giovedì 28 gennaio 2016

Orizzonti del reale (Pt.4)

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Estasi è una parola che può assumere molte sfaccettature, molti significati diversi. È una parola che ha ispirato non solo saggi, come quello di Huxley, ma anche l’arte. Mi ero ripromesso di riprendere il progetto Orizzonti del reale cominciando a parlare di Timothy Leary, ma poi ho deciso di mettere un attimo da parte i saggi, anzi di dimenticarmi per un attimo della letteratura e anche di tutti i modi più colti e però magari anche più criptici in cui è possibile illustrare l'estasi umana: pittura, scultura, eccetera. Metterò da parte tutto questo, con il proposito di tornarci su in un altro momento, e mi cimenterò con la prima incursione cinematografica sul tema dell'estasi, perché nulla più del cinema può affrontare il tema in maniera chiara e diretta. Scrivo “prima incursione” di proposito, perché ne è prevista almeno un'altra e anche perché le due pellicole che tratterò oggi non sono né particolarmente famose né, di certo, le prime che vengono alla mente parlando di estasi: sono “The Addiction” di Abel Ferrara e “Sebastiane” di Derek Jarman. Oltre vent'anni le separano e per questo e mille altri motivi non potrebbero essere più diverse, ma entrambe sono in grado di proporci un’interessante riflessione sul tema.

I demoni soffrono nell’inferno. (Abel Ferrara, “The Addiction”, 1997) 

Che cos’è l’inferno? A una tale domanda, sono pronto a scommetterci, la maggior parte delle persone risponderebbe con le immagini dell’iconografia religiosa di fuoco, fiamme, demoni e dolore eterno. Ma, con i fotogrammi del film di Abel Ferrara ancora ben impressi nella mente, proprio per quella malvagità insita nell’uomo che ne è il tema portante, potrebbe invece arrivare alla conclusione che il vero inferno si trovi qui, sulla Terra. D’altra parte, senza neanche dover scomodare il passato remoto, basta esaminare quanto successo nel Ventesimo secolo per rendersene conto: l’Olocausto, la bomba atomica, il genocidio armeno, la guerra nei Balcani, solo per citare alcuni fatti, non sono tragedie del fato o capricci della natura, ma il frutto di azioni dell’umanità. Per dirla con l’Autore noi non siamo malvagi perché pecchiamo, ma pecchiamo perché siamo malvagi.
Ma l’inferno è un luogo, o uno stato? E se fosse, più banalmente, uno stato della mente? Ferrara sembra dirci che l’inferno sta nell’attaccamento alle passioni, nel cedere alle pulsioni. Il male sta nell’agire stesso, un agire che è malvagio perché l’uomo in sé è malvagio. La protagonista di “The Addiction” soffre perché si rende conto che per il male non c’è punizione né redenzione che sia reale e assoluta e non v’è filosofia che possa opporre a questa semplice verità. Al contrario, la filosofia esacerba il suo tormento interiore di fronte alla realtà. In seguito, dopo essere stata vampirizzata, continua a soffrire perché realizza che non esiste alcuna dicotomia bene-male nell’animo umano, perché esso è solo e unicamente malvagio. Allora cerca requie da una sete che non si può placare, sperando, quasi, che qualcuna tra le prede prescelte abbia la forza di respingerla, ma questo non può avvenire proprio perché il male non è lei a trasmetterlo con il suo morso, ma si limita a portarlo alla superficie. Lei è solo il mezzo tramite il quale l’addiction, la dipendenza, si diffonde in maniera veloce e letale come un virus. In questa metafora tra vampirismo e tossicodipendenza la malvagità è dolore, sofferenza, e la sofferenza è estasi, per questo la vampira-filosofa protagonista di “The Addiction” non smette mai di soffrire, né di ricercare la sofferenza.

Sulla sua strada, però, la donna troverà un altro vampiro di un tipo del tutto diverso. Un vampiro che ha vissuto a lungo, mimetizzandosi. Una creatura straordinaria che ha imparato a mitigare i propri istinti e ad agire con moderazione, limitandosi, “come i tibetani, a vivere con quasi niente”. Resterà, il loro, l’incontro di una notte, sufficiente però a ricordarci che esiste un altro modo di vivere, più faticoso e solitario, privo persino di un’adeguata ricompensa, ma solo in apparenza. In realtà potremmo definire lui maestro, spirito illuminato, e lei allievo. Perché può darsi che il vero inferno sia la (non) vita così come lei la vive, come noi la viviamo, intrappolati nella carne, in questo corpo-trappola che ci dà la falsa percezione di aver bisogno di mangiare, dormire, respirare, che ci fa sentire slegati dal Tutto che costituisce l’intero universo al quale invece apparteniamo. Abel Ferrara si è ispirato al cult “Ganja & Hess” (Bill Gunn, 1973) ma a mio avviso, pur non rinunciando al tema sociale, ha creato un film più metafisico, un racconto cupo e maledetto che però non è privo di una speranza di redenzione nel senso più spirituale che religioso del termine.
Curiosamente, mentre uno dei messaggi di “The Addiction” sembra essere quello che la moderazione sta anche nel sapersi mescolarsi agli altri, senza ostentare la propria diversità, il secondo dei due film che ho scelto di commentare oggi sembrerebbe proprio un inno alla diversità, ma lascio a voi giudicare.

