire gelosamente, lasciando che il
suo ricordo ci accompagni nel nostro personale viaggio al termine della notte.
(1) …mi procurai il “Viaggio” di Céline e lo lessi d'un fiato sdraiato sul letto a mangiare crackers, andai avanti mangiando crackers e leggendo,
leggendo, ridendo ad alta voce, pensando: finalmente ho incontrato uno che scrive meglio di me. Finii il libro e mi scolai litri d'acqua. Dentro la
pancia i crackers mi si gonfiarono e mi venne il peggiore mal di stomaco del cazzo di tutta la mia vita. Vivevo con la mia prima moglie, lei
lavorava nell'ufficio dello sceriffo di Los Angeles e rientrando a casa mi ritrovò piegato in due che gemevo: – “Ehi, che ti è successo?” – “Ho
appena letto il più grande scrittore del mondo!” – “Ma non dicevi di essere tu il più grande? – “Sono il secondo, baby..." (Cit. in Andrea
Lombardi, Bukowski, quello scrittore pazzo che correva da solo e arrivò secondo solo a Céline, articolo disponibile su lf-celine.blogspot.it.)






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