martedì 7 novembre 2023

Atmosfere di una notte di Tregenda, tra Goethe e De Quincey

Sono passati ormai alcuni giorni dalla notte di Halloween, e mentre in giro per il web i contenuti horror, che hanno infestato l'intero mese di ottobre, sono ormai evaporati come neve al sole, qui su "The Obsidian Mirror" noi andiamo avanti. Non c'è tregua dall'horror per il viandante che bussa suo malgrado a questa porta, ma questo ormai lo sapete. Il blog è anche, o forse dovrei dire, soprattutto, questo. Dopo il piatto forte che vi è stato servito nella notte più spooky dell'anno, vale a dire l'ultimo corto di Luigi Parisi, è arrivata l'ora del dessert. E se il vostro equilibrio mentale è sopravvissuto a "Le cose perdute", qui non troverete alcuno scampo. Il tempo del relax non è ancora giunto. Arriverà, presto o tardi, ma non oggi, perché oggi è un giorno di tregenda. Anzi è il giorno di “TREGENDA”, dal titolo del cortometraggio horror che potrete gustarvi integralmente qualche riga più in basso. E lo faremo in compagnia del regista Giuseppe Coppola che, una volta terminata la visione, si fermerà qualche minuto a chiacchierare con noi.
Prima di proseguire, tuttavia, concedetemi due righe di antefatto. Qualche tempo fa mi scrive Giuseppe Coppola, che avevo già incrociato tempo addietro in una live, e in quell’occasione mi accenna a un simpatico progetto realizzato dal “Collettivo Chimera” di cui egli fa parte, un piccolo gruppo di persone che, come me e come voi, condivide la passione per il fantastico in tutte le sue forme. Chimera, come capirete meglio tra poco, non è però solo un modo per trovarsi con gli amici e bersi un paio di birre mentre ci si racconta storie di fantasmi attorno al fuoco, bensì un progetto a più ampio respiro che trova la sua compiutezza nella realizzazione di prodotti cineamatoriali a zero budget come, appunto, il cortometraggio “Tregenda”, un “horror esistenziale” (la definizione è mia) la cui regia è firmata da Giuseppe con Alessia Rigasso. Ma Giuseppe (che, diciamolo sottovoce, è uno pseudonimo che si ispira a"L'uomo della sabbia" di E.T.A. Hoffmann) non si è occupato solo della regia del corto, ma anche di uno degli aspetti per me più importanti e sottovalutati del cinema, ossia il montaggio. 

Il termine “tregenda”, che identifica, secondo la leggenda popolare, un convegno di streghe, diavoli e anime dannate, è qui utilizzato a mio parere più che altro in senso figurato, e andrebbe interpretato piuttosto come “caos”, o altro concetto equivalente, in riferimento alla tormentata vita della protagonista, intrappolata in una relazione malata, la cui voce narrante (o quella del suo inconscio) fa da sfondo alle immagini altamente evocative che accompagnano le sue vicende. Una voce narrante che pesca le parole a piene mani prima dal “Suspiria De Profundis” dello scrittore britannico Thomas De Quincey, poi dal celeberrimo “Werther” di Goethe

In particolare, l’interpretazione delle "Nostre Signore del Dolore", così come la troviamo qui, è molto aderente all’originale, quasi esegetica, come mai è stata mostrata in precedenza al cinema. Parliamo appunto di dolore, cuore pulsante della visione di De Quincey, benché, nella sua universalità, facciamo fatica a discernere le sfaccettature: esiste il dolore causato da una perdita, solitamente quella di una persona cara, nella sua emanazione più estrema quella di un figlio per la propria madre. Questo è un dolore che colpisce nel più profondo dell’anima e che solo le grida e le lacrime, quelle di un buon pianto, possono vagamente alleviare; ma esiste anche un dolore più subdolo, quello di una persona che non si sente all’altezza, che non si sente pronta per affrontare la propria vita, e per tale motivo abbassa gli occhi, rassegnandosi con un sospiro a un’esistenza incolore; esiste infine un dolore mille volte più atroce, un dolore violento che non si può attenuare né con le lacrime né coi sospiri, un dolore che trascina negli abissi della follia ed è ispiratore di pensieri suicidi.

