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Rieccomi qui con l’attesa (?) seconda parte dell’intermezzo cinematografico pubblicato pochi giorni fa. Sono moltissimi anche i film che non sono proprio a tema “stregonesco”, ma che hanno comunque parecchio a che fare con gli argomenti trattati in questa mia serie di post, anche solo per come dipingono le figure femminili. Anche in questo caso ho dovuto fare una selezione e scegliere alcuni titoli a scapito di altri. Non sarà condivisibile da tutti, ma la mia scelta è questa.
Parto da un film che da noi è poco conosciuto, forse a causa del fatto che non è mai stato doppiato in italiano: “Night tide” (Curtis Harrington, 1961). Tuttavia, questo film fantastico, il cui titolo deriva da un verso di "Annabel Lee" di Edgar Allan Poe, un poema che idealizza un amore più tenace della morte, in patria è un piccolo cult anche per la presenza di un giovanissimo Dennis Hopper nei panni di un introverso e inesperto marinaio, un ruolo molto diverso da quelli che interpreterà poi per la maggior parte della carriera. Un ruolo minore è invece affidato a quella Marjorie Cameron di cui ho parlato di straforo nei post dedicati a Kenneth Anger, cosa che ha contribuito alla nomea di film occultistico di una pellicola che però, più che dall’occulto, pesca a piene mani dal mito e dal folclore.
Johnny Drake (Hopper) s’innamora di Mora, una ragazza che si esibisce in un luna park vestita da sirena, ma viene messo in guardia dal frequentarla perché si dice che due suoi precedenti fidanzati siano annegati a causa sua. L’ex Capitano Murdock confessa a Johnny di aver cresciuto Mora dopo averla raccolta su un’isola greca quand’era ancora molto piccola (un antefatto che ricorda un po’ quello di “Malpertuis”) e di averle dato quel nome per assonanza con quello di Moira, la personificazione greca del fato o destino. Secondo il Capitano, e la stessa Mora, la giovane sarebbe una vera sirena che uccide allo spuntare della luna piena, quando la marea è al suo apice, e Johnny sarebbe dunque in grave pericolo accanto a lei. Mora è davvero una sirena? E chi è quella donna misteriosa che la segue come un’ombra? Di femme fatale è pieno il cinema, ma accanto a quelle che lo sono per scelta, altre sono solo creature che non possono contrastare la propria natura e, in questo senso, non assurgono mai al ruolo di colpevoli.
La regista ceca Vera Chytilová ci offre invece, con “Fruit of paradise” (1970), una rivisitazione psichedelica e barocca della storia di Adamo (qui ribattezzato Josef) ed Eva e della cacciata dall’Eden.
I due si trovano assieme ad altri ospiti in una clinica, un rifugio bucolico di pace nel quale però si aggira anche un uomo perennemente vestito di rosso, l’ambiguo Robert. Eva, come molte altre donne, è affascinata da Robert, che ora la insegue ora la respinge e infine la incita a mangiare il frutto proibito. Mentre Josef a sua volta non sembra immune dal fascino delle altre ospiti, Eva si convince che Robert sia un assassino che ha già mietuto sei vittime, tutte donne, e lo affronta. Liberarsi di Robert non le consente però di ritornare alla clinica, il suo paradiso perduto… Eva allora mangia la mela e la offre anche al marito.
I critici hanno perlopiù visto nel film la rappresentazione della situazione politica dell’ex Cecoslovacchia del tempo (l’alternarsi tra bianco, rosso e nero sarebbe una metafora del passaggio dallo stato di purezza primigenio al Comunismo e infine alla morte), mentre a me interessa, come avrete forse intuito, per il tema del peccato e della caduta sempre imputati alla donna, se pure tentata dal biblico seduttore.
Vale la pena citare anche un’altra opera realizzata dalla regista nel 1966: “Daisies”. È un film difficile da catalogare, definito ora una commedia femminista che mostra un’idea di donna sovversiva rispetto alle aspettative di una società patriarcale, ora una critica all’edonismo e al consumismo, e che nella pratica è una lunga serie di scene surreali che difficilmente potrebbero considerarsi una trama così come comunemente noi la intendiamo.
