Pensando a quale film inserire nel secondo articolo della rubrica “Obsploitation Visions”, ho avuto una specie di
folgorazione: quel film doveva essere “Les Garçons sauvages” (“The Wild boys”), il primo
lungometraggio del regista francese Bertrand Mandico, un film svanito perlopiù nell’oblio dopo
l’apparizione a Venezia nell’ambito della “Settimana Internazionale della Critica” nel 2017. Se
infatti mi diceste che non lo avete mai neppure sentito nominare, non ne sarei poi troppo stupito.
Credo che le ragioni siano essenzialmente due, anzi tre.
Mandico è un personaggio non famosissimo in patria, ancor meno in Italia, nonostante il passaggio
a Venezia e la partecipazione alla rassegna “Altre Visioni” di Torino nel dicembre dello stesso
anno. In secondo luogo, “Les Garçons sauvages” appartiene al filone del fantastico pur non
essendo cinema d’intrattenimento, pertanto non ha un suo pubblico di riferimento: se dovessi
descriverlo, direi che somiglia a un’avventura marinaresca “à la Stevenson” e a un racconto di
formazione senza rientrare pienamente in nessuna delle due categorie. Di certo non è un film per
famiglie, e non è possibile, quindi, accostarlo a opere come quelle del franchise dei “Pirati dei
Caraibi”: la violenza nel film di Mandico è più percepibile, secondo me, anche se l’atmosfera
surreale in gran parte la camuffa, ma, soprattutto, anche se è dinamico e ricco d’azione, sa
intrattenere ma non diverte (non se le vostre aspettative sono riposte in personaggi accattivanti e
dalla battuta facile, che schivano pallottole o sciabolate facendo acrobazie degne di un circense).
Terzo, perché ha un’estetica decisamente retro: è girato in pellicola, in retroproiezione, e gioca
con l’uso di fondali, rivestimenti, costumi, effetti e trucco molto artigianali, adatti al clima di inizio
Novecento in cui è ambientato il racconto: anche se sfrutta la tecnologia più recente, resta sempre
un cinema “materico”. Mandico sembra avere i piedi ancorati nel passato e la testa nel futuro, o
viceversa, se capite cosa intendo.
A questo va aggiunto che questo è sicuramente un film ambizioso, disturbante e di un erotismo
non del tutto piacevole, a dispetto di un linguaggio formale molto accattivante. Ma per spiegare
cosa intendo, dovrò anticipare un bel po’ della trama.
Come detto, siamo all’inizio del Novecento. I “ragazzi selvaggi” sono cinque adolescenti di buona
famiglia che nei concitati e psichedelici minuti iniziali vediamo violentare e uccidere una loro
insegnante. Un delitto atroce che scuote le coscienze. La giustizia li assolve perché sono giovani, e
s’insinua che abbiano agito così perché ubriachi o inebetiti dalle droghe; la verità è che la loro
perdita di inibizioni è stata più voluta che casuale, e che si tratta di delinquenti incalliti che non
provano il benché minimo rimorso per quanto fatto. Si fa avanti allora il Capitano di un vascello
diretto verso l’isola de La Réunion, misteriosa perché non presente nelle carte nautiche; il
Capitano afferma che i ragazzi sembrano ormai aver preso una brutta china, ma se le loro famiglie
glieli affideranno durante la traversata, questi torneranno dal viaggio (se torneranno!)
profondamente cambiati e incapaci di fare ancora del male.
Non è ben chiaro come questo
cambiamento dovrebbe avvenire, ma la possibilità di riuscire a farne dei membri sani della
comunità è molto allettante per i genitori che, pur consapevoli dei rischi, accettano. A bordo del
vascello i ragazzi si trovano a lavorare duro e vengono trattati come schiavi, e sembra che,
banalmente, il Capitano voglia piegarli con la fatica e con le privazioni; e se l’imbarcazione viene
sballottata dalle onde, la violenza della tempesta non è nulla a confronto di quella che infuria
dentro di loro. Come belve in gabbia, i ragazzi non attendono altro che una distrazione del loro
carceriere, un piccolo spiraglio per ribellarsi e vendicarsi. L’ammutinamento sembra uno scenario
sempre più vicino e probabile, finché… non arrivano a destinazione. E sull’isola, gli equilibri
cambiano completamente.
