lunedì 25 settembre 2023

Da donna a strega: piccolo intermezzo cinematografico (Pt.1)

L'INTRODUZIONE SI TROVA QUI

Questo articolo e quello successivo, ve lo anticipo fin d’ora, tratteranno di cinema. Prima però di entrare nel vivo dell’argomento, vorrei condividere una riflessione con voi. Di recente ho riesaminato la storia di questa serie di post e mi sono reso conto che la media di pubblicazione dei vari articoli che la compongono è imbarazzante: infatti, l’introduzione e il primo articolo risalgono a ben sei anni fa, cioè al lontano 2017, cui sono seguiti 3 post nel 2018, 2 nel 2019, 2 nel 2020, 4 nel 2021 e 2 nel 2022. Sono tutti articoli scritti molto prima del 2017, ma rimaneggiati molte volte prima della pubblicazione, eppure ciò non basta a spiegare il ruolo da “Cenerentola” cui, pur senza farlo apposta, li ho relegati. Forse la ragione è da ricercarsi nel fatto che questo blog tratta molti argomenti diversi, che alcuni di questi, per motivi “di calendario”, hanno sempre finito per avere la precedenza, e anche forse nella mia cronica disorganizzazione. Comunque, quel che mi resta per mandare avanti il progetto, da ora in avanti e con poche eccezioni, sono appunti sparsi slegati fra loro, nulla che possa essere proposto qui così com’è. 
Quindi, siamo al punto in cui questa serie di post potrebbe diramarsi in più direzioni, alcune impreviste, portandomi via molto tempo e lavoro e dilatandosi per chissà quanto altro tempo ancora, oppure cessare del tutto. Non so onestamente quale delle due soluzioni sia preferibile… Ma lasciamo la questione in sospeso e torniamo al cinema. 
Credo sia giunto il momento di proporvi una carrellata di film legati al tema della stregoneria, che traggono ispirazione dal folclore o che più in generale ritengo attinenti a questi post. Lungi da me pensare di poter approfondire e perfino nominare tutte le pellicole che trattano di questi argomenti: sarebbe oggettivamente eccessivo, per le mie forze e per la mia limitata cultura cinefila. Non si tratta proprio di recensioni: semplicemente, ho messo insieme una serie di titoli (sia classici che recenti e/o misconosciuti) che comprendono sia rappresentazioni abbastanza canoniche del fenomeno sia storie che, a mio parere, riescono a esaminare la questione con un taglio originale o sfruttando spunti inconsueti, anche se non si può sempre parlare di film del tutto riusciti. Per ovvi motivi, si tratta quasi sempre di horror. 

Vi dico già cosa NON troverete qui: tutto quel un filone di film più o meno famosi che affrontano il tema stregonesco nel senso più “ristretto” del patto di un singolo col Diavolo, dal cult “Rosemary’s Baby” di Roman Polański (1968), tratto dall’omonimo romanzo di Ira Levin, fino a “La Macchia della morte” (1971) di Paul Wendkos, solo per citarne un paio; non troverete titoli come “Giovani streghe” (Andrew Fleming, 1996) o “Le streghe di Eastwick” (George Miller, 1987), non perché siano più, diciamo così, mainstream degli altri, ma perché banalmente non li ho mai visti; non troverete tutti i film orientali ispirati al folclore, sia perché ne parlo già anche troppo in altre sedi, sia perché è un ginepraio da cui non potrei mai uscire indenne; non troverete quei film cui ho già dedicato post appositi (“Caotica Ana”, “Antichrist”, “Les garcons sauvages”). Non è escluso che alcune delle riflessioni che troverete qui possano in futuro essere sviluppate in post a se stanti, anche se al momento mi sembra un’eventualità molto improbabile. E siccome mi piace parlare di cinema, non è neppure esclusa una seconda tornata di film più avanti nel tempo, nel caso dovessi riuscire a colmare alcune mie lacune cinematografiche... 