Due amiche, entrambe chiamate “Marie”, un giorno decidono di diventare malvagie perché il mondo stesso è malvagio: la loro malvagità consiste però perlopiù nello sfasciare tutto quello che gli capita a tiro e soprattutto nel mangiare e bere a sbafo, sfruttando degli uomini che trattano nella peggiore maniera possibile per spingerli ad abbandonarle una volta ottenuto ciò che vogliono, o che cinicamente abbandonano per prime. In una scena cult le due mangiano delle pietanze che hanno la forma dei genitali maschili, e che dovrebbe simboleggiare il loro desiderio di castrazione del maschio.
Non credo mirasse a essere un’incitazione alla violenza, per inciso, ma che fondamentalmente Vera Chytilová abbia con molta ironia voluto dipingere le donne come, sovente, l’universo maschile le rappresenta: sfruttatrici, avide, infantili, stupide.
Restiamo nella ex Cecoslovacchia con un thriller italianissimo, ma ambientato a Praga: “La corta notte delle bambole di vetro” di Aldo Lado (1971).
Un reporter drogato e ridotto in stato di morte apparente ripercorre con la mente gli avvenimenti che lo hanno portato sul tavolo di un obitorio: nel tentativo di arrivare alla verità dietro alla morte di una cara amica, l’uomo ha scoperto l’esistenza di un culto satanico dedito a sacrifici e orge i cui adepti, tutti personaggi in vista, hanno trovato il modo di impedirgli di parlare e stanno per disfarsi di lui. Fin qui ho evitato di citare film demoniaci o a tema satanico e potrà sembrare strano che faccia eccezione per un’opera che a conti fatti non tratta troppo male le donne (la malefica setta, infatti, comprende uomini e donne), tuttavia credo che questo film cupissimo, in cui non c’è spazio per alcun tipo di redenzione né di salvezza, meriti una menzione in un contesto come questo.
Con questo film facciamo invece un salto temporale di una ventina d’anni. “L’albero del male” (William Friedkin, 1990), adattamento di un romanzo di Dan Greenburg, è un’opera “minore” di Friedkin, ma comunque meritevole di una visione; è un film che devo aver visto all’epoca della sua uscita, ma che di fatto avevo rimosso dalla memoria e ne devo il recupero al mio vicino di blog Lucius Etruscus, che lo ha recensito nell’ambito della rassegna Notte Horror 2019.
Una coppia di neogenitori assume una tata per poi scoprire che non si tratta affatto di una donna, ma dello spirito di un antico albero che si nutre del sangue di bambini in fasce. Ma c’è una speranza: l’albero e lo spirito sono collegati, e se l’uno muore, morirà anche l’altra… Come menzionato in una didascalia all’inizio del film, presso gli antichi Celti esistette un druidismo femminile, e sebbene in molti si ostinino a definirlo una forma di culto deviato, ascrivibile a non prima del XVIII secolo, fu in effetti una forma di sacerdozio antica quanto quella maschile, menzionata in documenti storici greci e romani e persino nelle saghe irlandesi, se pure con un ruolo un po’ diverso da quello della controparte maschile, maggiormente legato a una funzione oracolare e alle pratiche magiche. Il film sembra ispirarsi alla versione del culto deviato, che qui s’incarna in una minaccia soprannaturale che, ovviamente, si palesa in panni femminili.
Occorre un salto ancor più grande, ma questa volta non solo temporale, per approdare a un vero e proprio cult qual è “The Wicker Man” (Robin Hardy, 1973). Cito solo di sfuggita il dimenticabile remake del 2006, un’operazione che, a differenza di quanto fatto con “Suspiria”, in concreto nulla aggiunge e nulla toglie alla vicenda.