You think your drunken lust compares to the love of God? (Derek Jarman, “Sebastiane”, 1976)


Sebastiane” affronta il tema dell’estasi in maniera del tutto differente. Come si evince dal titolo, è una rivisitazione del martirio di San Sebastiano e potremmo quindi accostarlo alla filmografia sui santi e, perché no, anche a quella su Giovanna D’arco. Potremmo tracciare parallelismi anche con “Martyrs”, il lungometraggio di Pascal Laugier che ho recensito tempo fa, sebbene i due film siano molto distanti per estetica, contenuto e intenti. Oltre che uno dei film manifesto della cultura omosessuale (ma con poco sesso, non temete, piuttosto un insaziabile e onnipresente desiderio), “Sebastiane” è arthouse allo stato puro, un quadro rinascimentale che prende vita, e vale la pena ricordare che fu girato interamente in latino (cosa che ne ha penalizzato, anche se non eccessivamente, la recitazione), divenendo pertanto l’unico film inglese mai distribuito nelle sale del Regno Unito con i sottotitoli in inglese. Se si riesce a vedere oltre la storia, molto semplice, la teatralità di recitazione e messa in scena, le insistite nudità maschili e una scena d’amore gay – kitsch e decisamente noiosa – e si rifugge da ogni interpretazione politica di quanto viene mostrato, ciò che resta è il racconto di una duplice e febbrile ossessione amorosa (quella di Sebastianus per Dio e quella del suo comandante per lui) e, ciò che in questa sede ci interessa di più, dell’intensificarsi di un’estasi totalizzante che fagocita tutto, inclusa la vita del protagonista.
Il romano Sebastianus, accusato di tradimento e spedito sulla costa sarda presso un avamposto militare comandato da Severus, diventa l’oggetto delle attenzioni di quest’ultimo. Sull’isola i soldati non hanno altro da fare che allenarsi nella lotta, nuotare e cacciare, e nell’isolamento il sesso diventa una comune fissazione – esacerbata dalla perenne nudità degli uomini, resa necessaria dall’inclemenza del sole: il sesso è praticato (dai due amanti Anthony e Adrian), pregustato (Max) o agognato come un sogno irrealizzabile (Severus).
Questa non è una biografia: se si eccettua un breve incipit il film non ci racconta nulla della vita di Sebastianus prima del suo approdo in Sardegna e la sua vicenda per noi comincia lì sulla spiaggia, nel momento in cui getta la spada e, in quanto cristiano, si rifiuta di continuare a combattere con i suoi commilitoni. Questo atto, e il suo rifiuto di cedere alle avance di Severus, segnerà il suo destino. Questi, diviso fra l’amore e l’odio per colui che non può avere, comincia a torturarlo per fiaccare la sua resistenza e, folle di desiderio, non si fermerà fino all’inevitabile epilogo - che riprende di proposito il tema del prologo, in cui al culmine della danza uno dei ballerini veniva sacrificato dagli altri.
Jarman, dopo la dichiarazione d’identità del suo protagonista (per coraggio e impatto un vero coming out), dà vita a una fantasia sadomasochistica a tratti quasi lisergica il cui aspetto più interessante, per quanto mi riguarda, è proprio l’incursione nella cristianità carnale, primitiva di Sebastianus. La danza che il giovane dedica al suo Dio ricorda quelle dei baccanali, il suo Padre Nostro è colmo di reminescenze pagane e quando viene legato sotto il sole, nell’ebrezza estatica del delirio, avverte suoi nei raggi il bacio di Dio e fonde l’immagine di Severus, con la sua bionda bellezza, con quella di Apollo, Dioniso e Gesù.


