Il buon Darko serviva ai pochi, fortunati avventori il più squisito prosciutto cotto di cinghiale del Carso, con il kren più piccante e saporito dei Balcani. Poi c’era il formaggio latteria più tenero di Trieste, cosparso di delizioso olio d’oliva e semi di finocchio, accompagnato da una mostarda di cipolle così succulenta che sembrava ambrosia. Un crudo tagliato a mano che avrebbe fatto morire d’invidia i membri del consorzio dei prosciuttifici di Sauris. Ossocollo con rucola fresca e scaglie di grana in grado di scatenare il paradiso nei palati più esigenti. E poi pancetta arrosto da orgasmo, pane appena fatto, sempre caldo, uova sode che si sgusciavano in dieci secondi, e per dolce palacinke regali con marmellata di fichi. Il tutto ovviamente annaffiato da litri del miglior Terrano del sistema solare, la cosa più simile al nettare degli Dei che un comune mortale potesse degustare. Nessuna osmìza raggiungeva la qualità ultraterrena dei prodotti di Darko Zagar.
Secondo una leggenda da bar, nel cuore del Carso triestino, vicino al confine con la Slovenia, è nascosto un misterioso paradiso enogastronomico che serve i migliori vini e salumi del mondo. È l’osmìza di Darko Zagar, la Mecca delle cantine, un luogo mitico che sembra esistere solo nella fantasia degli ubriaconi della zona. Nessuno infatti ci ha mai messo piede, né conosce la strada per arrivarci. Ma c’è qualcuno che potrebbe fornirvi le giuste indicazioni: il suo nome è Julian Gudowski, pseudonimo di Giuliano Cossu, la maggior guida vivente alle meraviglie della buona cucina del Carso. Incuriositi? Ingolositi? Rimanete pure tranquilli sulle vostre poltrone, perché la verità è ovviamente ben diversa da quella che vi è stata appena ventilata. E la verità ce la racconta proprio Julian Gudowski nel suo breve racconto “L’Osmìza, orrore sul Carso”.
Capita ogni tanto di inciampare casualmente in un ebook che lascia il segno. Solitamente questi casuali inciampi sono abbastanza rari, considerata la quantità industriale di improvvisate autoproduzioni in circolazione. Ma ad uno come me, che raramente si tira indietro di fronte allo scoglio dei 99 centesimi, qualche bella sorpresa può ogni tanto anche capitare. Giusto qualche giorno fa vagavo infatti su Amazon, cliccando annoiato sul quel pulsantino che manda randomicamente ai titoli più simili a quello che si sta consultando. La copertina è stata subito una folgorazione. Non è bellissima? Non c’è da stupirsi: leggo infatti nel suo sito che Gudowski è illustratore di mestiere. Anche il titolo, dal canto suo, mi ha subito incuriosito. Osmìza? Che diavolo è un osmìza, mi sono chiesto? Probabilmente qualche lettore laggiù, nel profondo nordest, a questo punto starà rabbrividendo a causa della mia ignoranza in materia. Spero non sia così grave. Ad ogni modo, a beneficio di quanti come me si stanno ponendo la stessa domanda, riporto qui di seguito la definizione che fornisce il dizionario, la stessa definizione che appare in apertura al racconto di Gudowski: osmìza. – Osteria caratteristica dell’altopiano del Carso, diffusa nella zona di confine tra la provincia di Trieste e la Slovenia, dove si vendono e consumano vini, affettati e formaggi direttamente nelle case dei contadini che li producono. Nella pratica è una specie di agriturismo, se non ho capito male. Ma il dizionario non spiega ovviamente nulla dell’osmìza di Darko Zagar che, tra le tante, ha qualcosa di davvero particolare.
Sempre sul già citato sito, l’autore sostiene che l’Osmìza sarebbe la sua “personale variazione sul tema di Non aprite quella porta: il classico horror in cui i protagonisti finiscono in un luogo sperduto e incivile e fanno una brutta fine”.