Alice, la protagonista di “Tregenda”, sembra talora sdoppiarsi, anzi triplicarsi, per sopportare meglio il suo fardello di dolore, una lettura psicanalitica affatto banale: riesce talvolta a distinguere il dolore e a materializzarlo in quei brevi spazi che separano la realtà dal sogno, cercando forse di combatterlo, senza tuttavia dominarlo del tutto, perché, come appunto scrisse Goethe, la vita è non è reale, non è quella che crediamo di vivere; la vita, o perlomeno quella cosa che chiamiamo con questo nome, non è altro che il susseguirsi di una serie di comportamenti in ottica di guadagnare pochi, chimerici attimi di felicità. 

Il "Collettivo Chimera", in questo senso, è molto abile a mettere Alice in condizione di esplicitare il concetto ricorrendo ad artifici che intendono non palesarlo eccessivamente, permanendo sempre sulla linea di demarcazione tra sogno e realtà. “Tregenda” è ricco di simboli, nessuno dei quali (con la sola eccezione di una tavola Ouija, che mi è parsa piuttosto fuori posto) è messo lì a caso. Talismani e tarocchi sono lì per inviare un messaggio, prefigurando a un occhio attento quello che sarà lo svolgimento della storia; i colori, la loro assenza, i loro eccessi sono lì per sottolineare gli stati mentali di Alice, così come gli effetti speciali, piuttosto riusciti considerandone l’artigianalità, ne evidenziano il progressivo distacco dalla realtà. Non è forse un caso che la donna si chiami Alice, come la protagonista del celeberrimo romanzo di Lewis Carrol, il romanzo psichedelico per eccellenza: e quella che vediamo è la sua personale, seppure effimera, discesa nel Paese delle Meraviglie.
Naturalmente, la maggior parte delle sfumature sono difficili da cogliere e anch’io, nella mia rozza esperienza, non sono sicuro di aver intuito con esattezza ciò che gli Autori intendevano esprimere. “Tregenda”, cortometraggio della durata approssimativa di 15 minuti, lo trovate qui sotto. Spegnete le luci della stanza, e se dalle finestre filtra la luce del sole, oscurate tutto come potete. Buona visione. Ci ritroviamo poco più in basso per una simpatica chiacchierata con l'Autore 


T.O.M.: Ciao Giuseppe, e benvenuto su Obsidian Mirror. Mettiti pure comodo perché oggi parleremo di te e del cortometraggio che ti ha visto coinvolto che, come ti accennavo in tutt’altra sede, ha solleticato la mia curiosità. Iniziamo però dal principio. Come ben immagini, situazioni come questa necessitano di una piccola parte introduttiva. La prima domanda è quindi più che altro una formalità: chi è Giuseppe Coppola? Come ti definisci e, già che ci siamo, cosa ti piacerebbe fare da grande?

G.C.: Ciao, prima di passare alle tue domande ci tengo a ringraziarti per permettere a realtà piccole e piccolissime come la nostra di poter aver uno spazio, cosa per nulla scontata! Su chi sono e come mi definirei non è facile risponderti, solitamente lascio che siano gli altri a definirmi, sperando che siano clementi; io mi limito a cercare, parafrasando una vecchia canzone, di “invecchiare senza diventare adulto”: ho 42 anni, sono papà di due figlie, faccio l’insegnante, sono appassionato di Storia e nei ritagli di tempo con alcuni amici realizziamo dei “film”. Che cosa farò da grande? Non lo so ancora… 

T.O.M.: Passiamo ora a “Chimera”, quello che tu definisci “un piccolo collettivo che condivide l'amore per il fantastico. Di cosa si tratta esattamente? Come e quando nasce “Chimera”? 