This hand of his will smooth away these wounds. He is as beautiful as the sun. This sun which caresses me in his burning desire. He is Phoebus Apollo. The sun… is his...burning kiss. […] His beauty is enhanced by his anger. It is his anger which is divine. His punishments are like Christ's promise. He takes me in his arm and caresses my bleeding body. I want to be with him. I love him. 
Il suo sentimento religioso, in effetti, non sembra disgiunto da una forma di erotismo che si palesa nel desiderio fisico di dolore ma, del resto, la via per la santità è tinta di rosso sangue... Nella scena finale la telecamera ci trasporta nel corpo nudo e agonizzante di Sebastianus, offrendoci la sua orgasmica sofferenza dal suo stesso punto di vista, e gli occhi voyeuristici dello spettatore divengono un tutt’uno con quelli del martire, o forse di Dio stesso.
Sebastianus, come Gesù, diventa agnello sacrificale, un agnello più che desideroso di farsi tale, come omaggio al suo Dio e per punire se stesso per il desiderio che, malgrado tutto, prova per Severus. Un sentimento impuro che va annichilito, affogato, appunto, nel sangue. Così, quando il fato si compie questa storia di amore-odio, passione e dolore rivela le radici sadomasochistiche del martirio. Qual è dunque l’ossessione amorosa più potente, quella di Severus o, piuttosto, quella di Sebastianus? Non è banale domandarsi chi dei due, l'uno vivo e l'altro morto, l'uno carnefice e l'altro vittima, abbia tratto reale piacere e giovamento da questo epilogo. Il film di Ferrara è di facile reperibilità e quello di Jarman viene riproposto ciclicamente su Mubi, pertanto se non li conoscete ancora potete senz'altro recuperarli. Nell'attesa della prossima recensione a tema, nel prossimo post cambierò decisamente argomento ricollegandomi alla seconda parte di Orizzonti del reale, dove il testimone passerà idealmente da Aldous Huxley a Timothy Leary.

18 commenti:

  1. Fatalità, proprio oggi avevo ritrovato il mio DVD di "The Addiction" e mi soffermavo a riflettere sul fatto che tutta la pellicola trasmette un clima di "nichilismo tranquillo", di accettazione della propria natura anche se questo significa il dover ammettere di essere un predatore. Quel film trasmette anche una forte carica di angoscia dovuta al fatto che spesso il male sta proprio nel trovare "altri orizzonti del reale".

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    1. Eh sì, proprio una coincidenza incredibile. Come sempre sei riuscito a tratteggiare il film con poche parole, mentre io al solito sono stato molto più prolisso, e senza neanche aver detto tutto quanto c'era da dire. Grazie per il contributo.

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  2. "The addiction" l'ho visto una vita fa, ma con occhio da spettatore puro, senza rintracciare nulla del significato più profondo che riveli in questo post. Lo ricordo come una bella e originale storia di vampiri girata in uno splendido b/n.
    "Sebastian" non sono invece mai riuscito a vederlo a causa della mia "Sindrome da Truffaut" di cui ti ho già parlato in passato in occasione di un altro film. Non reggo i film con protagonisti solo maschili.

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    1. In realtà questo film potrebbe essere letto in molti altri modi, non ultimo come una critica alla bulimia dei consumi contrapposta a una maniera di vivere più semplice e in armonia con la natura e il prossimo, ma, forse perché da un po' sono alle prese con il progetto Orizzonti, mi è venuto naturale legare questo film alle riflessioni sull'estasi. Non sono affatto certo che qualunque cosa io abbia visto nel film rifletta le intenzioni del regista, ma tant'è. Riguardo alla Sindrome di Truffaut un po' ti capisco, confesso che alcune parti del film (soprattutto la scena d'amore) sono state difficili da digerire anche per me, ma alla fine "Sebastiane" ha il suo perché.

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  3. Un piccolo cinema di Roma, circa 15 anni fa. La cassiera mi guarda strano ma mi vende il biglietto per "Sebastiane". Ho amato da morire il Caravaggio di Jarman e non voglio perdermi un passaggio in sala di un suo vecchio film. Però la piccola sala è semivuota, due o tre tizi sparsi. Inizia il film ed è la sagra della salsiccia ondeggiante: mentre l'orgia iniziale si consuma, ho il concreto terrore che verrò sommerso di attenzioni maschili da un momento all'altro! :-D
    Per fortuna non succede niente e mi gusto un film incredibile e potente. Quando Gibson ha fatto la Passione in latino ho cercato di dire che c'era un precedente, ma senza successo.
    "The Addiction" lo registrai da Tele+ negli anni 90 e quella VHS l'ho liquefatta a forza di vederlo e rivederlo. Ho vissuto ogni fotogramma di quello e degli altri capolavori di quel momento di Ferrara, prima che l'abbandono del fido sceneggiatore Nicholas St. John lo rovinasse totalmente.
    Quanto avrei voluto conoscere te e i tuoi lettori all'epoca, quando nessuno vedeva questi film neanche per sbaglio e mi sentivo un mostro asociale ;-)

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    1. Ahahah bellissimo! M’immagino la scena ;) Però sono esperienze da fare: vedere i film sul grande schermo non è esattamente come vederli alla tv o sul pc. Non avevo dubbi che potessi conoscere entrambi i film, data la tua cultura cinematografica sterminata. Sai che invece io il film di Mel Gibson non l’ho mai visto? Dev’essere perché non amo molto lui come personaggio, però prima o poi conto di colmare la lacuna. Anzi, prima o poi mi piacerebbe fare un bello speciale sui film a tema religioso, a modo mio naturalmente… ma vista la lentezza con cui scrivo, è probabile che non se ne parli ancora per diversi anni.

