Il ratto - una femmina - era rimasto intrappolato nello scantinato per più di cinque giorni. Sentendo vicino il momento del parto, si era trascinata in un angolo buio dietro una fila di scaffali, e quando aveva cercato di seguire il richiamo - quel suono ossessionante che le ronzava nella testa - aveva trovato la strada sbarrata da una pesante porta di ferro. Il suono era continuato per cinque lunghi giorni, facendo quasi impazzire la madre e i piccoli, con quella sua modulazione monotona, incessante. Ma nello scantinato avevano trovato cibo in abbondanza. I proprietari avevano pensato bene di ignorare l'avvertimento governativo di lasciare tutte le porte aperte, perché ogni edificio potesse essere disinfestato; sapevano che il cibo sarebbe stato scarso nei primi giorni, dopo che la popolazione della città sarebbe rientrata dal suo breve esilio, e che il loro negozio di generi alimentari avrebbe potuto profittare di quella scarsità. La madre e la sua nidiata si rimpinzarono di cibo, perché i piccoli sembrarono contentarsi del latte materno solo per i primi tre giorni, e cercarono ben presto un più sostanzioso nutrimento nell'abbondanza che li circondava. Crebbero rapidamente, diventando ogni giorno più grossi e robusti, mentre un pelame marrone scuro, quasi nero, cominciava già a ricoprirli. Tutti, a eccezione di uno. Sul suo corpo bianco-rosaceo erano spuntati solo pochi peli bianchi. Sembrava dominare i fratelli, che gli portavano da mangiare e lo scaldavano coi loro corpi. Una strana protuberanza cominciava a crescergli sulla larga spalla sbilenca, accanto alla testa.
Avrebbe compiuto 70 anni proprio oggi, se il destino non avesse scelto per lui una strada diversa: il “King of Rats”, al secolo James Herbert, ha salutato questo mondo lo scorso 20 marzo dalla sua casa nel Sussex, nel Sud dell’Inghilterra, lasciando nella disperazione la moglie Eileen, le sue tre figlie Kerry, Emma e Casey e milioni di fan sparsi in tutto il mondo, ai quali ha lasciato in eredità 23 romanzi venduti in 54 milioni di copie. Una cifra impressionante per un autore il cui nome, sono pronto a scommetterci, ai lettori italiani dice poco o nulla. Eh sì, perché a parte alcuni tra i suoi primi lavori, tradotti e pubblicati da Mondadori negli anni d’oro della collana Urania, di James Herbert in Italia non è arrivato pressoché nulla e ciò, lasciatemelo dire, è assolutamente vergognoso.
Il suo primo romanzo (“The Rats”, 1974) vendette 100.000 copie in sole tre settimane, regalando a quello che allora era un semplice ragazzo di 30 anni una notorietà assolutamente inaspettata. La storia narrava di un mondo alle prese con una nuova razza di ratti mutanti e affamati, uno tra i primi esempi di quello che diventerà un filone narrativo parecchio sfruttato: quello del cosiddetto “animal-revenge”. L’inizio di “The Rats” mette subito in chiaro le intenzioni di James Herbert: in poche pagine un homeless verrà divorato vivo e un neonato verrà attaccato nella culla da un’orda di ratti sotto gli occhi impotenti della propria madre. Nel 1975 andò alle stampe “The Fog”, dove gli abitanti di un villaggio inglese, sotto l’influenza di una misteriosa nebbia, danno di matto ed iniziano ad ammazzarsi l’un l’altro. Nel 1976 fu la volta di “The Survivor”, dove le visioni della vita dopo la morte turberanno i sonni dell’unico sopravissuto ad un disastro aereo. “Fluke” (1977) è la storia di un uomo che, reincarnatosi nel corpo di un cane, risalirà alla sua famiglia d’origine e al mistero della sua morte. Metafisico e sottilmente filosofico, questo piccolo romanzo è un dramma in salsa scifi che parla del destino dell’uomo e fa riflettere più che spaventare. In “The Spear” (1978) troviamo un culto magico di neonazisti e una donna crocifissa in una strada di Londra. Tutti i suddetti romanzi, con un po’ di fortuna, si possono ancora trovare nelle nostre bancarelle dell’usato, sepolti tra le pressoché ingestibili montagne di “Urania” che continuano ad attirare noi appassionati del genere. Traduzioni senza dubbio imperfette, ma che tutto sommato si possono anche accettare visto che, come detto, sono state per decenni l’unica possibilità per il lettore italiano di accedere all’universo di James Herbert.
