martedì 18 marzo 2014

Il giardino dei supplizi

L’animo umano è un universo profondamente complesso: capace di solidarietà, amore, empatia, sa anche cadere preda di terribili ossessioni e concepire le più tremende bassezze. Ci sono pieghe nell’animo umano che sarebbe forse meglio non esplorare, sulle quali sarebbe meglio non puntare mai lo sguardo. Una di queste nasconde la propensione per le perversioni, cosa che in me genera prima di tutto un profondo senso di pena.
Eppure, non è forse corretto mostrare anche quella che è una parte essenziale della nostra stessa natura, il nostro secondo volto, come l’altra faccia della luna nascosto, eppure intuibile e concreto? La letteratura ha esplorato e continua ad esplorare tutte le possibili sfaccettature della questione. Il vostro Obsidian Mirror, a sua volta, continua oggi con questo articolo ad esplorare la letteratura che maggiormente dimostra fascinazione per il morboso.
Nel 1899 Octave Mirbeau pubblicava “Il Giardino dei Supplizi”, uno dei suoi romanzi più famosi e perfetto esempio di quanto detto sopra. Personaggio eclettico e corrosivo (politicamente scorretto, come diremmo oggi), Mirbeau sembrava sentire come missione quella di smascherare i mali della società.
Questo romanzo in particolare, a dispetto del notevole successo, era destinato a dare scandalo, perché mentre il giardino ha un significato positivo nell'immaginario collettivo, qui era inteso come simbolo dell'ipocrisia che rende socialmente accettabili la violenza e la guerra purché le si ammanti di valore, travestendole da istinto di difesa, patriottismo, persino amore per Dio (e poco importa se da allora sono passati oltre cent'anni: non è poi cambiato un granché nella sostanza, anzi forse abbiamo affinato ulteriormente l'arte della menzogna). 
Il tema principale, dunque, è che la società si limiti a regolare e a piegare ai propri scopi questo atavico e irresistibile istinto. Queste non sono considerazioni che si può mettere da parte con un'alzata di spalle, e basta pensare a quella che è stata la storia dell'umanità per rendersene conto.

Agli albori le uniche preoccupazioni dell'uomo erano il cibo, il riparo e la propria discendenza, e la violenza era necessaria per la sua stessa sopravvivenza: per accaparrarsi il cibo e il riparo migliore, per trovare con chi riprodursi, e infine per assicurare la sopravvivenza della propria prole. In seguito furono il desiderio di conquista e la religione a determinare la violenza. Se si esamina la storia di grandi civiltà passate come quelle di Aztechi, Maya, Egizi e Romani si nota subito che la brutalità non solo era largamente diffusa, ma era socialmente accettata. 
Anticamente le popolazioni veneravano come divinità le manifestazioni della natura: il sole, portatore della luce che scacciava il terrore delle tenebre, nelle quali erano più vulnerabili; la luna, che tuttora si crede influenzi con la sua forza di gravità alcuni fenomeni naturali come le maree, ma anche l’acqua (e quindi il mare), la terra, il fulmine… e così via. Tutto questo si riflette nell’antica mitologia, che era il fulcro delle antiche religioni, e che noi oggigiorno consideriamo alla stregua di storielle per bambini. E che dire delle persecuzioni religiose perpetrate prima dai pagani contro altri pagani, poi dai pagani nei confronti dei primi cristiani, dai cristiani verso i non-cristiani, culminante nell'Inquisizione, e viceversa - persecuzioni che certa letteratura tra l'altro ha celebrato, cercando di darle una patina romantica? Per non parlare dell'eterna epopea della persecuzione ebraica... La storia è scritta col sangue e quella più recente non fa certo eccezione.

In quanto necessaria, anticamente la violenza era esplicita e fu celebrata anche nell’arte. Fu solo quando sorse un’idea di civiltà così come la conosciamo oggi che si cercò di reprimere quegli istinti: la violenza però non cessò, dovette solo (necessariamente) assumere una nuova forma. 
“Il Giardino dei Supplizi” affronta un tema complesso e, di conseguenza, è un romanzo multistrato. È anche un romanzo malsano che, anche a una ripetuta lettura, non può lasciare indifferenti. Il personaggio principale, quello di Clara, è ispirato a quello di Juliette, la femme fatale manipolatrice de “Il Calvario” che Mirbeau aveva scritto tredici anni prima, nel 1886.
È anche un romanzo divertente, almeno nella prima parte, quella concepita come una satira, anche se la descrizione di una società che si fonda sullo sfruttamento dei più deboli e sull’omicidio dovrebbe piuttosto far rabbrividire. Soltanto in seguito il tono della narrazione si fa davvero cupo, fervido, morboso. Il giardino, dicevamo sopra, rappresenta universalmente la pace, la serenità. Immaginiamo ora di trasportare in un ambiente idilliaco come questo uno scenario di terrore e sofferenza: l’effetto è deflagrante.