Una definizione a mio parere riduttiva: l’Osmiza non è solo questo. L’Osmiza cattura l’attenzione innanzitutto per il suo essere un luogo oltre i confini della leggenda, per quel particolare fascino che esercita ciò che è andato perduto e la cui esistenza sopravvive esclusivamente nei racconti, reali o pretesi, di coloro che affermano di esserci stati o, meglio, di coloro che conoscono qualcuno che afferma di esserci stato. Un luogo che è un non-luogo. Un luogo dimenticato dalle mappe e dalle cronache. Un luogo a cui si può arrivare solo per un caso fortuito, inseguendo la traccia indicata da un simbolo triangolare con una zeta al centro, un simbolo che mai nessuno ha visto. Almeno finora.
Julian Gudowski è bravissimo a farci trovare la strada per la perduta Osmìza di Darko Zagar. È ancora più bravo a coinvolgere noi lettori nella situazione in cui verranno presto a trovarsi i protagonisti mentre, accomodati a tavola dal sinistro gestore, degusteranno i sapori caserecci di quella particolare cucina. Sembra quasi di sentirli sul palato quei sapori e, proprio come avviene nella storia, quella sensazione ipnotica che avvolge la tavola dei commensali sembra quasi giungere a noi attraverso le pagine digitali di questo piccolo ma dannatamente persuasivo libro. Non starò a raccontare altri dettagli della storia. Basti sapere che ciò che si scatena nelle 41 pagine virtuali de “L’Osmìza” è l’orrore assoluto, un orrore che qualcuno potrebbe arrivare a definire insopportabile, un orrore che, pagina dopo pagina, si conferma sempre sorprendente rispetto a quello che ti illudevi di poter immaginare. Dimenticatevi di “Non aprite quella porta”: quello è stato un gioco da ragazzi conclusosi molto tempo fa. Con “L’Osmìza” adesso si comincia a fare sul serio.
“Mi sono divertito a saccheggiare romanzi e film e a rielaborare in chiave locale alcuni tratti distintivi del genere horror. I riferimenti al mondo delle osmize e al territorio sono stati rimaneggiati o stravolti in funzione del racconto. Gli elementi che a mio avviso avrebbero dato alla storia un taglio troppo provinciale – il dialetto, ad esempio – sono stati scartati. Dunque non aspettatevi un fedele spaccato di vita triestina, ma piuttosto un onesto horror carsico: grottesco, pieno di humour nero e disgustoso quanto basta. Naturalmente, il giudizio finale spetta a voi.”
E il giudizio non può che essere positivo. Anche e soprattutto per quell’incredibile finale. Ancora una volta il finale che non ti aspetti, quello che ancora ti illudevi di poter immaginare. Si arriva rapidamente alla parola fine, nemmeno il tempo di gustare tutti gli antipasti e l’Osmìza chiude già i battenti. Peccato davvero che sia così breve ma, pensandoci bene, non avrebbe potuto essere altrimenti. Anche quel finale probabilmente non sarebbe calzato allo stesso modo se fosse arrivato dopo qualche centinaio di pagine. Rimane tuttavia in bocca un retrogusto strano, la vaga sensazione di un sapore che, un po’ come l’Osmìza di Darko Zagar, si è rapidamente perduto.
Secondo una leggenda da bar, nel cuore del Carso triestino, vicino al confine con la Slovenia, è nascosto un misterioso paradiso enogastronomico che serve i migliori vini e salumi del mondo. È l’osmìza di Darko Zagar, la Mecca delle cantine, un luogo mitico che sembra esistere solo nella fantasia degli ubriaconi della zona. Nessuno infatti ci ha mai messo piede, né conosce la strada per arrivarci. Ma c’è qualcuno che potrebbe fornirvi le giuste indicazioni: il suo nome è Julian Gudowski, pseudonimo di Giuliano Cossu, la maggior guida vivente alle meraviglie della buona cucina del Carso. Incuriositi? Ingolositi? Rimanete pure tranquilli sulle vostre poltrone, perché la verità è ovviamente ben diversa da quella che vi è stata appena ventilata. E la verità ce la racconta proprio Julian Gudowski nel suo breve racconto “L’Osmìza, orrore sul Carso”.