Una denuncia anonima segnala la sparizione di una bambina e un sergente di polizia si reca su una piccola isola al largo della Scozia per indagare. La comunità locale, guidata da Lord Summerisle, è formata perlopiù da contadini che agli occhi del funzionario di polizia, cristiano osservante, appaiono come dei superstiziosi bifolchi, per di più dai costumi sessuali molto liberi. L’uomo è scioccato in particolar modo dal forte retaggio pagano nella vita degli isolani. Al suo sgomento si aggiunge lo sconcerto allorché nessuno di quelli che interroga ammette di conoscere la bambina scomparsa, a partire dalla sua stessa famiglia; l’uomo si convince che la stiano nascondendo perché intendono sacrificarla a qualche divinità per assicurarsi un buon raccolto e non sa che un sacrificio in effetti è previsto, ma non è lei la vittima designata.
Credo che questo film abbia un’atmosfera davvero unica e che ancora oggi sia in grado di provocare più di un brivido, ma anche che non sia un film per tutti, e certamente non per chi conserva ancora il mito del “buon selvaggio”.
Anche se tra l’uno e l’altro sono trascorsi quasi cinquant’anni, sono convinto anch’io come molti altri che il vero erede di “The Wicker Man” sia “Midsommar” (2019). Anzi, non me ne vogliano i puristi se dico che per me il film di Ari Aster è per certi versi un’opera molto più profonda, che non si limita a guardare diritto nell’abisso (così la mente “illuminata” e “razionale” dell’uomo moderno considera un passato pagano di cui spesso un po’ si vergogna), ma osa cercarvi delle radici psicologiche.
Il giovane Pelle invita gli amici Josh, Mark, Christian e la ragazza di quest’ultimo, Dani, a trascorrere una vacanza presso il suo villaggio natale, in Svezia, una strana “comune” dove si continua a vivere come centinaia di anni fa, senza nessuna delle conquiste della tecnologia moderna, e dove si terrà una cerimonia per celebrare il solstizio d’estate. Una cerimonia inumana e immorale agli occhi degli ospiti americani del villaggio, che, del resto, sono del tutto fuori posto e finiranno, com’è giusto che sia, come carne da macello. Dani è l’unica a subire davvero il fascino del luogo. Lei, che ha da poco subito un grave lutto, che è psicologicamente prostrata e sofferente, è anche una persona con un lato oscuro, una di quelle donne pronte a giustificare qualunque cosa pur di tenersi il proprio uomo e non dover restare sole; il tipo passivo-aggressivo che però, proprio perché fragile, sente il bisogno di essere amata e accettata senza riserve, e che è quindi l’unica a poter comprendere che una vita dura come quella del villaggio richiede per forza il votare se stessi e la propria esistenza a un ideale più alto, quello della comunità da servire e proteggere, la quale in cambio ti darà la sicurezza del tuo ruolo nel mondo.
Amore e senso di appartenenza in cambio di lealtà e abnegazione. Molto più di quanto molta gente ottenga dalla vita. Non dico che faccia per me, ma neppure mi sconvolge. Non è così anche per gli animali nel branco? Non riesco neppure a vedere cattiveria nel sacrificio di mezza estate, come non ne ho visto in quello di “The Wicker Man”. Non esiste il giusto o lo sbagliato, è una questione di equilibrio, di vita che ora si dà, ora si toglie.
Un altro dei rari film che pescano dalla tradizione popolare europea arriva dalla Svizzera e si chiama “Sennentuntschi” (Curse of the Alps, 2010), di Michael Steiner. Lo spunto deriva infatti da una leggenda alpina che narra di alcuni pastori che, soli per mesi sui pascoli, costruirono una bambola di paglia che trattavano come una donna vera per soddisfare tutti i loro bisogni, inclusi quelli sessuali, finché un giorno il Diavolo non la rese reale. La “bambola del demonio” si vendicò allora di tutto quello che aveva dovuto subire dai pastori…
Nel film, ambientato nel 1975, ci troviamo in un remoto villaggio alpino dove un giorno compare una misteriosa ragazza, giovane, bella e muta, che la comunità intera vede come un cattivo presagio e che scatena i peggiori istinti degli abitanti.
Quello dell’elemento di disturbo che arriva improvviso a sconvolgere gli equilibri esistenti non è un incipit nuovo al cinema, ma questa storia convince per la strisciante inquietudine che trasmette, e per la regia abile nel giostrare fra due opposti in teoria ugualmente possibili, quello dell’essere demoniaco e quello della sventurata vittima della superstizione e del maschilismo imperanti nel microcosmo chiuso e bigotto del villaggio.