La vicenda è ambientata nella Francia della Belle Époque. Nella “Premessa”, la decina di pagine scarse che precede la narrazione vera e propria, sono riportate discussioni filosofiche à la Oscar Wilde fra un gruppo di intellettuali a proposito dell'emozione “delicata e civilizzatrice dell'assassinio”:
Quali sono le abitudini, i piaceri preferiti di quelli che voi chiamate, caro mio, “spiriti culti” e “persone civili”? La scherma, il duello, gli sport violenti, l'abominevole tiro al piccione, le corride dei tori, le varie manifestazioni del patriottismo, la caccia, tutte attività che rappresentano una regressione  verso antiche barbarie, in cui l'uomo era, per educazione, simile alle belve che assaliva.[...] Nell'uomo il bisogno d'uccidere nacque e si diffuse con quello di nutrirsi. L'educazione, anziché frenarlo, sviluppa quel bisogno istintivo, che è il motore di tutti gli organismi viventi; le religioni lo santificano, invece di maledirlo; ogni cosa vi si collega per farne il perno su cui gira la nostra ammirevole società.[...] Nella guerra troverà la sintesi suprema dell'eterna e universale follia dell'omicidio: riconosciuta, regolata, obbligatoria e alimentata di sano amor patrio.

La prima parte del libro, "In missione", è un ritratto impietoso e tragicomico dell'ambiente politico francese dell’epoca che, tra corruzione, nepotismo, clientelismo, ricatti, intrighi di salotto e asfissiante burocrazia, finisce per somigliare tristemente a una realtà a noi molto vicina. Il narratore, un uomo “dall'aspetto distrutto” che una volta era stato “intelligente, bello, prodigo, buono”, aveva tentato senza successo la carriera politica e poi, grazie a una raccomandazione, era partito per Ceylon, ufficialmente alla guida di una spedizione scientifica (per la quale, naturalmente, non aveva alcuna competenza), ma in realtà per rifarsi una verginità sociale.

Durante il viaggio il nostro fa la conoscenza di Miss Clara, “una creatura meravigliosa, con capelli folti e rossi, occhi verdi striati d'oro, come quelli delle belve”, una donna molto giovane e molto ricca, figlia di un trafficante d’oppio a Cantone. Ci vuole poco perché se ne invaghisca: Eva di paradisi meravigliosi, fiore, anch'essa, inebriante, frutto saporoso del desiderio eterno, io la vedevo vagare e saltare tra i fiori e i frutti dorati dei giardini primordiali, non più in quel costume moderno di tela bianca, che modellava la sua flessibile figura e il suo busto simile a un bulbo, ma in una biblica nudità, splendida, soprannaturale.
Tra loro nasce una relazione tormentata e selvaggia e lui non fatica a scorgere in Clara, sotto l'apparenza fragile e delicata, tracce di un’altra personalità. Un lampo attraversò il verde delle sue pupille. Con voce bassa, quasi rauca, disse: “T'insegnerò cose terribili... cose divine... Conoscerai infine che cos'è l'amore! Ti prometto che discenderai con me al fondo dell'amore e della morte!”.
Ad un certo punto lui sente il bisogno di fuggire “in cerca dell'oblio e forse della morte”, e per due anni vaga al seguito di una spedizione inglese. È però destino che i due si ritrovino, e a Cantone la bella Clara lo introduce nel giardino del bagno penale. Là, nella ressa della folla sovreccitata, nel fetore della carne marcescente, Clara sembra perfettamente a suo agio. Lei e altri visitatori, tra cui molte donne, con falsa pietà gettano la carne ai carcerati, che vi si avventano sopra con una furia che non ha più niente di umano.

Ma c'è di peggio. Nel Giardino dei Supplizi i prigionieri vengono torturati secondo le più raffinate e tradizionali pratiche cinesi, lavorando “la carne umana come uno scultore l'argilla o l'avorio”. Qui Clara e il suo attonito amante possono osservare i poveri resti della vittima del supplizio più terribile, quello della campana: l’uomo, legato, è stato posto sotto una campana, e le intense e continue vibrazioni sono penetrate nel suo corpo sollevandone i muscoli, rompendogli le ossa e le vene. Dopo un’agonia lunga e terribile è spirato con un ghigno terribile sul viso, quello di un uomo reso folle dalla disperazione. Attratti dalla perversa calamita dell'orrore, i due non riescono a distogliere gli occhi, come ai nostri giorni ci si ferma a guardare le vittime di un incidente stradale, timorosi eppure bramosi di cogliere qualche fugace visione di sangue e di morte.

Gli uomini sono condannati alla sofferenza ed alla morte, e dalla morte rinasce la vita in un ciclo eterno. È così che, ingrassato dal sangue dei suppliziati, dalla decomposizione dei morti, il giardino si mantiene rigoglioso e fecondo. È il regno della fauna necrofila, il luogo dove eros e thanatos s’incontrano. La sua bellezza non ha eguali e rende ancora più atroce l'agonia dei moribondi, perché l'animo umano resta sempre offeso dalla gioia e dalla bellezza che non può condividere.
Qui, nell'incanto e nel prodigioso silenzio di tutti i fiori, si innalzano strumenti di tortura e di morte, i pali, le forche e le croci. Li vedrai, ora, intimamente uniti agli splendori di quest'orgia fiorita, armonicamente fusi in questa natura unica e magica fino a far corpo con essa, fino a diventare frutti miracolosi di questo suolo e di questa luce.
Clara, come una ninfa, prova un’attrazione irresistibile per la natura, i fiori che “fanno all'amore continuamente […]e quando sono sazi muoiono, perché sanno che non hanno altro da fare... Muoiono per rinascere più tardi, e ancora, all'amore...”. 

