martedì 1 novembre 2022

Breve storia dell'ira

Il Bodhisattva Vajrapani
Abbiamo parlato di odio, ma resta da fare un piccolo passo indietro e domandarsi che cosa gli permetta di germogliare e crescere, perché è evidente che un sentimento così devastante non può sedimentare in un animo sereno, ma attecchisce solo laddove lo spirito sia predisposto all’ira. Tutti conosciamo quella profonda alterazione dello stato emotivo che è il sintomo di un’avversione profonda; la sua caratteristica è la distruttività, perché si manifesta sempre in modo violento e talora non si esaurisce neppure con l’annientamento di chi o di ciò che lo ha generato, finendo per alimentarsi da sé in una spirale infinita.
Le due religioni più diffuse in Giappone vedono l’ira in maniera differente. 
Lo Shintoismo non ha dogmi veri e propri e quindi non si occupa nello specifico della questione, ma il suo fine è fornire una serie di insegnamenti positivi che in parole semplici possono essere riassunti nel condurre una vita semplice e gioiosa in armonia con le persone e la natura, il che include naturalmente anche la correttezza nei rapporti personali e il dare il giusto valore ai sentimenti degli altri. Non seguire questi precetti porta a divenire (e rimanere) impuri, ma ha effetti funesti anche sugli altri. Difatti, per lo Shintoismo le anime felici alla morte diventano spiriti ancestrali, mentre chi muore in preda all’angoscia diventa un fantasma (yūrei); in particolare, chi perisce per mano altrui non può trovare la pace, ma sarà pervaso dal rancore (urami) e diventerà uno yūrei, uno spirito rancoroso in cerca di vendetta, oppure un funayūrei, se morto in mare, o un goryō, se proveniente dalle classi aristocratiche. 

Per il Buddismo l’ira è uno dei principali artefici delle emozioni negative (perturbatrici) che influenzano l’uomo e, allontanandolo dall’illuminazione, ne determinano la sofferenza. L’ira, l’ignoranza e l’attaccamento vengono descritti essi stessi come fantasmi o spettri della mente, oppure come “veleni”. L’ira è rappresentata talora dal serpente, come nell’iconografia di Vajrapani, una delle personificazioni del Budda, avvolto da uno o più serpenti dell’ira, che controlla con la forza della compassione; altre volte l’ira è associata al gallo, come si evince dall’iconografia della Ruota della vita (Bhavachakra), al cui centro c’è un albero (non sempre ritratto) che simboleggia l’asse del mondo e attorno ad esso i tre veleni sotto forma di tre animali che si mordono la coda, a indicare che sono la forza motrice che muove la vita: oltre al gallo che esprime l’ira ci sono il serpente a esprimere la brama e la cupidigia e il maiale come incarnazione dell’ignoranza. 

Il Bhavachakra, la ruota della vita
Il Cristianesimo distingue fra le due cose, l’ira come vizio capitale e l’odio come peccato. L’esistenza di concetti come quello del vizio è indice di una dottrina morale semplice, che mira a controllare non solo l’azione, ma anche il pensiero: si potrebbe dire che occuparsi dei vizi è la maniera cristiana di fare un processo alle intenzioni, giacché i vizi sono moti dell’animo e, come tali, del tutto naturali. Difatti, l’ira di dio è “cosa buona e giusta”: la liturgia descrive il “Dies Irae”, ovvero il giorno di terrore in cui Dio giudicherà l’umanità, e la sua ira dissolverà il mondo terreno in cenere, ma specifica che i buoni saranno salvati e che solo i peccatori irredenti saranno destinati al fuoco dell’inferno (una delle maniere in cui il vendicativo Dio biblico diviene misericordioso, ed è forse questo il vero miracolo del Cristianesimo). 
Ma già Lattanzio, attorno al 313, aveva scritto un’opera sull’ira di Dio ("De ira Dei"): la collera divina si oppone al dilagare del male, quindi non è solo ammissibile ma, in un certo senso, necessaria. 
Da questo possiamo dedurre, e dobbiamo ribadire, che l’ira di per sé non è negativa, perché un moto di stizza può sorgere nell’osservare una cosa qualunque, sia essa buona o cattiva; essa diventa un vizio quando la si fomenta e un peccato soltanto se le si dà un seguito, prima se si lascia che diventi carburante per il nostro odio, e poi se nel dare sfogo a questo odio compiamo un’azione malvagia, per esempio nel vendicarci di un torto (o presunto tale) che abbiamo subìto. 