G.C.: Tutto è iniziato nel 2019 nei corridoi di una scuola della Bassa Piemontese, dove ho incontrato un collega con una profonda passione e conoscenza per il cinema di genere. Lui in giovinezza aveva partecipato in diverse vesti a molti film amatoriali; appena scoperto che condividevamo la passione per un certo tipo di cinema c’è voluto poco per rimettere su il circo… Insieme abbiamo fatto cinque corti, ad oggi non più disponibili in rete. Poi, per varie vicissitudini, le nostre strade si sono divise. Negli anni successivi il giro di conoscenze si è allargato e attualmente siamo in tre al timone di Chimera. Tra l’altro è appena uscito un nuovo corto: “Io posso vedere”. 

T.O.M.: Quando ci siamo scritti la prima volta mi hai presentato “Tregenda” come “un corto ispirato al cinema gotico italiano”. Dopo un paio di visioni, che mi sono state necessarie per scrivere quest’articolo, non posso che considerare quella tua definizione piuttosto sbrigativa. È anche vero che, quando si parla delle tre madri, viene automaticamente in mente Dario Argento, ma è chiaro che qui c’è molto di più. Quali sono davvero le fonti di ispirazione, dando per assodati De Quincey e Goethe?

G.C.: Siamo partiti con l’idea di omaggiare le atmosfere gotiche e melodrammatiche di film come “La frusta e il corpo” e “Lo spettro”, per poi allontanarci da quelle suggestioni. L’utilizzo di quei cliché è rimasto, soprattutto, per caratterizzare la protagonista Alice: una ragazza con una bruciante passione per l’occulto e il Romanticismo, con un passato idealizzato che diventa il posto sicuro per fuggire da un presente che detesta. Questi fantasmi, però, la porteranno a scollarsi dalla realtà e a vivere in uno stato allucinato in cui non è più chiaro cosa sia reale e cosa no. Per quanto riguarda le fonti di ispirazione, i riferimenti sono molteplici. Sicuramente, oltre a Goethe e De Quincey, c’è un sostrato del pessimismo di Leopardi e il Nietzsche della “morte di Dio”. L’estetica finale è poi contaminata da tantissime altre influenze. Le prime che mi vengono in mente sono i vecchi film della Hammer, i gotici italiani già menzionati, il cinema di Eggers, Bergman, Gaspar Noè e Bessoni, gli scritti di Lovecraft, Poe, Clark Ashton Smith, Blackwood, Ligotti, il Simbolismo pittorico e i dipinti di Lorenzo Alessandri, Enrico Colombotto Rosso. E poi quintali di fumetti: da quelli “neri” italiani a Dylan Dog, passando per Sandman e Alan Moore e a tante altre letture e film. Non ci sono volontà specifiche di citazioni nei nostri lavori, sono echi che riemergono dai meandri della memoria dei miei ormai tanti anni (ahimè) di fruitore di “materiale non conforme” nel momento della creazione della trama o del girato e persino nella fase del montaggio, spesso senza una precisa consapevolezza. Non parliamo poi delle influenze derivate dalla musica… 

T.O.M.: A proposito delle madri argentiane, se c’è una cosa che non sono mai riuscito a perdonare al regista romano è quella di aver completamente tradito (o nella migliore delle ipotesi, travisato) le parole di De Quincey, riducendo dei film dal potenziale immenso in opere di semplice intrattenimento. In “Tregenda” mi pare invece che siate riusciti ad esprimere meglio il concetto del “dolore” (così, infatti, lo scrittore britannico definiva le tre madri) come diverse facce della stessa questione. È la mia un’interpretazione corretta?

G.C.: Interpretazione corretta. Non ho mai pensato alla trilogia di Argento come ispirazione diretta per Tregenda e, come detto, poc’anzi il dolore è sicuramente, insieme alla follia, il fulcro del film. Inoltre, trovo che i nostri lavori siano, per loro natura intrinseca, polisemici e mi è capitato di sentire le più diverse interpretazioni.  