Questo schizofrenico alternarsi di antitesi (morte dolore terrore amore bellezza pace…) segna una narrazione di incredibile potenza visionaria, macabra danza di parole che sembrano essere stesse il prodotto di una mente deviata su sentieri non (più) umani.
Clara dagli appetiti insaziabili, Clara che dice “vorrei essere già morta!”, Clara la sadica che guarda avidamente i supplizi riservati ai condannati e poi trascorre la notte in una casa di piacere, circondata dal rumore di altri atroci piaceri, è una figura terribile e tragica. La sua labile mente somatizza queste esperienze con febbri che la costringono a letto, delirante, per giorni e giorni, come se degli spiriti malvagi si fossero impadroniti di lei. Eppure a quegli spettacoli tanto sconvolgenti Clara non può rinunciare, e non si capisce se non vi può rinunciare perché è nevrastenica, oppure il contrario... 
Clara è la creatura sensuale per antonomasia: è grazie a quelle terribili immagini, così in contrasto con la sua vita agiata, pulita, ordinata che lei si sente bene, che lei vive, ride, ama. Nel suo animo, così come nella Cina di Mirbeau, non c’è posto per la pace né per la pietà, l’unico sterile frutto della sua mente perversa è un amore maledetto destinato a finire e a segnare per sempre il destino del suo ex amante.

Ma ora lasciamo Clara al solo mondo che (per fortuna) le appartenga, quello della carta. Mi sono chiesto spesso se la perversione è innata o se è un prodotto dell’ambiente in cui si vive e delle esperienze personali. Insomma, perversi si nasce o si diventa? Mirbeau sembra dirci che esiste una predisposizione innata in ciascuno di noi che ci fa amare, o aborrire, la crudeltà (in caso contrario la bella e ricca Clara come potrebbe essere anche una sadica?). Dice però anche dell’altro…
Le donne sono più raffinate e complesse di quanto immaginiate. Da virtuose incomparabili, da artiste supreme del dolore come sono, preferiscono lo spettacolo della sofferenza a quello della morte, le lacrime al sangue.
Questa affermazione, messa in bocca ad uno dei personaggi all’inizio del romanzo, sembra più che altro il prodotto di millenni di condizionamenti social-religiosi duri a morire, eppure l’arte l’ha fatta sua molte volte con le parole e con le immagini, generando i miti delle donne dissolute, delle vampire, delle lamie, ovvero delle moderne ninfomani. C’è di che meditare.

12 commenti:

  1. Non conoscevo questo romanzo, ma visto il periodo in cui è stato scritto mi interessa (ho sempre avuto una passione per l'epoca a cavallo fra XIX e XX secolo).
    Post molto interessante.

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    1. Hai ragione. Quel periodo storico è davvero memorabile. Le cose migliori sono venute quasi tutte da lì....

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  2. Post molto interessante e decisamente inusuale.
    Grazie per averlo postato.

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    1. Inusuale? Beh, da queste parti di cose inusuali se ne sono già viste, no?

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  3. ...ma forse nei meandri della mia libreria "celo"!
    adesso vado a frugare, dopo le tue riflessioni mi è venuta voglia di rileggerlo.

    E poi, secondo me, tutti abbiamo un lato oscuro...

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    1. Davvero ce l'hai anche tu? Allora non sono il solo ad avere un lato oscuro....

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  4. C'è l'ho anch'io Obsidian, in un PDF scaricato da internet, che però non ho mai stampato. E' per questo motivo che non l'ho ancora letto. Grazie per avermene risvegliato la memoria, perché ci tenevo molto a leggerlo. Domani lo stampo!
    Non tutte le perversioni per fortuna sono legate alla violenza, ma è innegabile che alcune lo sono. Ho visto di recente un film spagnolo molto ben fatto al riguardo: Cannibal.

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    1. MI sembra un po' lungo da stampare. Non ti conviene buttarlo su un e-reader?
      Riguardo a "Cannibal": non l'ho ancora visto ma l'avevo già adocchiato.... a questo punto urge porvi rimedio.

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    2. Devo confessarti che non ho ancora un e-reader. Ho fatto voto solenne di comprarlo solo nel momento in cui pubblicherò il mio e-book, non un giorno prima e non uno dopo.

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    3. Spero che quel giorno arrivi presto! Ti riferisci a Shaula, no?

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  5. Piuttosto crudo, eh? Vedo anche dalla locandina che c'era una riduzione teatrale per il Grand Guignol di Parigi?

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    1. ...e c'è stato anche un adattamento cinematografico, piuttosto "obspolitation", realizzato negli anni Settanta dal regista francese Christian Gion (che credo sia facilmente recuperabile anche in italiano)

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