Dies Irae
(1943) di Carl Theodor Dreyer è, a memoria (ma potrei sbagliarmi), il più vecchio film a tema stregonesco che abbia mai visto (se si eccettua “Häxan - La stregoneria attraverso i secoli” di Benjamin Christensen, del ‘22, che però è un documentario). Ne ho dei ricordi molto sfocati, perciò mi sono affidato al web per ricostruire la trama in modo più preciso. Anne Pedersdotter, morta a Bergen nel 1590, fu una delle più famose vittime dell’inquisizione in Norvegia: la sua storia, adattata dallo scrittore Hans Wiers-Jenssen per il teatro nei primi del ‘900, nel film di Dreyer è invece trasportata in Danimarca, paese di origine del regista, dove la giovane moglie di un pastore protestante è invischiata in una relazione con il figliastro, quando il marito lo scopre e muore d’infarto. La suocera la accusa di stregoneria e blandisce e minaccia il nipote perché si schieri con lei. La vedova viene portata a giudizio in tribunale ma, addolorata dall’atteggiamento del giovane amante, rinuncia a difendersi, scegliendo di attribuirsi una colpa che non ha e di lasciarsi condannare al rogo. 
Un capolavoro, ma soprattutto un film struggente e terribile che, oltre a puntare i riflettori su una pagina orribile della storia europea e mondiale, racconta molto dell’animo umano e delle vette e delle bassezze che questo riesce a raggiungere. 

La maschera del demonio (1960) è l’esordio di Mario Bava, un classico del cinema gotico in cui una vampira/strega ritorna per caso dall’aldilà dopo duecento anni e cerca di prendere possesso del corpo di una sua discendente, che le somiglia come una goccia d’acqua, per vendicarsi di coloro che la misero al rogo. Entrambe le donne sono interpretate dalla scream queen per eccellenza, Barbara Steele, per meglio esplicitare il tema del doppio e il contrasto tra bene e male. È un film datato che per certi versi non resiste alla prova del tempo (i dialoghi, certe lungaggini un po’ noiose), ma che ancora oggi colpisce per le atmosfere malsane e la resa visiva. Il racconto da cui fu tratta la sceneggiatura, “Vij” di Nicolai Gogol, è la summa di diverse tradizioni folcloriche, di origini letterarie ma anche orali, leggendarie, riconducibili prevalentemente (ma non solo) a quella della pànnočka, che è al contempo strega (perché incanta gli uomini) e vampiro (perché succhia il sangue). Questo racconto è stato trasposto in modo anche più fedele negli omonimi lungometraggi del 1967 e 2014; quello del ‘67, di Georgij Kropačëv e Konstantin Eršov, è considerato il primo film horror del cinema sovietico; il secondo, di Oleg Stepchenko, si chiama in effetti “Viy 3D” e, come suggerisce il titolo, fu girato in 3D. 

"Il grande inquisitore"
di Michael Reeves e "Black Horror - Le messe nere" di Vernon Sewell sono entrambi del 1968. Il primo è vagamente ispirato alla figura storica di Matthew Hopkins, il più celebre inquisitore britannico responsabile della morte di oltre trecento donne fra il 1644 e il 1646: censurato perché particolarmente crudo ed esplicito per l’epoca, finì (anche per questo) per divenire un cult. Il secondo è un adattamento de “I sogni nella casa stregata” (“La Casa Delle Streghe”) di H.P. Lovecraft e vede un uomo, Robert, raggiungere un vecchio maniero alla ricerca del fratello scomparso, dove potrà assistere alla rievocazione storica della condanna al rogo di una strega. Durante la notte demoni spaventosi popolano i suoi incubi e, indagando, Robert si convince che nei sotterranei del castelli avvengano delle messe nere. Un film virato sullo psichedelico, a tratti divertente ma con alcune scene al limite del trash, imprescindibile solo per i fan più incalliti dell’immancabile Barbara Steele e di Boris Karloff (qui a fine carriera). 

George A. Romero ha dedicato al tema della stregoneria uno dei suoi titoli minori e meno riusciti, “La stagione della strega” (1972). La protagonista è Joan, una casalinga che dopo l’incontro con Marion, una donna che pratica la stregoneria ed è a capo di una setta, diventa essa stessa (o crede di diventare) una strega: comincia a fare vita mondana, si trova un amante, si disfa del marito. Il taglio sociale dato al racconto, la cifra stilistica del regista in tutti i suoi lavori, è anche qui preponderante, perché in questo film la stregoneria è per Joan un modo per emanciparsi da una vita monotona accanto a un compagno autoritario e assente, ma il finale è amaro: per tutti, Joan resta sempre e solo la “Signora Mitchell”. 