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    2. Non ti sei perso niente, con Mel Gibson: tra i film a tema religioso credo proprio sia il peggiore. E non per gli attori che recitano in latino (quelli fanno sorridere e basta) ma per la furbata che senti dietro ad ogni scena: si sente che Gibson sta facendo tutto per acchiappare spettatori vincendo facile, torturando il suo protagonista più di Saw e Freddy Krueger messi insieme. E' un film che non lascia alcun segno e infatti non l'ho più sentito citare dopo la moda di quel momento: è un film di tortura con gente che parla strano. Un solo fotogramma di "Jesus Christ Superstar" lo seppellisce in un attimo :-P

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  4. La "sensualità" di San Sebastiano martirizzato è stata una delle ossessioni (sicuramente lo saprai) di Yukio Mishima, che gli dedicò pagine intrise di emozione ne "Confessioni di una maschera".
    Le immagini e la trama del film mi hanno fatto pensare subito a lui.

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    1. Sì, in effetti Mishima, con il suo culto estremo del corpo, era il tipo di persona che più di tutte poteva farsi attrarre da un certo tipo di iconografia. I maligni direbbero anche che, da omosessuale, questo fosse inevitabile, ma io credo piuttosto che questo avesse più che altro a che fare con la sua perenne fascinazione per la morte.

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  5. Il film di Ferrara sembra avere qualche elemento delle religioni/filosofie dell'estremo oriente :O
    Potrei anche tentare la visione, anche se i vampiri mi ripugnano abbastanza.
    L'altro mi sembra un tantino kitsch o.O Che poi, il tema dell'estasi e del dolore è un classico tra santi e martiri... La locandina mi ha richiamato alla memoria il san Sebastiano di Cosmè Tura, che pure non è affatto sensuale! (Son strana, sì ^^)

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    1. Su The Addiction ti do ragione, anche se ho solo accennato la questione, senza approfondirla, per non andare fuori tema (del resto l'accenno ai tibetani, presente in una battuta del film e non mio, mi fa ritenere che fosse un'idea dello stesso Ferrara). E' un film con delle scene forti, non lo nego, ma secondo me i motivi di interesse sono tanti e tali che questo passa in secondo piano. La visione di Sebastiane penso possa essere più ostica, specie se non si è abituati a un certo tipo di cinema, ma che dire, io l'ho adorato...

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  6. Mi chiedevo appunto quando avresti ripreso il tema.
    Interessante il vampirismo come metafora della dipendenza. Gli da una connotazione molto moderna.

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    1. L'idea iniziale era quella di non far passare troppo tempo tra un capitolo e l'altro ma le festività natalizie ci hanno messo lo zampino :) Vampirismo e dipendenza? Sono due termini che stanno ad indicare la stessa cosa, se ci pensiamo bene...

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  7. Pur facendo le debite differenze, la trama del film di Jarman mi ha richiamato alla mente Furyo con David Bowie, con quell'impasto di amore-odio, attrazione-repulsione tra il comandante giapponese e il prigioniero britannico. Che infatti va a finire male.

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    1. La principale analogia, secondo me, è il desiderio neanche troppo inespresso di Sebastiane/Celliers di morire, sebbene per ragioni diverse. Sono sicuro che la lettura del libro aggiungerà qualche altro tassello al puzzle - ce l'ho lì che mi aspetta da un po' :-)

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    2. Meno male che i libri sono oggetti pazienti, non oso pensare se fossero come gli esseri umani. :-)

      Mi sono dimenticata di aggiungere un pensiero sull'altro film, The Addiction relativo alla tua domanda: "E se fosse, più banalmente, uno stato della mente?" Non è tanto banale, in quanto Milton nel suo Paradiso perduto fa dire a Satana: "“The mind is its own place and in itself can make a heaven of hell, a hell of heaven…” Quindi sei in buona compagnia!

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    3. Una citazione azzeccatissima, grazie! Quasi mi dispiace di non averla usata nel post... e a tal proposito... ha ancora senso oggi parlare di paradiso perduto?

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