Questa riflessione in filosofia è molto antica, la ritroviamo già in Platone (soprattutto, ma non solo, nella “Repubblica”) e in Aristotele (“Etica a Nicomaco”), che distinguono entrambi fra lo sdegno o irascibilità come impulso naturale e il suo uso o esercizio, che può essere lecito o illecito, giusto o sbagliato. Per Aristotele anche la virtù può trasformarsi in vizio se è carente o troppo pronunciata, e la via migliore è quella di mezzo, cioè il mantenersi a metà strada fra la mancanza di slancio nell’esercitare la virtù e il suo eccesso. 

Gli stoici, così attenti al tema della logica, non poterono che raccomandare di sradicare ogni impulso e irrequietezza dell’animo sul nascere. In origine i vizi capitali erano 8, come quelli enumerati dall’asceta greco Evagrio Pontico nel IV secolo, che li definisce “gli otto spiriti malvagi”: gola, lussuria, avarizia, ira, tristezza, accidia, vanagloria, superbia. In particolare, Evagrio descrive l’ira come una “passione furente”, che “con facilità fa uscir di senno quelli che hanno la conoscenza, imbestialisce l'anima e degrada l'intero consorzio umano”. In seguito, la predilezione del Cristianesimo per il 7, numero divino per eccellenza (giacché simboleggia il riposo di Dio dopo la creazione, ma anche in quanto somma del numero della trinità, il 3, e di quello delle virtù cardinali, il 4) ma dal profondo significato simbolico in molte altre culture, fece sì che la lista venisse ridotta, e già nel VI secolo Gregorio Magno, nei “Morali su Giobbe” (XXXI, XLV), parla di 7 vizi capitali. 
Ma Gregorio non si limita a enumerare sette vizi, li lega anche l’uno all’altro per stabilire una gerarchia fra di essi, a partire dal primo e più grave, la superbia, il peccato di Lucifero (e dell’uomo, che lo ha ereditato da Adamo) contro Dio: dalla superbia deriva l’invidia, dall’invidia l’ira, e così via. 

In tutto il corso del Medioevo i concetti di vizio e virtù hanno molta rilevanza. San Tommaso si occupa diffusamente del tema del male, che dà il nome alla sua opera più famosa (“Le Questioni disputate”, volume 6 e 7: “Il male”), e Dante Alighieri nella “Divina Commedia” da un lato ricorre alle allegorie animali per descrivere i vizi (nell’”Inferno” le tre fiere, la lonza, il leone e la lupa, simboleggiano nell’interpretazione classica la lussuria, la superbia e l’avarizia), dall’altro descrive la Chiesa come un mostro dalle sette teste (sette come i sette vizi, Purgatorio XXXIII). 
Anche Sant’Agostino interviene sul tema, descrivendo i vizi, inclusa l’ira, come forme di libidine: “V'è dunque la libidine di vendicarsi che si denomina ira, v'è la libidine di possedere ricchezze che è l'avarizia, v'è la libidine di spuntarla a tutti i costi che è la caparbietà, c'è la libidine di vantarsi che si denomina ostentazione. Vi sono molte e svariate libidini, di cui alcune hanno un proprio nome, altre non l'hanno. Infatti, non si può stabilire con esattezza come si denomina la libidine del dominare. Eppure, anche le guerre civili attestano che influisce moltissimo sulle coscienze dei tiranni.” (“La Città di Dio”, libro XIV).
Le allegorie animali, per la verità, non sono esclusiva di Dante ma un motivo ricorrente del Medioevo, e sono volte a sottolineare il carattere animalesco dell’uomo in preda ai vizi. La “Cavalcata dei vizi“ riprende la concezione della concatenazione dei vizi di Gregorio Magno; compare per la prima volta nelle miniature dei manoscritti attorno all’anno 1390 e solo verso la metà del secolo successivo si diffonde nella pittura murale, specialmente nella Francia sudoccidentale e in alcune aree di Liguria e Piemonte(*), divenendo così fruibile al volgo. 