Capita ogni tanto di inciampare casualmente in un ebook che lascia il segno. Solitamente questi casuali inciampi sono abbastanza rari, considerata la quantità industriale di improvvisate autoproduzioni in circolazione. Ma ad uno come me, che raramente si tira indietro di fronte allo scoglio dei 99 centesimi, qualche bella sorpresa può ogni tanto anche capitare. Giusto qualche giorno fa vagavo infatti su Amazon, cliccando annoiato sul quel pulsantino che manda randomicamente ai titoli più simili a quello che si sta consultando. La copertina è stata subito una folgorazione. Non è bellissima? Non c’è da stupirsi: leggo infatti nel suo sito che Gudowski è illustratore di mestiere. Anche il titolo, dal canto suo, mi ha subito incuriosito. Osmìza? Che diavolo è un osmìza, mi sono chiesto? Probabilmente qualche lettore laggiù, nel profondo nordest, a questo punto starà rabbrividendo a causa della mia ignoranza in materia. Spero non sia così grave. Ad ogni modo, a beneficio di quanti come me si stanno ponendo la stessa domanda, riporto qui di seguito la definizione che fornisce il dizionario, la stessa definizione che appare in apertura al racconto di Gudowski: osmìza. – Osteria caratteristica dell’altopiano del Carso, diffusa nella zona di confine tra la provincia di Trieste e la Slovenia, dove si vendono e consumano vini, affettati e formaggi direttamente nelle case dei contadini che li producono. Nella pratica è una specie di agriturismo, se non ho capito male. Ma il dizionario non spiega ovviamente nulla dell’osmìza di Darko Zagar che, tra le tante, ha qualcosa di davvero particolare.
Sempre sul già citato sito, l’autore sostiene che l’Osmìza sarebbe la sua “personale variazione sul tema di Non aprite quella porta: il classico horror in cui i protagonisti finiscono in un luogo sperduto e incivile e fanno una brutta fine”.
Una definizione a mio parere riduttiva: l’Osmiza non è solo questo. L’Osmiza cattura l’attenzione innanzitutto per il suo essere un luogo oltre i confini della leggenda, per quel particolare fascino che esercita ciò che è andato perduto e la cui esistenza sopravvive esclusivamente nei racconti, reali o pretesi, di coloro che affermano di esserci stati o, meglio, di coloro che conoscono qualcuno che afferma di esserci stato. Un luogo che è un non-luogo. Un luogo dimenticato dalle mappe e dalle cronache. Un luogo a cui si può arrivare solo per un caso fortuito, inseguendo la traccia indicata da un simbolo triangolare con una zeta al centro, un simbolo che mai nessuno ha visto. Almeno finora.
Julian Gudowski è bravissimo a farci trovare la strada per la perduta Osmìza di Darko Zagar. È ancora più bravo a coinvolgere noi lettori nella situazione in cui verranno presto a trovarsi i protagonisti mentre, accomodati a tavola dal sinistro gestore, degusteranno i sapori caserecci di quella particolare cucina. Sembra quasi di sentirli sul palato quei sapori e, proprio come avviene nella storia, quella sensazione ipnotica che avvolge la tavola dei commensali sembra quasi giungere a noi attraverso le pagine digitali di questo piccolo ma dannatamente persuasivo libro. Non starò a raccontare altri dettagli della storia. Basti sapere che ciò che si scatena nelle 41 pagine virtuali de “L’Osmìza” è l’orrore assoluto, un orrore che qualcuno potrebbe arrivare a definire insopportabile, un orrore che, pagina dopo pagina, si conferma sempre sorprendente rispetto a quello che ti illudevi di poter immaginare. Dimenticatevi di “Non aprite quella porta”: quello è stato un gioco da ragazzi conclusosi molto tempo fa. Con “L’Osmìza” adesso si comincia a fare sul serio.
“Mi sono divertito a saccheggiare romanzi e film e a rielaborare in chiave locale alcuni tratti distintivi del genere horror. I riferimenti al mondo delle osmize e al territorio sono stati rimaneggiati o stravolti in funzione del racconto. Gli elementi che a mio avviso avrebbero dato alla storia un taglio troppo provinciale – il dialetto, ad esempio – sono stati scartati. Dunque non aspettatevi un fedele spaccato di vita triestina, ma piuttosto un onesto horror carsico: grottesco, pieno di humour nero e disgustoso quanto basta. Naturalmente, il giudizio finale spetta a voi.”
