Ecco che è giunto il momento di affrontare una delle parti se vogliamo più spinose dell’intero speciale. E quando dico “spinose” intendo affermare che non sentivo davvero un gran bisogno di scriverlo, questo post. Se sono qui a farlo è solo perché uno speciale così lungo e approfondito non poteva dirsi completo se non citando, seppure brevemente, tutto ciò che è successo immediatamente dopo il travolgente successo del Ring di Hideo Nakata.
Immediatamente? Beh, non proprio, visto che ci vollero ben quattro anni affinché le case di produzione hollywoodiane si accorgessero del fenomeno Ring e se ne appropriassero.
Naturalmente, come accade sovente in questi casi, per Ring fu la consacrazione definitiva e il successo divenne planetario. Tra l’altro, è bene sottolineare che l’horror occidentale aveva trovato con Ring un nuovo canale dal quale attingere e con il quale potersi lasciare finalmente alle spalle i vecchi cliché del genere, quelli che da anni ormai avevano annoiato a morte anche i più irriducibili appassionati. Diciamocelo chiaramente: per quanto apprezzabili, se non in alcuni casi addirittura pregevoli, i numerosi tentativi di fare horror negli anni di fine millennio andavano poco più in là della riproposizione di situazioni viste e riviste un milione di volte, sfociando spesso in una sorta di horror-pop imbarazzante. Mi dispiacerebbe dover sminuire in poche righe il duro lavoro di centinaia di attori, registi e produttori, ma sarete certamente d’accordo con me quando dico che dodici film della serie “Venerdì 13”, dieci “Halloween”, nove “Hellraiser”, nove “Nightmare” e otto “Amityville” sono stati molto più che abbastanza.
Non che le cose in Oriente siano andate poi così diversamente, e lo prova il fatto che siamo qui, da quasi due mesi, a parlare di Ring in tutte le sue sfumature e derivazioni. Finalmente però, come dicevo, l’horror occidentale aveva trovato nuova linfa nella cultura di un paese sino a quel momento sottovalutato, o forse sarebbe meglio dire allegramente ignorato. E il remake? Com’è andato?
Direi che “The Ring”, tutto sommato, è andato piuttosto bene. D’altra parte più di quello che dico io ha valore quello che dice la storia e, sotto questo aspetto, l'adattamento di Ehren Kruger è stato giudicato da tutti maturo e intelligente, le performance artistiche di Naomi Watts e di Martin Henderson intense e affascinanti, mentre al regista Gore Verbinski (già celebre per The Mexican) è stato riconosciuto il merito di aver ben equilibrato il rispetto della trama con le necessità di un pubblico decisamente diverso da quello dell’originale. Insomma, per essere un remake non è andata affatto male.
In ultimo, a fronte di un costo di $48M (nemmeno poco), rientrò nella casse della Dreamworks una somma pari a cinque volte tanto. Naturalmente il primo punto sul quale si è andati ad agire, per adattare Ring al mercato statunitense, è stata la scelta dei personaggi: Sadako Yamamura, che qui viene ribattezzata con il più english-friendly nome di Samara Morgan, è decisamente lontana nell’aspetto dalla sua controparte giapponese. La classica rappresentazione dello Yūrei (幽霊), una fanciulla con una veste bianca e lunghi capelli corvini a nascondere il volto, non ha infatti alcun appeal nell’immaginario americano; non richiama alla mente quelle paure ancestrali insite nella tradizione nipponica; molto meglio quindi caratterizzare Samara in maniera completamente diversa, cucendole addosso un aspetto che richiama alla mente più l’indemoniata Regan di William Friedkin che uno spettro proveniente dall’oltretomba.