“The Blair Witch Project – Il mistero della strega di Blair”
di Daniel Myrick e Eduardo Sánchez è un film che alla sua uscita, nel 1999, accolsi come una ventata d’aria fresca: erano lontani i tempi in cui i cosiddetti "mockumentary" avrebbero cominciato a darmi sui nervi e avrei cominciato a evitarli come la peste. Com’è necessario per rendere la narrazione efficace in questo tipo di film, ci si concentra su pochi personaggi, immersi in un ambiente che da bucolico e rassicurante diventa inquietante in men che non si dica al calar del sole. Sono dei ragazzi che si recano a campeggiare in un bosco del Maryland per girare un documentario sulla leggenda della strega locale: la strega di Blair, appunto. 
Giacché si lascia ad intendere che si tratti di una storia vera, ciò che vediamo è esattamente quanto da loro girato nel bosco con la telecamera in spalla, senza, ovviamente, l’ausilio di supporto basculante, allo scopo di rendere il risultato finale il più realistico possibile, oltre che per generare malessere e nausea allo spettatore L’orrore è suggerito, rimane sempre fuori campo, e l’immaginazione dello spettatore galoppa. Questo ha consentito di utilizzare un budget molto ridotto, il che, a sua volta, è la ragione principale per cui i mockumentary (e più in generale le riprese in modalità POV) sono diventati in seguito così diffusi. Si può dire che, se da un lato i due registi hanno saputo fare di necessità virtù, inaugurando un nuovo filone horror, dall’altro questa è una forma di film-making molto democratica, giacché consente a chiunque di realizzare il suo film anche senza avere grossi produttori alle spalle, anche se senza una buona idea di partenza il rischio è di rifare sterili copie di cose già viste... Oggi siamo più smaliziati e “The Blair Witch Project” non fa più paura come vent’anni fa, ma il finale è entrato nella leggenda ed è ancora maledettamente efficace. 

“Witches Night”
(Paul Traynor, 2007) è un film poco noto che ha però diversi elementi di interesse per chi ama certe tematiche, benché sia penalizzato (tra le altre cose) da una certa monodimensionalità dei personaggi. Del resto il film non ha pretese autoriali, è solo un’opera di onesto artigianato che si propone soprattutto di intrattenere, e a mio parere lo fa egregiamente. 
È il weekend di Halloween, e quattro amici decidono di trascorrerlo a campeggiare. Nel bosco incontrano quattro belle e disinibite figliole che, naturalmente, sono delle streghe. Due di loro ne vengono subito irretiti, ma gli altri due riescono a sfuggire, almeno temporaneamente, al diabolico influsso. Come fanno? Beh, hanno addosso felpe ridicole e, per nasconderle, le indossano al rovescio… 
Anticamente, si credeva che indossare i vestiti al contrario servisse come protezione contro le streghe: chissà se il regista lo sapeva, e ha effettuato un’operazione filologica sottile e sopraffina, o se la sua è stata solo fortuna sfacciata… 
Ma nel film c’è anche il tema dell’acqua, che non mi pare sia mai stato molto sfruttato in questo tipo di pellicole: i ragazzi sono accampati sulle rive di un lago e, poiché le streghe risiedono dall’altra parte e non possono attraversare gli specchi d’acqua, sono costrette ad attirarli dall’altra parte; e il finale non è poi così scontato. 

Álex de la Iglesia
ha invece scelto di sdrammatizzare il tema: “Le streghe son tornate”, la sua commedia horror del 2013 ispirata alla vera vicenda delle streghe di Zugarramurdi, teatro di un famoso processo alle streghe nel ‘600, è colorato, esagerato, sguaiato, un bell’esempio di cinema pop e degli eccessi. 
Comincia con due amici che rapinano un negozio e scappano prendendo come ostaggio un tassista e il suo passeggero e portando con sé il figlio di uno di loro, mentre la sua ex moglie e due ispettori di polizia li inseguono nella fuga verso il confine francese. Ma la strada passa per il paese di Zugarramurdi, dove esiste una vera congrega di streghe che… beh, diciamo che un’enorme, mostruosa e antica divinità femminile che defeca bambini non è una cosa che si vede facilmente sullo schermo. Come dicevo è una commedia, quindi c’è il lieto fine (più o meno). In sottofondo resta l’accenno al potere femminile come agente trasformatore, anche quando l’apparenza sembrerebbe indicare il contrario. 

