sabato 5 novembre 2022

2020: nuovi rancori

Qualche giorno fa avevamo cercato di analizzare, seppur ormai immersi in un cinema horror ormai quasi totalmente globalizzato, le differenze stilistiche nella rappresentazione dei fantasmi orientali e dei fantasmi occidentali. Avevamo concluso che le costruzioni ormai stereotipate di entrambi i generi non obbligano ormai più gli spettatori a una profonda familiarità con una cultura straniera ma, al contrario, l'ambientazione, la trama e molte delle caratteristiche stilistiche dei film offrono spunti sufficienti per trovare in esso qualcosa di estremamente familiare. Nonostante ciò, appare incredibile come opere come The Ring o The Grudge siano riuscite a ottenere così tanti consensi in Occidente, in quell’Occidente che tende a vedere il cinema dell'orrore come un prodotto a buon mercato, un prodotto usa e getta, adatto solo a regalarci qualche spavento e a spegnerci il cervello per un’ora e mezza. In Oriente sembrano avere una visione completamente diversa del genere: a loro piace creare un'aura, una sensazione di terrore, che magari non fa saltare lo spettatore sulla sedia ma che gli farà pensare a ciò che ha appena visto per molti giorni. In breve, in Oriente realizzano film horror per adulti e non per adolescenti. Questa introduzione per dire che, no, non mi sono dimenticato dell’ultimo “The Grudge” americano del 2020, quello che la maggior parte degli appassionati del franchise ha drammaticamente stroncato, seppellendolo sotto una montagna di critiche feroci. Non mi sono dimenticato, ma cercavo di rimandarne il più possibile la visione e, di conseguenza, il momento di parlarne. 
Sarò sincero con voi: quando una sera di qualche mese fa mi sono deciso a superare le mie diffidenze e a guardarlo, le mie aspettative erano ben al di sotto dello zero: prevedevo una ronfata mitologica su quello stesso divano che ha già visto il sottoscritto protagonista di crolli d’attenzione altrettanto epici. Ebbene, com’è andata? Non del tutto male, ma una volta digerita l'inutilità che permea il film, e una volta ottenuta conferma del target adolescenziale dell’opera, in tutta franchezza devo ammettere che alcune cose buone le ho trovate. 

Gli artisti innanzitutto sono piuttosto validi e hanno portato a termine a testa alta il loro non facile compito (sto parlando di gente come Andrea Riseborough, John Cho, Lin Shaye e Demian Bichir, i cui nomi probabilmente non vi diranno nulla ma che sicuramente avrete visto in milioni di film), gli effetti CGI erano decenti e la fotografia perfetta per il tipo di film, dai toni un po’ noir, che Nicolas Pesce aveva in mente di realizzare. Mi ripeto, perché dirlo una sola volta non è mai abbastanza: in Oriente realizzano film horror per adulti e non per adolescenti, e “The Grudge” è un film che può entusiasmarti solo se hai meno di 17 anni e vai al cinema per far casino con gli amici, importunando gli astanti, versando bibite e spargendo cartacce e popcorn in ogni anfratto.

Il problema, come al solito, sono le aspettative: non c’è nulla che puoi davvero aspettarti se ti metti in testa di guardare un qualcosa che esplicitamente cerca di resuscitare un altro qualcosa che è morto e sepolto da tanti anni. Ricordo che, dopo una manciata di minuti dall’inizio della visione, mi sono sorpreso a pensare: “Non sembra neanche male, peccato solo che si intitoli Grudge”. Tale pensiero mi ha accompagnato, tra uno sbadiglio e l’altro, fino ai titoli di coda. Quella logica di riprendere in mano una saga che aveva già detto pressoché tutto quello che aveva da dire ha in pratica trasformato ciò che stavo guardando in uno dei film più prevedibili di sempre, e ciò non mi consente, a conti fatti, di scrivere una recensione a cinque stelle. 