Il protagonista Asakawa, che in diverse altre occasioni era un uomo, nel Ring americano diventa Rachel Keller, una bella ragazza, molto bionda e molto americana, il cui volto viene offerto da una Naomi Watts a inizio carriera. La scelta è essa stessa molto americana perché va bene orrore e spaventi, ma la vaga possibilità che ci possa scappare una scena di sesso può essere una calamita ineguagliabile per il botteghino. Altri personaggi imprescindibili di The Ring sono il figlio di Rachel (lo Yōichi originale, che qui diventa Arian) e il coprotagonista Noah, ex compagno di Rachel (che fu Ryūji Takayama nel film di Nakata). Mettersi qui a raccontare trame e sottotrame di The Ring direi che è praticamente superfluo, considerato che a conti fatti non si discosta molto dal film che lo ha ispirato. È forse più interessante in questa sede mettere il Ring di Nakata e il remake di Verbinski fianco a fianco e provare a utilizzarli come strumento di confronto tra due culture molto lontane, e non solo geograficamente.
Per farlo possiamo semplicemente focalizzarci sulle due diverse versioni del video maledetto: il primo, quello di Nakata, proposto in calce a questo precedente articolo, il secondo inserito più in basso in questa pagina. Osserviamoli attentamente e proviamo insieme a trovare le piccole (grandi) differenze tra i due. Nel farlo, sorvoliamo sul significato del video descritto nel romanzo di Kōji Suzuki che in questi film è totalmente ignorato (un significato di cui abbiamo ampiamente discusso qui). A prima vista cosa salta agli occhi?
Beh, direi che la versione di Verbinski, quasi a garanzia del nome del regista, è decisamente più gore: dita mozzate, unghie strappate, cavalli uccisi o caprette mutilate… tutte immagini che non hanno alcun riscontro nel Ring giapponese. Sono anche presenti diversi oggetti a noi familiari: una scala a pioli, una sedia, un uomo alla finestra…
Viceversa, il Ring giapponese preferiva affidarsi a immagini decisamente più surrealiste: gli ideogrammi fluttuanti che suggeriscono l’eruzione di un vulcano, un gruppo di persone che si trascina a terra strisciando, un individuo con un ampio panno calato sulla testa, i primi piani intensi dell’occhio di Sadako con l’ideogramma sada (貞) in bella vista.
In parte nella scelta delle immagini sono confluite necessità culturali: il cavallo e la scala sono ovvi riferimenti a superstizioni nostrane (i ferri di cavallo portano bene, il passare sotto la scala porta male). Ma per Gore Verbinski c’era anche la necessità di realizzare un prodotto che potesse pienamente soddisfare il proprio pubblico. Il suo spettatore tipico aveva bisogno dello “spiegone”, ovvero aveva una necessità inconscia di far combaciare tutte le tessere dell’immenso puzzle che si stava dispiegando ai suoi piedi. Il video di Verbinski serve proprio a questo: la scala a pioli, la sedia, l’uomo alla finestra, avranno un riscontro nello svolgersi della trama e lo spettatore sarà invitato a pensare “Ah, ecco, ho capito”, anche quando non c’è niente da capire. Ciò che conta è che lo spettatore esca dal cinema soddisfatto, potendo crogiolarsi nel conforto della propria, vera o presunta, intelligenza. Questa ipotesi suggerisce che il pubblico di Verbinski sia fondamentalmente razionale, un pubblico che non si può maramaldeggiare gettando roba astratta in un horror.
Fantasmi, zombi e vampiri sono digeribili nella misura in cui viene data loro una concreta ragione di esistere, viceversa diventano inaccettabili. Vuoi infilarci uno zombi? Devi pensare a un fattore scatenante che sia scientificamente credibile. Come in un romanzo giallo, tutti i fili devono essere alla fine tirati; il minimo particolare sul quale l’autore decide di sorvolare rende il romanzo imperfetto.