T.O.M.: Quella citazione dal Werther è particolarmente sorprendente e, se attualizzata, sembra quasi una critica sociale. Mi riferisco in particolare a verità indiscutibili secondo le quali “la vita degli uomini è solamente un sogno” (come non pensare a Matrix?), che gli uomini “agiscono non per motivi propri ma si lascino invece guidare dagli altri” e che “la loro attività ha l’unico scopo di procurare la soddisfazione di bisogni i quali, a loro volta, non servono ad altro che a prolungare la loro misera esistenza”. Sembra quasi una visione della società contemporanea che Goethe ebbe con 250 anni di anticipo. Mi chiedo, in virtù di ciò, se la cosa andrebbe interpretata più in chiave personale (nella fattispecie, Alice e i suoi problemi esistenziali) oppure più in chiave universale…

G.C.: Il passo da te citato è inserito nel corto per spiegare il momento tragico in cui si vede Alice di fronte alla scelta di porre fine al suo dolore col suicidio. Lo fa accompagnata da queste parole così potenti di Goethe che risuonano ancora nel nostro tempo, dopo più di due secoli, e che continuano a porsi in dialogo con ciascuno di noi, come tutte le grandi opere d’arte. Alla luce di questo sicuramente il Werther serve a delineare le passioni di Alice, così care ai Romantici; ma anche, a un livello generale, la condizione del genere umano ieri come oggi.  

T.O.M.: Tregenda è chiaramente un progetto a basso (se non zero) budget. Come è possibile realizzare un’opera interessante e piacevole senza un minimo di liquidità?

G.C.: Cercando di supplire ai pochissimi mezzi con tanta creatività e voglia di provare a dire qualcosa senza alcuna pretesa. Tutto questo ha un lato positivo: la libertà, facciamo tutto quello che ci pare senza dover rendere conto a nessuno. Questo è il bello di essere dei dilettanti, nel senso etimologico del termine “coloro che si dilettano” a fare qualcosa e che lo fanno per il solo piacere di farlo. Detto questo, bisogna anche dire che sicuramente la tecnologia ci aiuta moltissimo. Pensa: i film precedenti a Tregenda erano girati con un semplice smart phone e qualche luce, poi montati con un programma da due soldi… Cose impensabili solo vent’anni fa. Ma la cosa più importante per la riuscita del progetto è stato lavorare in un gruppo caratterizzato da grande dedizione e serietà, oltre che con attori non professionisti, ma serie e talentuosi. 

T.O.M.: Chi si occupa di recensire cinema, sia a livello professionale che amatoriale, solitamente si sofferma sulla regia e al limite sulla sceneggiatura e sulla fotografia. Pochi sono coloro che esprimono pareri a proposito del montaggio, un’arte nascosta, silenziosa, talvolta invisibile, che a me pare in realtà un aspetto da non sottovalutare, anche in virtù del fatto, correggimi se sbaglio, che il montaggio include anche la componente sonora (complimenti, by the way, per aver utilizzato quel favoloso brano di Peter Bjärgö).

G.C.: Sono più che d’accordo! Soprattutto nei nostri video troviamo un montaggio sperimentale, fatto di sovrapposizioni e molti effetti sia per le immagini sia per i suoni. L’intento è creare atmosfere stranianti, oniriche, partendo dal girato grezzo delle riprese. A volte mi sento un alchimista nel suo laboratorio che trasforma la materia: solve et coagula! Nei nostri video l’aspetto musicale è fondamentale (e mi fa molto piacere che tua bbia apprezzato le mie scelte!) anche perché ho sempre ritenuto i nostri corti affini al linguaggio dei video clip. 

T.O.M.: Tra l’altro proprio in“Tregenda” taluni passaggi non sarebbero stati comprensibili senza un montaggio oculato. Mi riferisco in particolare alla scena “psichedelica” campestre, nella quale i dolori di Alice non avrebbero potuto essere espressi altrimenti. 