Come Álex de la Iglesia, anche Rob Zombie ha attinto a fatti del proprio paese risalenti al ‘600, ma mentre il primo ha voluto calare il tema della stregoneria in un presente moderno e frenetico, l’altro ha dato vita a un prodotto dall’estetica settantiana e dall’incedere lento e opprimente. 
Ne “Le streghe di Salem” (2012), Heidi fa la DJ radiofonica a Salem, nel Massachussetts, e un giorno si trova ad ascoltare la demo di un gruppo chiamato “The Lords”. L’ascolto la sprofonderà in un incubo fatto di allucinazioni e ricordi di un lontano, oscuro passato (un suo avo, infatti, era stato coinvolto nei famosi processi alle streghe), che rischia di farla precipitare nuovamente nel baratro della droga. Il bello arriva quando il brano musicale viene trasmesso per radio, tutte le donne che sono all’ascolto ne restano come ipnotizzate e il passato sembra ripetersi… 

Due film particolarmente interessanti dal punto di vista filologico sono anche “The VVitch” (Robert Eggers, 2015) e “La sposa del diavolo” (Saara Cantell, 2016). Il maggior pregio di “The VVitch” a mio parere è che, come anche nel caso delle vere vicende di caccia alle streghe, non è chiaro a cosa ci si trova davanti, perché la narrazione è volutamente ambigua, fino al finale. 
Nel New England, negli anni Trenta del ‘600, una famiglia è troppo integralista perfino per la puritana comunità a cui appartiene, tanto da doversene allontanare per andare a vivere isolata nei pressi di un bosco. La scomparsa del figlio più piccolo scatena i peggiori istinti in tutti i membri della famiglia, fra liti, recriminazioni e pruriti pre-puberali. Quando uno dei fratelli incontra una strana donna nel bosco e la natura sembra divenire ostile (il raccolto si secca, la capra non dà più latte, e così via), la situazione deraglia fino al finale che affoga tutto nel sangue. 
Il regista sfrutta abilmente diversi elementi dell’iconografia demoniaca (il caprone, le visioni mortifere che forse sono reali e forse sono invece il frutto della disperazione e della perdita progressiva della fede, eccetera), ma il sabba finale attorno al fuoco è anch’esso interpretabile in un doppio senso, reale e metaforico (molti studiosi ad esempio affermano che le streghe fossero convinte di sollevarsi in aria e volare a causa dell’ingestione di allucinogeni, e le congreghe stesse possono essere viste semplicemente come un’unione di tante solitudini: quelle di donne giovani e meno giovani decise a trovare riscatto dalla superstizione, dalla calunnia, dall’isolamento e dalla persecuzione). In ogni tempo e luogo una donna libera è sempre stata additata come strega, ma, per quanto mi riguarda, il primo e più importante senso del film è che streghe e mostri sono spesso generati dallo stesso pensiero che li aborre. 

La sposa del diavolo” è ispirato al primo processo alle streghe nella storia della Scandinavia, che si svolse in un piccolo villaggio situato su un’isola della Finlandia. Nel suddetto villaggio c’è chi insiste a perpetrare antiche tradizioni e l’antico folclore e chi vorrebbe invece dare un colpo di spugna a tutto quanto in nome della religione cristiana. 
Tuttavia, la purezza non va sempre a braccetto con la reputazione delle persone (l’ostetrica fa del bene ma è malvista, mentre il prete perbenista è in segreto un maniaco sessuale). Il nuovo giudice, osservante e fanatico, si propone di sradicare pratiche ormai considerate eretiche, come la divinazione o l'utilizzo di erbe a scopo curativo. Ne farà le spese una giovane mamma accusata di stregoneria dall’ex amante respinta dal marito, una ragazza appena sedicenne e immatura accecata dalla gelosia. Ma un twist ribalta la situazione: Anna, l’amante, ha una presa di coscienza, si pente e si redime. E se un lieto fine non è possibile, come del resto non ce ne fu mai uno nella realtà, il film ha il pregio di riscattare, se pure in minima parte, il carico di ingiustizie e di dolore piovuti sullo spettatore con un epilogo nel quale la pietà e la solidarietà femminile si intrecciano. E non è poco. 