Di contro, il pubblico orientale non ha bisogno di spiegazioni. Tutt’altro. Quasi mi verrebbe da dire che per esso è più importante lasciare alcuni passaggi irrisolti. Ed è forse per questo che Hideo Nakata ha preferito abbandonare la logica analisi del video descritto da Suzuki per gettarsi su una versione più astratta, ma decisamente più inquietante. Non che il video di Nakata non abbia una sua logica, ma è molto meno evidente e, per certi versi, un po’ forzata. Quell’individuo con quell’ampio panno calato sulla testa, che diverrà a un certo punto la chiave del mistero, lascia piuttosto perplessi. Chi è quel tizio? Cosa significa quella scena? Perché era presente nel video? Perché affidare la soluzione di un enigma a un’immagine così astratta? Probabilmente non esiste una risposta, anche se il panno sul volto potrebbe suggerire il comune rito di coprire il volto dei defunti (su quest'ultimo punto in altre occasioni avrei potuto scriverci un post, ma ora inizio ad essere un po' stanchino).
Comunque, mi verrebbe quasi da dire, la forza della versione giapponese sta nel celare mentre, al contrario, la forza del remake sta nel suo esatto opposto. Secondo una vecchia intervista che lo sceneggiatore Ehren Kruger rilasciò a suo tempo, sembrerebbe invece che sia lui che Verbinski, in fase di realizzazione del video maledetto, abbiano fatto di tutto per lasciare molti punti aperti alla libera interpretazione del pubblico, cercando quindi di ribaltare quanto aveva fatto Nakata. Una dichiarazione che mi lascia fortemente perplesso, visto che confermerebbe esattamente l’opposto di quelle che sono state le mie sensazioni. Non so quale possa essere la verità ma, se me lo permettete, preferisco rimanere della mia opinione. Opinione che, tra l’altro, è supportata dall’immagine stessa che i due registi hanno scelto per rappresentare il male: Sadako, se ci avete fatto caso, non mostra mai il proprio volto, mentre Samara lo esibisce invece piuttosto bene. Forse è proprio questo il punto a sfavore di “The Ring”, un film tutto sommato ben fatto, spesso curato nei particolari, ma di contro piuttosto artificioso e decisamente più debole a livello di atmosfera. Ma quindi? La sentenza finale? Quale vi suggerisco? La mia risposta non può che essere “entrambi”. Guardatevi la versione di Nakata se amate gli originali, e guardatevi il remake se ciò vi fa sentire più a vostro agio (anche perché, tra i tanti orrendi remake che Hollywood ci sta proponendo ormai da anni, quello di Ring è uno dei migliori).
Immediatamente? Beh, non proprio, visto che ci vollero ben quattro anni affinché le case di produzione hollywoodiane si accorgessero del fenomeno Ring e se ne appropriassero.
Naturalmente, come accade sovente in questi casi, per Ring fu la consacrazione definitiva e il successo divenne planetario. Tra l’altro, è bene sottolineare che l’horror occidentale aveva trovato con Ring un nuovo canale dal quale attingere e con il quale potersi lasciare finalmente alle spalle i vecchi cliché del genere, quelli che da anni ormai avevano annoiato a morte anche i più irriducibili appassionati. Diciamocelo chiaramente: per quanto apprezzabili, se non in alcuni casi addirittura pregevoli, i numerosi tentativi di fare horror negli anni di fine millennio andavano poco più in là della riproposizione di situazioni viste e riviste un milione di volte, sfociando spesso in una sorta di horror-pop imbarazzante. Mi dispiacerebbe dover sminuire in poche righe il duro lavoro di centinaia di attori, registi e produttori, ma sarete certamente d’accordo con me quando dico che dodici film della serie “Venerdì 13”, dieci “Halloween”, nove “Hellraiser”, nove “Nightmare” e otto “Amityville” sono stati molto più che abbastanza.
Non che le cose in Oriente siano andate poi così diversamente, e lo prova il fatto che siamo qui, da quasi due mesi, a parlare di Ring in tutte le sue sfumature e derivazioni. Finalmente però, come dicevo, l’horror occidentale aveva trovato nuova linfa nella cultura di un paese sino a quel momento sottovalutato, o forse sarebbe meglio dire allegramente ignorato. E il remake? Com’è andato?