Al successivo romanzo (“Lair”, 1979) sono personalmente molto legato: fu quello infatti il mio primo Urania in assoluto, letto da ragazzo, ai tempi delle scuole medie, nella versione giunta a noi col titolo “L’orrenda tana”. Capite quindi perché la notizia della scomparsa di James Herbert non mi ha lasciato indifferente: rappresenta un tassello fondamentale nella mia vita di lettore. Tassello che, come dirò più avanti, non rimarrà isolato. Ho conservato quel libro per anni gelosamente, come una reliquia, poi ad un certo punto è misteriosamente sparito. Ho ribaltato la casa per anni alla sua ricerca, ho interrogato i miei genitori, principali indiziati della sua scomparsa, per un tempo incalcolabile, ma del destino di quella copia di Urania non ho mai saputo nulla. Solo molti anni dopo ho riacquistato “Lair”, in versione originale, su eBay ma evidentemente, dal punto di vista affettivo, non è la stessa cosa. Quando lessi “L’orrenda tana” (il cui incipit ho riportato lassù, all’inizio di questo post) non mi ero reso conto che fosse un sequel: un orrendo topo mutante, bianco, senza peli e con una seconda minuscola testa che spuntava a lato della prima, stava trascinando la rivolta dei ratti verso l’umanità. James Herbert scriverà anche un terzo capitolo nel 1984, “Domain”, mai sbarcato in Italia. Fu proprio con “L’orrenda tana” che il mercato italiano chiuse definitivamente le porte a James Herbert. Atteggiamento oltremodo incomprensibile, considerato l’enorme successo di vendite che il “Re dei Ratti” stava riscuotendo all’estero, e che forse fu la spia della scarsa considerazione per un autore considerato non abbastanza “colto”.
Inevitabilmente, negli anni a venire, io stesso non ne sentii più parlare e quasi mi dimenticai di quell’autore inglese che tanto aveva colpito la mia fantasia di adolescente. Fu molti anni più tardi che, gironzolando all’interno di una libreria all’interno dello scalo di Heatrow, in attesa dell’imbarco, la mia attenzione fu catturata da una pigna di libri alta un metro posta di fronte all’ingresso, nel reparto “novità”. Una pigna di libri sui quali risaltava il suo nome. Quel libro si intitolava “The Secret of Crickley Hall” (2006). Voltai il libro e, in quarta di copertina, lessi: “Would you stay in a haunted house for more than one night? Would you live in a place where ghostly things keep happening? Where a cellar door you know you locked the night before is always open the following morning? Where hushed whimpering is heard? Where white shadows steal through the darkness? Where the presence of evil is all around you? Would you? Should you?” Non ci pensai due volte e mi precipitai alla cassa. Ecco, dopo tanti anni avevo ancora tra le mani un James Herbert. Incredibile. Ed era lo stesso James Herbert che ricordavo io. I suoi libri esistevano ancora, quindi. Questo per me leggendario autore continuava in patria a scrivere romanzi e lo faceva con un certo successo, visto che il suo nome, a caratteri cubitali, occupava gran parte della copertina (particolarità questa riservata solo agli autori di best seller). Un po’ per pigrizia, un po’ per una sensazione di inadeguatezza, mai prima di allora avevo osato affrontare la lettura di un tomo di tali dimensioni in inglese. Eppure lo comprai lo stesso. Avevo davanti a me una sfida quasi impossibile: 630 pagine scritte fitte fitte. Ci misi un’intera estate, ma alla fine portai a temine l’impresa: James Herbert aveva posato un secondo importante tassello nella mia vita di lettore, tassello di cui andavo decisamente orgoglioso. Già da tempo avevo capito ed apprezzato la bellezza della lettura in una lingua diversa dalla mia, ma questa volta c’era dell’altro. Avendo avuto l’occasione di leggere Herbert sia in italiano che in inglese, devo dire che preferisco di gran lunga la seconda opzione. Tutta colpa delle notoriamente pessime traduzioni Urania? Può darsi, o forse semplicemente la lingua inglese non è che l’idioma più adatto allo stile ricercato ma allo stesso tempo asciutto di Herbert. Oppure Herbert è scrittore particolarmente adatto alla lingua inglese… Chi lo sa? Siamo nel campo delle opinioni personali, dopotutto.