Come avrete intuito, La Réunion non è un’isola come tutte le altre. I pochi che la conoscono la
chiamano “l'isola delle sottane”. Difatti, una natura selvaggia e pansessuale avviluppa i personaggi
in una ragnatela di sensazioni travolgenti che esacerbano gli animi e i ragazzi iniziano a
trasformarsi in donne, poiché si nutrono dei frutti di quelle che poi scopriremo essere piante
“ormonali”. L’atmosfera lisergica dei primi minuti, mai scomparsa del tutto, torna
prepotentemente a impossessarsi della scena. Apprendiamo che un tempo il Capitano era un
uomo a tutti gli effetti, ma gli è cresciuto un seno dopo essere approdato per la prima volta
sull’isola. La sua trasformazione non si è completata (come non si completerà quella di uno dei
ragazzi) a causa di una sua forma di resistenza mentale. I viaggi sull’isola sono un affare molto
remunerativo, gestito da una donna che a sua volta è stata un uomo e che ha amato il Capitano.
Ora il Capitano, metà uomo e metà donna, ama, riamato, uno dei ragazzi, che sta diventando una
donna: un intreccio di uno strano e sottile romanticismo, che rimane castamente ancorato alla
dimensione del desiderio.
L’isola somiglia forse più all’Isola del Tesoro che al perduto Eden, nondimeno è una terra mitica (e
mistica) in cui tutte le possibilità sembrano potersi realizzare. Oppure possiamo ricondurla ai topoi
della narrazione epica, e così immaginarla come una leggendaria divinità decaduta, sorda e cieca,
che trasforma tutto quello con cui viene a contatto. Per rendere il tutto ancora più ambiguo e
intricato, i ragazzi selvaggi sono impersonati da delle ragazze. Abbiamo dunque delle attrici che
impersonano dei ragazzi che si trasformano in ragazze, in un continuo scambio di panni maschili e
femminili che confonde. La trasformazione dei personaggi è tuttavia solo fisica; la loro personalità
rimane immutata, e anche se il loro aspetto è diverso, loro continuano a percepire se stessi come
dei maschi. È la giusta chiusura del cerchio, perché se all’inizio i ragazzi selvaggi hanno coronato la
loro “carriera” con il crimine più odioso, ora sono passati dall’altra parte; ancora attratti dalla
violenza, sono tuttavia vulnerabili ad essa come la donna che hanno assassinato. L’elemento
femminile in questi adolescenti irrequieti sarebbe quindi la chiave per la loro “redenzione”. E se
l’equazione donna uguale pace è forse troppo semplicistica, il regista sembra avallarla quando dice
che “un mondo al femminile impedirebbe conflitti e guerre”, che diventare donna è “una misura
che ammorbidisce il temperamento” e che “il futuro è donna. Il futuro è strega”.
È quindi, il loro, un viaggio nella percezione e nella trasformazione corporale che sembra voler dire
che in fondo, a questo mondo, tutto è illusione; ma è anche un tuffo nell’inconscio, da un lato, e
nella ritualità dall’altro, giacché riporta alla mente i riti di iniziazione, che sono spesso legati al
travestitismo, e al viaggio, che è anch’esso un tema tipico dell’iniziazione, che poi è la
prefigurazione della morte; l’iniziato “muore”, alchemicamente, per poi “rinascere” alla sua nuova
forma; resta lo stesso, eppure cambia. È una magia che, oggigiorno, richiede un bel po’ di
immaginazione, ma che testimonia di un tempo in cui il confine tra vita e morte, così come tra
maschile e femminile, era molto meno definito.
Una delle più evidenti influenze di Mandico è Walerian Borowczyk, un Autore cui ha dedicato
diversi saggi e che ha omaggiato anche con il corto “Boro in the box” del 2011 (anche se il miglior
tributo gliel’ha forse reso abbracciandone lo sperimentalismo). Tra tutti i suoi numerosi corti e
mediometraggi, però, quello che più di tutti mi sento di consigliare è “La résurrection des natures
mortes” (Living still life, 2012): sarà che sto invecchiando ma, nella sua lugubrezza, questo
racconto di una donna che tenta di ridare la vita agli animali morti mi ha molto commosso.
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