Direi che “The Ring”, tutto sommato, è andato piuttosto bene. D’altra parte più di quello che dico io ha valore quello che dice la storia e, sotto questo aspetto, l'adattamento di Ehren Kruger è stato giudicato da tutti maturo e intelligente, le performance artistiche di Naomi Watts e di Martin Henderson intense e affascinanti, mentre al regista Gore Verbinski (già celebre per The Mexican) è stato riconosciuto il merito di aver ben equilibrato il rispetto della trama con le necessità di un pubblico decisamente diverso da quello dell’originale. Insomma, per essere un remake non è andata affatto male.
In ultimo, a fronte di un costo di $48M (nemmeno poco), rientrò nella casse della Dreamworks una somma pari a cinque volte tanto. Naturalmente il primo punto sul quale si è andati ad agire, per adattare Ring al mercato statunitense, è stata la scelta dei personaggi: Sadako Yamamura, che qui viene ribattezzata con il più english-friendly nome di Samara Morgan, è decisamente lontana nell’aspetto dalla sua controparte giapponese. La classica rappresentazione dello Yūrei (幽霊), una fanciulla con una veste bianca e lunghi capelli corvini a nascondere il volto, non ha infatti alcun appeal nell’immaginario americano; non richiama alla mente quelle paure ancestrali insite nella tradizione nipponica; molto meglio quindi caratterizzare Samara in maniera completamente diversa, cucendole addosso un aspetto che richiama alla mente più l’indemoniata Regan di William Friedkin che uno spettro proveniente dall’oltretomba.
Il protagonista Asakawa, che in diverse altre occasioni era un uomo, nel Ring americano diventa Rachel Keller, una bella ragazza, molto bionda e molto americana, il cui volto viene offerto da una Naomi Watts a inizio carriera. La scelta è essa stessa molto americana perché va bene orrore e spaventi, ma la vaga possibilità che ci possa scappare una scena di sesso può essere una calamita ineguagliabile per il botteghino. Altri personaggi imprescindibili di The Ring sono il figlio di Rachel (lo Yōichi originale, che qui diventa Arian) e il coprotagonista Noah, ex compagno di Rachel (che fu Ryūji Takayama nel film di Nakata). Mettersi qui a raccontare trame e sottotrame di The Ring direi che è praticamente superfluo, considerato che a conti fatti non si discosta molto dal film che lo ha ispirato. È forse più interessante in questa sede mettere il Ring di Nakata e il remake di Verbinski fianco a fianco e provare a utilizzarli come strumento di confronto tra due culture molto lontane, e non solo geograficamente.
Per farlo possiamo semplicemente focalizzarci sulle due diverse versioni del video maledetto: il primo, quello di Nakata, proposto in calce a questo precedente articolo, il secondo inserito più in basso in questa pagina. Osserviamoli attentamente e proviamo insieme a trovare le piccole (grandi) differenze tra i due. Nel farlo, sorvoliamo sul significato del video descritto nel romanzo di Kōji Suzuki che in questi film è totalmente ignorato (un significato di cui abbiamo ampiamente discusso qui). A prima vista cosa salta agli occhi?
Beh, direi che la versione di Verbinski, quasi a garanzia del nome del regista, è decisamente più gore: dita mozzate, unghie strappate, cavalli uccisi o caprette mutilate… tutte immagini che non hanno alcun riscontro nel Ring giapponese. Sono anche presenti diversi oggetti a noi familiari: una scala a pioli, una sedia, un uomo alla finestra…
Viceversa, il Ring giapponese preferiva affidarsi a immagini decisamente più surrealiste: gli ideogrammi fluttuanti che suggeriscono l’eruzione di un vulcano, un gruppo di persone che si trascina a terra strisciando, un individuo con un ampio panno calato sulla testa, i primi piani intensi dell’occhio di Sadako con l’ideogramma sada (貞) in bella vista.