E il giudizio non può che essere positivo. Anche e soprattutto per quell’incredibile finale. Ancora una volta il finale che non ti aspetti, quello che ancora ti illudevi di poter immaginare. Si arriva rapidamente alla parola fine, nemmeno il tempo di gustare tutti gli antipasti e l’Osmìza chiude già i battenti. Peccato davvero che sia così breve ma, pensandoci bene, non avrebbe potuto essere altrimenti. Anche quel finale probabilmente non sarebbe calzato allo stesso modo se fosse arrivato dopo qualche centinaio di pagine. Rimane tuttavia in bocca un retrogusto strano, la vaga sensazione di un sapore che, un po’ come l’Osmìza di Darko Zagar, si è rapidamente perduto.
Bello bello. Piaciuto un sacco anche a me!
RispondiEliminaOttimo! Grazie per la conferma!
EliminaMe lo sono lasciato scappare, devo recuperare.....
RispondiEliminaComunque più che agriturismo, un Osmiza è più simile ad una Frasca, cioè un locale servito da contadini che propongono il loro vino ed i loro prosdotti.
Almeno così me l'ha spiegata un mio amico udinese.
Il tuo amico friulano ha senz'altro ragione. La mia limitata cultura mi ha portato ad usare il termine agriturismo, ma mentre lo scrivevo sapevo benissimo che non stavo centrando completamente la questione...
EliminaGrazie dell'avvertimento... rischiavo di passare da quelle parti quest'estate ^^:
RispondiEliminaDicono però che non sia sempre così.... potresti tentare e poi ci fai sapere ^_^
EliminaUh! Bello sapere che con gli ebook tanti scrittori trovino il loro spazio e vengano letti, magari da intenditori e amatori del genere specifico, ma intanto è una buonissima rampa di lancio!
RispondiEliminaIo purtroppo non posso promettere che lo leggerò perché sono veramente impelagata in letture da recuperare dalla mia stessa libreria e sto cercando di non accumulare roba che poi mi peserebbe soltanto alla coscienza! :°D
Personalmente sono sempre stato a favore del self-publishing. E' vero che nel mucchio si trova spesso robaccia scritta coi piedi, ma alle volte saltano fuori cose davvero interessanti. La proporzione non credo sia nemmeno tanto diversa dal publishing tradizionale, ma in quel caso scopri di aver comprato una porcheria solo dopo aver speso 15 o 20 euro.
EliminaInsomma, una sorta di Hotel California di casa nostra! *__*
RispondiEliminaMolto interessante, bella segnalazione TOM!
L'analogia non è del tutto fuori luogo. Non tutti sanno infatti che l'Hotel California degli Eagles aveva dei netti sottintesi demoniaci.... e in particolare l'ultima frase è perfettamente sovrapponibile all'osmiza di Darko Zagar: "You can check out any time you like, but you can never leave"...
EliminaProprio così!
EliminaDel resto... una grande magnata che, se ho ben capito, non porterà cose belle :O (This could be heaven or this could be Hell)
No, calma, state fraintendendo: la canzone è una metafora della dipendenza da droghe (cocaina nello specifico). Quella frase che citi Tom si riferisco in effetti a questo.
EliminaHai fatto bene a precisarlo. In effetti avrei potuto arrivarci da solo....
EliminaIl tuo giudizio finale non può che spingermi a recuperarlo! Anche perché di horror con un buon finale ne ho letti pochi ultimamente!
RispondiEliminaScrivere un finale non è mai facile. Julian Gudowski mi sembra ci sia riuscito bene.
EliminaQuello del locale dove si mangia benissimo e a prezzi modici, ma dove non si riesce mai a tornare anche facendosi le mappe piu precise è una vecchia leggenda urbana. Però da quanto mi sembra di intendere, qui c'è molto di piu...
RispondiEliminaGudowski ha preso diversi spunti (tra cui sicuramente la leggenda urbana a cui fai riferimento) e li ha messi insieme, amalgamandoli come un gran chef e compattandoli in una quarantina di pagine. E' vero: c'è molto di più.
EliminaPer tipologia e brevità mi ricorda tanto le storie di Creepshow
RispondiEliminaSì, in effetti ci può stare...
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