La nota positiva, invece, è che sorprendentemente non mi sono trovato ad assistere al reboot di un remake, come la maggior parte dei recensori prima di me avevano affermato. The Grudge 2020 è in realtà un sequel (o uno spin-off, se preferite): esso si svolge nella stessa sequenza temporale della versione americana del 2004 e si sviluppa parallelamente al sequel, sempre americano, del 2006. 
A differenza che in quest’ultimo, scopriamo che la maledizione è stata portata negli Stati Uniti da Fiona Landers, una collega dell’infermiera che si prendeva cura dell'anziana signora del primo film. In altre parole, la maledizione si trasferisce negli States seguendo due canali paralleli, uno con destinazione Pennsylvania (seguendo la Landers) e uno con destinazione Illinois (seguendo Allison, la ragazzina che nel secondo Grudge si era trasferita a Chicago). 
In omaggio alla tradizione troviamo anche qui una narrazione non lineare, nel senso che il film salta avanti e indietro nel tempo, in un modo che è drammaticamente più interessante che se tutto fosse stato rappresentato cronologicamente. Il nuovo The Grudge è composto da tanti segmenti identificati non con i nomi dei protagonisti, bensì con la data in cui essi si svolgono. Ciò dovrebbe rendere più agevole la loro collocazione all’interno della timeline, se non che a volte all’inizio dei diversi segmenti viene precisato in che anno siamo e altre volte no, come se Nicolas Pesce (o chi per lui) se ne fosse dimenticato. 

Nel 2004, l'infermiera Fiona Landers lascia la propria abitazione a Tokyo, disturbata dagli eventi a cui ha assistito. Fiona informa la sua collega Yoko (personaggio che, come detto, ci riconduce al primo Grudge) che sta rientrando in America per riunirsi al marito Sam e alla giovane figlia Melinda. La maledizione di Kayako, tuttavia, segue Fiona, e la porta a uccidere la propria famiglia prima di suicidarsi. Ecco, quindi, che la casa di Fiona, al numero 44 di Reyburn Drive (il 44, come avrete intuito, è numero tutt’altro che casuale), si trasforma nel nuovo domicilio della maledizione di Ju-On. 
I detective Goodman e Wilson indagano sugli omicidi. Disorientato dall’aspetto sinistro dell’abitazione, Goodman si rifiuta di entrarvi mentre Wilson entra per esplorare la scena. All'uscita, quest’ultimo ha ormai perso la sanità mentale e, quando vede il fantasma di Fiona, tenta di suicidarsi sparandosi, ma senza successo. Viene ricoverato in un manicomio con il volto sfigurato mentre Goodman, saggiamente, smette di esaminare il caso. Poco dopo l'assassinio dei Lander l’agente immobiliare Peter Spencer prova a vendere la casa al 44 di Reyburn Drive e si imbatte nel fantasma di Melinda. Viene corrotto dalla maledizione e quando la a sera rientra a casa uccide Nina, la propria moglie incinta, prima di annegarsi nella vasca da bagno. 
Nel 2005, la coppia di anziani Faith e William Matheson si trasferisce nella casa. Faith soffre di demenza e di una malattia terminale. Dopo essersi trasferita, Faith viene contagiata dalla maledizione e inizia a vedere Melinda in giro per casa. La sua sanità mentale diminuisce rapidamente, costringendo William a chiamare Lorna Moody, una consulente per il suicidio assistito. Quest’ultima si rende presto conto di ciò che sta accadendo, salta in macchina e fugge, venendo tuttavia presto raggiunta dal fantasma di Sam. Nel 2006, la giovane Detective Muldoon si trasferisce in città con suo figlio Burke. Lei e Goodman, il suo nuovo partner, vengono chiamati nei boschi dove è stato scoperto il cadavere di Lorna. Goodman si sente a disagio quando si rende conto che Lorna era stata in visita al 44 di Reyburn Drive. Notando questo, Muldoon lo interroga, e lui le rivela ciò che accadde all’ex collega. Muldoon si lancia così in una solitaria ricerca sul caso, che le consentirà di risalire alle origini giapponesi della maledizione. Il cerchio quindi si chiude. Almeno per il momento. 