In parte nella scelta delle immagini sono confluite necessità culturali: il cavallo e la scala sono ovvi riferimenti a superstizioni nostrane (i ferri di cavallo portano bene, il passare sotto la scala porta male). Ma per Gore Verbinski c’era anche la necessità di realizzare un prodotto che potesse pienamente soddisfare il proprio pubblico. Il suo spettatore tipico aveva bisogno dello “spiegone”, ovvero aveva una necessità inconscia di far combaciare tutte le tessere dell’immenso puzzle che si stava dispiegando ai suoi piedi. Il video di Verbinski serve proprio a questo: la scala a pioli, la sedia, l’uomo alla finestra, avranno un riscontro nello svolgersi della trama e lo spettatore sarà invitato a pensare “Ah, ecco, ho capito”, anche quando non c’è niente da capire. Ciò che conta è che lo spettatore esca dal cinema soddisfatto, potendo crogiolarsi nel conforto della propria, vera o presunta, intelligenza. Questa ipotesi suggerisce che il pubblico di Verbinski sia fondamentalmente razionale, un pubblico che non si può maramaldeggiare gettando roba astratta in un horror.
Fantasmi, zombi e vampiri sono digeribili nella misura in cui viene data loro una concreta ragione di esistere, viceversa diventano inaccettabili. Vuoi infilarci uno zombi? Devi pensare a un fattore scatenante che sia scientificamente credibile. Come in un romanzo giallo, tutti i fili devono essere alla fine tirati; il minimo particolare sul quale l’autore decide di sorvolare rende il romanzo imperfetto.
Di contro, il pubblico orientale non ha bisogno di spiegazioni. Tutt’altro. Quasi mi verrebbe da dire che per esso è più importante lasciare alcuni passaggi irrisolti. Ed è forse per questo che Hideo Nakata ha preferito abbandonare la logica analisi del video descritto da Suzuki per gettarsi su una versione più astratta, ma decisamente più inquietante. Non che il video di Nakata non abbia una sua logica, ma è molto meno evidente e, per certi versi, un po’ forzata. Quell’individuo con quell’ampio panno calato sulla testa, che diverrà a un certo punto la chiave del mistero, lascia piuttosto perplessi. Chi è quel tizio? Cosa significa quella scena? Perché era presente nel video? Perché affidare la soluzione di un enigma a un’immagine così astratta? Probabilmente non esiste una risposta, anche se il panno sul volto potrebbe suggerire il comune rito di coprire il volto dei defunti (su quest'ultimo punto in altre occasioni avrei potuto scriverci un post, ma ora inizio ad essere un po' stanchino).
Comunque, mi verrebbe quasi da dire, la forza della versione giapponese sta nel celare mentre, al contrario, la forza del remake sta nel suo esatto opposto. Secondo una vecchia intervista che lo sceneggiatore Ehren Kruger rilasciò a suo tempo, sembrerebbe invece che sia lui che Verbinski, in fase di realizzazione del video maledetto, abbiano fatto di tutto per lasciare molti punti aperti alla libera interpretazione del pubblico, cercando quindi di ribaltare quanto aveva fatto Nakata. Una dichiarazione che mi lascia fortemente perplesso, visto che confermerebbe esattamente l’opposto di quelle che sono state le mie sensazioni. Non so quale possa essere la verità ma, se me lo permettete, preferisco rimanere della mia opinione. Opinione che, tra l’altro, è supportata dall’immagine stessa che i due registi hanno scelto per rappresentare il male: Sadako, se ci avete fatto caso, non mostra mai il proprio volto, mentre Samara lo esibisce invece piuttosto bene. Forse è proprio questo il punto a sfavore di “The Ring”, un film tutto sommato ben fatto, spesso curato nei particolari, ma di contro piuttosto artificioso e decisamente più debole a livello di atmosfera. Ma quindi? La sentenza finale? Quale vi suggerisco? La mia risposta non può che essere “entrambi”. Guardatevi la versione di Nakata se amate gli originali, e guardatevi il remake se ciò vi fa sentire più a vostro agio (anche perché, tra i tanti orrendi remake che Hollywood ci sta proponendo ormai da anni, quello di Ring è uno dei migliori).