“The Secret of Crickley Hall” non fu un episodio isolato: nuovo viaggio a Londra e nuova fruttuosa ricerca in libreria. L’estate successiva la trascorsi quindi immerso nella pagine di “Once” (2002), una favoletta horror al termine della quale il lettore si chiederà se è ancora il caso di dubitare della reale esistenza di elfi e fate. Questo romanzo è un ottimo esempio della capacità di Herbert di attingere a piene mani dal folclore della sua madre patria per inquietare e spaventare, e di saperlo fare in maniera non banale. Nelle sue storie, infatti, sono sempre le vicende umane dei protagonisti il vero fulcro della narrazione, gli spunti orrorifici o fantastici sono asserviti alla storia e non il contrario. Analogamente, ciò che spesso cattura di più l’interesse non è tanto la presenza del soprannaturale, quanto la sua interazione con la realtà.
Non c’è due senza tre, si dice, ed infatti eccomi nuovamente alle prese con Herbert ed il suo “Haunted” (1988), una bella storia di fantasmi dal twist finale degno dei più grandi maestri del brivido. David Ash, il protagonista di “Haunted”, verrà tirato in ballo da Herbert in altri due suoi romanzi, tra cui “Ash” (2012), ultimo lavoro di un autore che ha lasciato un vuoto troppo grande nella vita di chi, come me, ha avuto la fortuna di conoscerlo.
I ratti si dileguarono nella notte, scivolando via furtivi, ma senza mai avventurarsi nella foresta che ormai temevano e odiavano. Il terreno prese a salire dolcemente, e i ratti si mantennero piatti nell'erba, sfruttando ogni centimetro di copertura, strisciando e ac¬quattandosi, usando tutti gli accorgimenti, essenziali per riuscire a sopravvivere. Uno apriva la strada, gli altri tre lo seguivano da presso, sottomessi e fedeli. Il gruppo raggiunse finalmente la cresta della collina, restando abbagliato di fronte ai milioni di luci multicolori che si stendevano per miglia e miglia davanti a loro. Il capo fissò la città sterminata, i punti di luce riflessi negli occhi, le gocce di pioggia che scorrevano, come in una sorta di canale, nella cicatrice che gli correva per tutta la lunghezza del cranio. Il grosso ratto nero spalancò le fauci e un sibilo stridulo gli uscì dalla gola. Si spinse avanti, scendendo la collina, in direzione delle luci, verso la città. Gli altri lo seguirono.
P.S.: Il presente articolo viene pubblicato in contemporanea anche sulla blogzine IL FUTURO E' TORNATO
P.S.: Il presente articolo viene pubblicato in contemporanea anche sulla blogzine IL FUTURO E' TORNATO
Una testimonianza doverosa.
RispondiEliminaAssolutamente.
EliminaLetto e commentato di là :)
RispondiEliminaAh OK, Grazie, Vengo a leggerti di là.
EliminaGrazie, io sono tra gli ignoranti di questo Signore. Grazie a voi ho recuperato "I topi" e lo leggerò il prima possibile.
RispondiEliminaRecuperato? Immagino come... ehehehe.. buona lettura!
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