Aimone Duce, Allegory of Vices (particolare), ca.1430, fresco, Villafranca Piemonte
Si chiama cavalcata perché vengono raffigurate sette persone in groppa ad animali che corrispondono ad altrettanti vizi, e perché simboleggia un viaggio perverso che porta all’inferno, giacché le persone sono legate fra loro da una catena(**) trascinata dai demoni verso le fauci di un drago o di un Leviatano, cioè verso la bocca dell’Inferno. Per convenzione, in genere la superbia è simboleggiata dal leone, l’avarizia dalla scimmia o dal tasso, la lussuria dalla capra o dal caprone, l’invidia dal cane, la gola dal maiale o, meno spesso, dal lupo, l’ira dall’orso, dal cinghiale o dal leopardo e l’accidia dall’asino. 
Si suppone che la rappresentazione di persone (che a loro volta rappresentano tipi umani) a cavalcioni di animali possa essere un retaggio dell’arte classica, in cui le divinità o gli eroi erano spesso raffigurati nell’atto di cavalcare o calpestare degli animali, come Mitra sopra un toro, Afrodite su un cigno, Dioniso su un ghepardo o Eracle sul leone di Nemea, ma se questo è vero i pittori cristiani avrebbero volutamente operato un’inversione di significato, giacché se gli dèi incombono sugli animali perché sono in grado di soggiogare le forze della natura che questi incarnano, l’uomo invece si “siede” su di loro allo stesso modo in cui è solito adagiarsi sul vizio. 

Parlando di ira, che è il vero tema di questo post, l’esempio di Dioniso è quanto mai calzante, perché come detto il dio era spesso raffigurato seduto su un ghepardo (o leopardo, o pantera) e, assodata l’associazione fra il “dio del vino” e l’ira (l’ebbrezza come stato alterato di coscienza può scatenare l’ira), i pittori dell’Europa continentale potrebbero aver scelto di ritrarre al posto del ghepardo, che non conoscevano, un animale autoctono come i già citati orso o cinghiale. Con l’avvento della cosiddetta ”era della ragione”, l’Illuminismo, molti concetti medievali vengono accantonati e con essi quelli di vizio e virtù, semplicemente perché sono contrari all’imperante visione del progresso e sviluppo umano che riguardano principalmente lo sviluppo industriale, commerciale ed economico, con poco o nessuno spazio per preoccuparsi dell’interiorità dell’uomo. 
Soltanto nell’Ottocento questi ritornano in auge, sia nella filosofia (Kant soprattutto) sia nella teologia, che mira a far leva su un insegnamento morale che usa l’inferno come spauracchio per i fedeli che indulgono nei vizi. Tuttora, il Catechismo si basa più su un sistema ben rodato di ricompense e punizioni promesse che sullo sviluppo della logica e della dialettica come qualità indispensabili per vivere la fede; il rovescio della medaglia è che ci restano opere, come le Cavalcate dei vizi, che provano che il Cristianesimo, lungi dall’affossare l’arte, ha prodotto nel suo ambito opere di indubbio valore. 
Chiudo questo lungo ma spero interessante intermezzo con un’ultima citazione letteraria, decisamente più moderna delle precedenti, perché Philip K. Dick e Roger Zelazny nel romanzo del 1976 “Deus Irae”, scritto a quattro mani, ci offrono un divertente ribaltamento di prospettiva: sulla Terra, sopravvissuta a un terzo conflitto mondiale, si afferma la nuova setta dei Servi dell’ira, il cui Dio dell’ira (incarnato secondo alcuni da Carlton Lufteufel, uno dei gerarchi responsabili dell’ultima guerra) è malvagio e gode nel torturare gli uomini, che dunque agognano la morte per liberarsi delle proprie sofferenze. 

(*) Se avete un programma una gita in Piemonte, potreste recarvi a Missione di Villafranca ad ammirare la “Cavalcata dei vizi” in una lunetta della cappella, oppure a Bastia Mondovì nella Chiesa di S. Fiorenzo, oppure ancora a Grosso Canavese nella Chiesa di S. Ferreolo. 
(**) Si chiama proprio “catena del vizio”: il significato è che una volta dato sfogo a un vizio è più semplice indulgere in un altro, perché uno “tira l’altro”, come i cioccolatini di quella famosa marca.

Eugène Delacroix, La barca di Dante (1822)



Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di  tale progetto,  esso rappresenta la parte 54 in un totale di 100.
Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte del progetto "Ju-On, speciale rancore" che è iniziato qui lo scorso 7 settembre. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 54° candela...

2 commenti:

  1. Qui sono certamente più preparato, infatti conoscevo quanto meno la concezione buddhista riguardo l'ira e alcuni dei riferimenti teologici relativi al cristianesimo.
    Sul piano letterario posso proporre (ma ci allontaniamo parecchio dal tema principale) "Il giocattolo rabbioso" di Roberto Arlt, in cui il protagonista Silvio Astier è costantemente in preda a un rancore feroce verso chi ha denaro e vive meglio di lui, un rancore che diventa quasi una malattia.

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    1. In effetti sembra che in quel caso il rancore derivi da una forma patologica di invidia per le altrui fortune; ma ti ringrazio comunque per il contributo, dato che per motivi di spazio non ho potuto approfondire molto la parte letteraria.

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