A questo punto dovrei forse accennare al sequel del The Ring americano, o magari dedicarci un intero articolo. Non credo che la seconda ipotesi possa mai realizzarsi, talmente povero di contenuti è stato, a mio modesto parere, “The Ring 2”. Qualche parola in merito tuttavia posso spenderla, giusto per non lasciare nulla di intentato: un paio di anni dopo il remake di Gore Verbinski, la DreamWorks incaricò nuovamente Ehren Kruger di scrivere la sceneggiatura di un secondo episodio che potesse iniziare laddove The Ring era terminato. A partire da un budget simile a quello che fu appannaggio di Verbinski, in gran parte speso per le impressionanti sequenze in CGI, il sequel riuscì comunque a terminare di gran lunga in positivo, incassando circa $150M worldwide.
Alla cabina di regia venne chiamato nientepopodimeno che l’ormai leggendario artefice del primo grande successo della saga, quell’Hideo Nakata che ne frattempo aveva ampliato la sua notorietà internazionale con il fondamentale Dark Water (2002), anch’esso tratto da un racconto di Kōji Suzuki. Ed è proprio a Dark Water che il secondo capitolo americano di The Ring strizza di più l’occhio, soffermandosi testardamente su quel rapporto madre-figlio/a che nell’originale, seppur presente, era stato lasciato un po’ andare. Infine, mentre scrivo queste righe da qualche parte negli Stati Uniti il regista spagnolo F.J. Gutiérrez sta mettendo in post-produzione il terzo capitolo della serie: Rings. Annunciato e smentito più volte nel corso degli anni, Rings dovrebbe finalmente uscire nelle sale quest’autunno e, stando alle dichiarazioni del regista, dovrebbe essere ambientato 13 anni dopo gli avvenimenti del secondo capitolo. Particolare, questo, che segna un distacco netto dalla serie originale che, come senz’altro ricorderete, alla terza prova aveva sorpreso tutti con un prequel. Non sono molto ottimista ma, come si dice in questi casi, mai mettere il carro davanti ai buoi. Staremo a vedere.
Alla cabina di regia venne chiamato nientepopodimeno che l’ormai leggendario artefice del primo grande successo della saga, quell’Hideo Nakata che ne frattempo aveva ampliato la sua notorietà internazionale con il fondamentale Dark Water (2002), anch’esso tratto da un racconto di Kōji Suzuki. Ed è proprio a Dark Water che il secondo capitolo americano di The Ring strizza di più l’occhio, soffermandosi testardamente su quel rapporto madre-figlio/a che nell’originale, seppur presente, era stato lasciato un po’ andare. Infine, mentre scrivo queste righe da qualche parte negli Stati Uniti il regista spagnolo F.J. Gutiérrez sta mettendo in post-produzione il terzo capitolo della serie: Rings. Annunciato e smentito più volte nel corso degli anni, Rings dovrebbe finalmente uscire nelle sale quest’autunno e, stando alle dichiarazioni del regista, dovrebbe essere ambientato 13 anni dopo gli avvenimenti del secondo capitolo. Particolare, questo, che segna un distacco netto dalla serie originale che, come senz’altro ricorderete, alla terza prova aveva sorpreso tutti con un prequel. Non sono molto ottimista ma, come si dice in questi casi, mai mettere il carro davanti ai buoi. Staremo a vedere.
Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto, esso rappresenta la parte 22 in un totale di 100. Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte dello Speciale Ghost in the Well che è iniziato qui lo scorso aprile. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 22° candela...
Stavolta ti ho seguito decisamente meglio, avendo visto sia i due Ring americani che Dark Water. Devo però dire che Samara me la ricordo chiaramente mostrata solo in Ring 2, mentre nel primo mi ricordavo che la sua figura avesse connotati incerti, più accennati che mostrati.
RispondiEliminaLo screenshot del volto di Samara che ho inserito qui sopra nel post proviene però dal primo film. Nettamente più visibile il suo volto rispetto a quello di Sadako, della quale, nel primo Ring, si intravedeva soltanto un occhio....