G.C.: Ricreare atmosfere psichedeliche mi ha sempre affascinato, andare a creare dei trip deliranti è una delle cose che più diverte nel montaggio. Ecco, è proprio in qui momenti che mi sento l’apprendista stregone, a cui accennavo nella domanda precedente, che partendo da semplici riprese le stratifica ne varia i colori,le dissolve e le ricompone…. 

T.O.M.: Ora che la mia curiosità è stata ampiamente soddisfatta, caro Giuseppe, non mi resta che ringraziarti per aver accettato di farmi visita sul blog. Come faccio abitualmente in queste occasioni, lascio a te un po’ di spazio dove puoi parlare a ruota libera di tutto quello che vuoi,dei tuoi progetti presenti e futuri (tuoi e di Chimera), o di qualsiasi altra cosa. Un angolino dove l’intervistato può farsi un po’ di pubblicità, anche in maniera spudorata. 

G.C.: Colgo al volo l’occasione! Prima di tutto vi invito alla visione di Tregenda (anche sul nostro canale YouTube “Chimera”. Vi saremo grati se avrete piacere di condividerlo e, magari, lasciarci qualche commento o farci sapere le vostre impressioni. Abbiamo anche una pagina Instagram se volete seguirci. Alla vigilia di Ognissanti, tra l'altro, è uscito il nostro ultimo corto “Io posso vedere” e, per chi era in zona vercellese, è stata anche organizzata una proiezione in anteprima (la sera del 27, nei locali di Vicolo Schilke, ndr)
Approfitto anche per un minispot personale. Da qualche mese ho un mio progetto Instagram: “Cantina macabra”. Il nome è un tributo alla ben più importante “Soffitta macabra” torinese degli anni Sessanta. Come la soffitta, anche questa è realmente una cantina, quella di casa. Tra gli scaffali della dispensa e degli scatoloni con gli oggetti da conservare ho realizzato una postazione per la creazione: un tavolo da lavoro un po’ alla dottor Frankenstein dove assemblo e lavoro materiali diversi come legno, noccioli, noci di galla, pigne e altro,per poi assemblarli creando piccoli esseri sempre diversi. A volte vado oltre al dare loro forma, cerco di animarli attraverso un rozzo passo uno. Ecco,direi che con questo termino la pubblicità spudorata. Ti ringrazio ancora l’interesse e per il tempo dedicatomi!  

4 commenti:

  1. Aspettando rigorosamente le ore diurne ;-) gli darò una possibilità anche perché apprezzo enormemente lo spirito dei questo cortometraggio: creare qualcosa, a livello amatoriale, per il piacere di farlo, ma con la massima cura e il massimo impegno nonostante il budget sia pressoché zero, rientra nel mio concetto di "vivere le proprie passioni". Complimenti quindi a Giuseppe e al Collettivo Chimera già solo per aver inseguito le proprie passioni sino a dargli una forma materiale.

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    1. Chi riesce a vivere le proprie passioni deve essere in possesso di un segreto ben celato. Non saprei spiegarmi, viceversa, certi fenomeni di dilatazione del tempo che, nonostante il lavoro e la famiglia, riescono a concederti del tempo extra. Forse sono io quello che è male organizzato, ma a parte il blog (che, pensandoci bene, è tutt'altro che un impegno minimo), non riesco praticamente a fare altro. Anche leggere un libro ormai è diventato un privilegio solo estivo, il che mi porta a pensare che l'età anagrafica sta cominciando a prevalere...

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  2. Un corto decisamente fascinoso per le atmosfere, scenografie e fotografia. La parte del leone però è senza dubbio da attribuirsi alla meticolosissima postproduzione giocata attraverso chiavi cromatiche, operatori di trasparenza ed effetti vari che hanno reso l'opera onirica e colorata anche attraverso l'uso del viraggio dei rossi. Poi ci sono le candele e gli specchi... E sia io, sia l'autore di questo blog, sono sicuro, ci fa ritornare alla mente qualcosa... ;-)

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  3. Grazie per il commento, felice che le sia piaciuto!

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