Almeno fino al giorno in cui è atterrata sulla piattaforma Netflix la serie “Ju-On: Origins”, miniserie in sei puntate della durata complessiva di circa tre ore, rilasciata a livello globale il 3 luglio 2020. Diretta da Sho Miyake su un soggetto di Hiroshi Takahashi e di Takashige Ichise, la serie “Ju-On: Origins” offre davvero pochissimi spunti di riflessione e, di conseguenza, non trovo alcuna valida ragione per dedicargli un intero post. Ne scriverò pertanto qui in breve. 
Dichiarando di basarsi su fatti realmente accaduti, senza tuttavia mai specificare quali (ma questo è un particolare che non ci deve sorprendere, visto che la verità è un concetto molto vago all'interno dell'horror), “Ju-On: Origins” ha dalla sua l’indiscutibile vantaggio di ritornare in Giappone, terra in cui anche le cose peggiori hanno una loro ragion d’essere. 
Un’opera horror con una trama che si srotola in un numero estenuante di ore è sempre difficile da far funzionare (basti vedere come si sono ridotte serie dal gran potenziale come The Walking Dead), ma la tradizione di Ju-On, fatta di narrazioni labirintiche e sovrapposte, che seguono i loro personaggi attraverso ampi periodi di tempo, è praticamente già molto vicina come concetto a una serie tivù. In altre parole, quella struttura, che ha aiutato il franchise a sopravvivere per due decadi, si converte molto bene al formato episodico proposto da Netflix. Ricordate cosa scrissi all’inizio di questo speciale a proposito della struttura di “Ju-On: the Curse”? Scrissi che era apprezzata particolarmente da coloro che avevano la necessità di interrompere la visione in funzione dei loro impegni quotidiani. E se il sistema modulare ben funzionava allora, a maggior ragione ben funziona oggi che quei “capitoli del DVD” si sono trasformati negli episodi di una serie, da gustare a piccole dosi o, perché no, da ingurgitare in un colpo solo in una maratona notturna. 
Come i numerosi lungometraggi di cui abbiamo parlato finora, “Origins” è incentrato su un’abitazione di Tokyo tra le cui mura si sono susseguite una quantità incalcolabile di atti violenti. La maledizione che deriva da essi si attacca a coloro che vi entrano, portando alla follia e alla morte. “Origins” tenta di ricostruire gli avvenimenti occorsi a un certo numero di personaggi tra la fine degli anni '80 e la fine degli anni '90. Il filo conduttore di ogni episodio è ovviamente la casa e qualcuno che ne è ossessionato per ragioni imprecisate. Sho Miyake, alla sua prima esperienza nell’horror, mette in scena uno spettacolo anomalo per quelli che sono i canoni del franchise. I fantasmi rancorosi sono spinti da parte, preferendo dare al contrario ampio risalto alla malvagità degli esseri umani, tra stupri, omicidi e altre nefandezze. Ambientata prima del primo film del franchise, la serie pretende di raccontare la "vera storia" dietro la mitologia di Ju-On, scavando nel mito e cercando di spiegare le origini dell'iconica casa stregata. In questo aspetto, tenendo conto di tutto quello che ci siamo detti in queste settimane sul blog, possiamo tranquillamente affermare che l’obiettivo è fallito. 