EliminaStupenda "quadratura del cerchio"! ^_^
RispondiEliminaGià mi manca il tuo speciale e spero che l'uscita di "Rings" ti farà uscire di nuovo fuori dal pozzo :-P
Riguardo al nome americano, la mia tesi è che sia stato scelto togliendo una "r" a Samarra, che per gli anglofoni è il simbolo della "morte inevitabile". (Per noi italiani è invece la sua storpiatura Samarcanda.) Puoi fuggire lontano ma è lì che ti attende Samar(r)a...
Per finire... tratterai anche le parodie? O lo sberleffo a fumetti di Rat-Man? :-D
Da qualche parte avevo letto che il nome "Samara" derivava dalla contrazione di "Sadako Yamamura", da cui erano state prelevate le prime due lettere del nome e le ultime quattro del cognome. In seguito "Sa-Mura" si era trasformato in "Sa-Mara"...
EliminaP.S.
RispondiEliminaQuello americano è il primo Ring che ho visto. Era il primo anno in cui vivevo solo e ho avuto la bella idea di passare la serata con horror. Essendo abituato alle minchiate anni Novanta andavo sul sicuro... Invece alla fine rimasi inchiodato sul divano, a ripetermi: "Se ora squilla il telefono mi cago addosso!"
Poi è iniziato il viaggio, coi film originali e i romanzi di Suzuki: ed ora ho completato il viaggio con te ^_^
Grazie, ma il viaggio non è ancora finito ... ^_^
EliminaVerbinski ha fatto un lavoro quantomeno sufficiente nel primo The Ring, il secondo capitolo francamente se lo potevano risparmiare....
RispondiElimina...e probabilmente potevano risparmiarsi pure il terzo. Non so perché, ma ho questa spiacevole sensazione...
EliminaIo diffido sempre dei remake, preferisco gli originali. In questo caso, avendo solo visto il remake americano di Ring, sono rimasta vincolata a questa versione che mi è piaciuta. Devo dire, però, che dei due video per me è più suggestivo il primo: quegli uomini che scivolano sul terreno e quello con la testa avvolta nel drappo bianco sono abbastanza inquietanti. Il dire e non dire, come il vedo/non vedo fa più effetto, senza contare che è molto ma molto più suggestivo il volto coperto dai lunghi capelli corvini di Sadako che l'immagine horror di Samara con quel viso deturpato.
RispondiEliminaDevo recuperare la versione originale del film, a questo punto. Sono davvero curiosa.
Alcuni sono rimasti delusi dal Ring originale, una volta visto il remake. Spero non accada anche a te.
EliminaAnch'io comunque seguo la politica dell'originale: il problema è che tante volte ti trovi a guardare un remake senza esserne consapevole...
Confrontare i due film? Per me è impossibile. L'idea (del video, della maledizione dei sette giorni, ecc...) era finalmente una boccata d'aria fresca e mi ha sinceramente impressionato. Ho visto per primo il film americano, quando ho visto quello giapponese l'effetto sorpresa era scomparso, ma forse se l'ordine fosse stato inverso è quello che mi sarebbe piaciuto di più: impossibile dire.
RispondiEliminaCredo anch'io che sia così. I due film sono troppo simili per poter valutare serenamente quale sia il migliore dei due,
EliminaSono un po' confusa sulla versione che ho visto io... però voglio vedere anche l'altra! E mi sa che mi manca quella giapponese...
RispondiEliminaProbabile che tu abbia visto il remake americano. Si tratta della versione che qui da noi è circolata di più...
EliminaMi ha colpito molto la tua frase "la forza della versione giapponese sta nel celare mentre, al contrario, la forza del remake sta nel suo esatto opposto." A parte il campo cinematografico, mi viene da pensare che sia proprio questa la differenza sostanziale tra la cultura orientale e quella occidentale.
RispondiEliminaÈ un’osservazione molto vera la tua, anche se non credo che questo sia necessariamente un bene. Ad esempio, in alcune culture c’è un estremo pudore che impedisce di dimostrare i sentimenti con parole o gesti fisici e in linea di principio sono d’accordo che l’amore vada dimostrato con i fatti e non sbandierato, ma nella pratica mi piace ricevere parole o gesti affettuosi da chi amo (e darne a mia volta).
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