“Hagazussa”
(Lukas Feigelfeld, 2017) è un altro di quei film che, forse perché è ambientato nel Medioevo, forse per il suo incedere molto lento, a quanto pare è piaciuto solo a me. 
Il film fa suo il tema della giovane reietta additata come strega che conosce le erbe, è figlia di nessuno e finirà, come la madre prima di lei, per diventare una ragazza madre. Quando sembra che possa forse integrarsi nella comunità, viene fuori che in realtà le hanno solo preparato un crudele tiro mancino. 
Ho letto da più parti che, alla fine del film, la protagonista versa del sangue nel ruscello vicino al villaggio per “fare un dispetto” a quelli che le hanno fatto del male, ma non è questo il vero significato del suo gesto. Lei è una vera strega, o almeno crede di esserlo, e come tale usa la magia. Magia “simpatica”. Lei sparge il sangue per portare la morte. È l’apice e la scena cardine della narrazione, non comprenderla vuol dire togliere al film il suo senso. 

Nel 2018 esce invece “Hereditary – Le radici del male” di Ari Aster (del suo successivo “Midsommar” parleremo la prossima volta), uno dei miei horror preferiti degli ultimi anni perché unisce al brivido il dramma in modo esemplare. 
In una famiglia la cui storia è da sempre funestata da una serie di malattie mentali e di morti improvvise, Annie perde in breve tempo la madre Ellen e poi la figlia tredicenne Charlie, morta tragicamente sulla macchina guidata dal fratello Peter. L’impatto di questo secondo evento, in particolare, è devastante per l’intera famiglia, finché Annie non coinvolge i suoi familiari in una seduta spiritica per mettersi in contatto con lo spirito di Charlie. 
Sappiamo bene che, nei film horror, questa non è mai una buona idea. Si scopre inoltre che Ellen aveva un interesse segreto per l’occulto: credeva infatti in Paimon, un demone che può incarnarsi a patto di trovare un corpo maschile adatto allo scopo. Ma la leggenda è molto più reale di quanto non si pensi, un terribile segreto che la famiglia nasconde da generazioni, e che spiega il legame speciale tra Ellen e sua nipote Charlie, il fato di Charlie e gli incubi che perseguitano Peter, fino al finale rivelatorio e scioccante. 

Ma un post come questo non potrebbe dirsi completo senza menzionare la streghe per eccellenza, le Tre Madri di Dario Argento, personaggi derivati dalla lettura di Thomas de Quincey. Se “Suspiria” (1977) e “Inferno” (1980) sono dei classici senza tempo, bellissimi esteticamente, capaci di spaventare oggi come allora, “La terza madre” (2013) è stata un’operazione a cui il regista romano è stato in qualche modo costretto: necessario per completare la trilogia ma dal risultato imbarazzante. La trama, la recitazione, tutto: mi riesce difficile salvare qualcosa in questo film, se si eccettuano alcune scene di omicidio in cui si vede ancora la mano del maestro. A suo tempo uno dei miei blogger preferiti, Ivano Landi, dedicò ai film di Argento una meravigliosa serie di post, che vi invito a recuperare a partire dal primo
Poiché mi intimidisce sempre parlare di classici, preferisco spendere qualche parola in più per il remake di “Suspiria” di Luca Guadagnino, uscito nel 2019 fra mille polemiche. Si può apprezzare o meno il tentativo di incasellare le vicende del film nella situazione socio-politica della Germania degli anni Settanta (oggettivamente superflua ai fini della storia), tuttavia va dato atto a Guadagnino di aver fatto delle scelte non facili, e di aver molto rischiato nel tentare di dare una nuova veste a un classico che per molti è intoccabile. A me il risultato, seppur distante dall’originale, è piaciuto, e non solo per le sue indubbie qualità estetiche. Se il film di Argento indaga forze ataviche e soprannaturali, quello di Guadagnino ci mostra la Madre dei Sospiri al vertice di una congrega di streghe che sembra paradossalmente costituire un umanissimo baluardo difensivo contro la società di fuori. Non so quanto spirito femminista, o di sorellanza o di corporazione sia realmente infuso nel film, ma la deriva che l’autore dà alla storia non mi pare né scontata né banale. 