Cosa ci riserva adesso il futuro? Quando anni fa misi la parola fine allo speciale su Ring, sapevo bene che non era una fine definitiva: altri film erano in lavorazione e attendevano in coda il loro turno. Ma lo speciale era da chiudere e non potevo certo aspettare i tempi dell’industria cinematografica. Lo stesso discorso è valido per lo speciale che siamo in procinto di chiudere. L’arrivo di una seconda stagione di “Origins” non è da escludere (d’altra parte tutte le serie lasciano dei finali aperti nel caso che, non si sa mai, potessero arrivare altri soldi), ma tutto dipende dalla reazione degli spettatori che, nel caso di “Origins”, non mi è sembrata troppo entusiasta. Nel settembre 2020, nel corso di un’intervista rilasciata al magazine online Bloody Dusgusting, il regista Nicolas Pesce ha espresso interesse per un nuovo The Grudge ambientato in un altro tempo e/o in un altro luogo: "Penso che la cosa più importante sarebbe portarlo i posti diversi dal Giappone e dall'America, e potenzialmente anche lasciare l'era moderna. […] Sarebbe interessante tornare indietro nel tempo e vedere che forma aveva la maledizione in quel contesto. […] Sarebbe anche interessante vedere se la maledizione può attaccarsi a qualcuno al di fuori di una casa...”. 

Personalmente credo che sarei entusiasta di vedere Kayako trasportata nel Giappone del XVIII secolo. Non certo per vedere Kayako scontrarsi con Oiwa (ci mancherebbe altro), ma solo per confermare la mia opinione secondo la quale esisterebbe una netta corrispondenza tra le vicende narrate da Ju-On e quelle tradizionali di Yotsuya Kaidan. Contestualmente, ma senza troppa convinzione, Nicolas Pesce sarebbe apparso interessato anche a un remake americano di Sadako vs Kayako, ma dubito (e spero) che qualcuno possa mai davvero finanziare un orrore del genere. Per il momento, a chi è affamato di crossover posso solo consigliare il recupero di “Bunshinsaba vs. Sadako” (River Huang, 2016) e dei suoi tre sequel, film di produzione cinese che vedono Sadako coinvolta in un’altra ultraterrena tenzone contro un ghoul richiamato dalla maledizione del Bunshinsaba (a cui è dedicato l’omonimo film coreano del 2004 diretto da Ahn Byeong-ki). Ma questa è tutta un’altra storia e ne parlerò eventualmente altrove. 
Per oggi mi fermo qui. I film li abbiamo visti tutti e non ci siamo fatti mancare nemmeno libri, manga e videogiochi. L’unica cosa che ci rimane da fare è concludere il discorso che avevamo iniziato un mese fa. Ci ritroviamo tra pochi giorni, quindi, per l’ultimo post di questo speciale.

Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di  tale progetto,  esso rappresenta la parte 55 in un totale di 100.
Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte del progetto "Ju-On, speciale rancore" che è iniziato qui lo scorso 7 settembre. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 55° candela...

6 commenti:

  1. Se è un po' soporifero forse potrei pure vederlo, paradossalmente.
    Ma in fin dei conti ormai ho tagliato i ponti con il genere, suppongo che sto invecchiando male e ho voglia di cose più rassicuranti.

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    1. Se hai bisogno di un titolo davvero soporifero, potrei fartene un lungo elenco. Questo, credimi, è nulla in confronto a certe cose che mi sono trovato mio malgrado a guardare....

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  2. Mi manca la serie, per quanto riguarda il film che ho visto (e recensito), semplicemente potevano anche risparmiarselo, nonostante qualche cosa buona anch'io ho trovato.

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    1. Esatto, potevano risparmiarselo e risparmiarcelo. Davvero non comprendo tutto questo accanimento.

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  3. A me sono piaciute entrambe le opere, anche se quella giapponese non tanto quanto avrei sperato. Il remake americano ha come enorme difetto quello di non avere nulla di nipponico tranne l'idea originale, ma è cattivissimo e ha quella lunga, bella inquadratura finale che mette un po' di brividi.

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    1. Ecco, "cattivissimo" è un termine centrato. Alcune cose, come scrivevo sopra, sono interessanti, ma l'averle dovute per forza ficcare in un contesto "grudgiano" le ha deprezzate.

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