8 commenti:

  1. Non credevo di avere un debole per le storie di streghe. Invece, scorrendo tutti i titoli che hai nominato, mi sono resa conto che me ne mancheranno giusto un paio. Seguirò il tuo excursus con molto interesse, tu intanto guarda Giovani streghe e Le streghe di Eastwick, due dei miei film preferiti!!

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    1. Magari non sei tu ad avere un debole per le storie di streghe, ma è il cinema a sfruttare molto spesso questo argomento. Non sapevo avessi un debole per quei due film... una ragione in più per guardarli. Del resto avevo già in programma di farlo, prima o poi. :-)

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  2. Splendida carrellata dall'interno di un ciclo di post molto interessante, ma hai ragione a sottolinearne la cadenza davvero estrema! :--)

    Sicuro che lo conosci, comunque un autore eccezionale come Pratchett ha sempre ragionato bene sulle streghe, nel Discworld. Sono i personaggi a cui ha dedicato più libri, alla fine...

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    1. Ti ringrazio per l'apprezzamento, fa sempre piacere riceverne, nonostante tutto. :-)
      A dirti il vero non sono un grande appassionato di fantasy e non ho mai letto nessun libro di Pratchett, pur avendone naturalmente sentito parlare spesso. Ma mai dire mai... ^__^

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  3. "Giovani streghe" lo vidi a suo tempo, ovviamente è quasi uno young adult e dubito che potrebbe minimamente piacerti.
    "The blair witch project" lo vidi al cinema ma mi colpì negativamente in quanto davvero troppo "amatoriale". Capisco che lo scopo era far credere che fossero una serie di video girati senza l'obiettivo di farne un film, però alcune scene erano praticamente il nulla. Ho apprezzato molto di più l'operazione simile che è stata fatta (ma con tema diverso) per "Cloverfield", anche se ovviamente lì c'era alle spalle una vera produzione (che ci ha speso parecchio) e un team cinematografico altamente professionale.

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    1. Capisco bene il tuo disappunto verso "The blair witch project", anche se a me era piaciuto, ma io sono notoriamente uno di bocca buona quando si tratta di cinema (ho visto cose...). Concordo con te che "Cloverfield" sia un prodotto migliore, dal punto di vista della realizzazione, ma bisogna considerare che forse non ci sarebbe mai stato, così come lo conosciamo, senza "The blair witch project" a fare da apripista. E' possibile che "Giovani streghe" non mi piaccia, ma è comunque a suo modo un piccolo cult e credo e prima o poi conto di vederlo, come dicevo poc'anzi alla Bolla.

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  4. Per quanto riguarda i film di Dario Argento, Suspiria mi è piaciuto molto, uno dei migliori di questo regista. Per quanto riguarda gli altri due, non li ho proprio apprezzati. E, devo dire, nemmeno il remake di Suspiria fatto da Guadagnino. The VVitch, devo dire, mi ha sorpreso positivamente, per le atmosfere che riesce a creare. Pur non avendo visto tutti i film qui citati, ho l'impressione che un film sulla figura della strega come piacerebbe a me non esista. Ovvero su una donna dotata di certi poteri, cui si dovrebbe dare un minimo di origine e spiegazione, intenta a usarli per qualche scopo preciso e razionale. Non una specie di mostro, non (solo) una fattucchiera nascosta in qualche foresta, ecc.

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    1. Sì, avevo letto le parole che hai speso sui film di Argento sul tuo blog, quindi quello che scrivi non mi sorprende. Riguardo la tua chiusa, invece... così, a memoria, non mi viene in mente nessun film che soddisfi tutti questi criteri...

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