Il prossimo film di cui voglio parlare è un’altra di quelle opere che rischiano di provocare un dibattito infinito in cui, onestamente, non voglio entrare più di tanto. Io, per inciso, l’ho amato fin da quando lo vidi al cinema, e tuttora lo apprezzo. Parlo di “The Neon Demon” (2016) di Nicholas Winding Refn.
La trama, nella sua banalità, è molto semplice: una giovane modella cerca di farsi strada nell’ambiente, ma deve fare i conti con l’invidia di alcuni e la concupiscenza di altri, finendo per diventare vittima della sua stessa bellezza. Quella che non è semplice affatto è la messa in scena, così piena di simbolismi da non consentire una visione univoca del film. La stessa Jesse è del tutto impenetrabile, e fino alla fine non si capisce bene quale sia la sua vera natura. Jesse è una ragazzina ingenua e indifesa, oppure è lei il Demone del titolo, la cui sola presenza basta a scatenare i peggiori istinti? Ma qualcosa indica che la sua vera natura potrebbe anche essere quella di archetipo. C'è infatti una scena che la mostra mentre, con l’orecchio alla parete, ascolta il proprietario del motel mentre stupra e uccide la sua giovanissima vicina di stanza. La scena ha un mood onirico accentuato, è come se si svolgesse fuori dal tempo, come la reminescenza di un omicidio rituale che avviene dalla notte dei tempi, le cui vittime sono sempre individui dalle caratteristiche eccezionali. Sappiamo che presso le società primitive si usava consumare la carne dei nemici uccisi in battaglia per assorbirne le qualità. E di questa ragazza, che non ci è dato vedere, sappiamo solo che ha appena 14 anni ed è bellissima, anche più di Jesse. Entrambe dunque, Jesse e l’altra, e altre ancora a ritroso, potrebbero benissimo essere simboli della bellezza archetipica immolati come divinità su un altare. La morale del tritacarne hollywoodiano che fagocita gioventù e bellezza per continuare a vivere, come un vampiro succhia il sangue, è forse troppo semplicistica, ma non la si può neanche scartare del tutto. Il pasto “cristico” consumato nel finale non stona affatto con questa ipotesi...
Chiudo questa piccola rassegna con un titolo del 2022, “Non sarai sola” di Goran Stolevski, in cui il tema della stregoneria è il pretesto per ragionare su cosa significhi essere umani e vivere in una comunità.
Nella campagna macedone del XIX secolo, Nevena è una giovane strega, una mutaforma che può sostituirsi a chiunque inglobandone gli organi all'interno del suo stesso corpo. Donna, uomo, bambina (...e cane) sono le forme che sceglie per inserirsi nella vita di un villaggio dopo aver vissuto in isolamento in una grotta per tutta la prima parte della sua vita. Ancora una bambina, nell'intimo, scopre tutte le meraviglie di un mondo che vede per la prima volta: la natura, la vita di campagna, l'amicizia, il sesso... e lavare panni, accudire infanti, lavorare la terra, mietere il grano… mentre gli scarni dialoghi si alternano ai lunghi monologhi interiori (per la verità anche troppo insistiti) della protagonista - che essendo muta non può far altro che parlare a se stessa - si passa con disinvoltura dal body horror alle atmosfere intimiste e da fiaba senza soluzione di continuità. Nevena viene sorvegliata dalla "mangiatrice di lupi" Maria, la stessa donna che le aveva tagliato la lingua quando era ancora in fasce e che poi l'aveva sottratta alla madre, dopo che la stessa aveva cercato inutilmente di gabbare la strega celando la figlia agli occhi del mondo per 16 lunghi anni. Nevena però si era ribellata ed era fuggita, e ora Maria, sopravvissuta al rogo, con le sue ustioni è sempre lì a ricordarle cosa fanno gli uomini quando scoprono l'esistenza del diverso, del mostro. Ma Nevena è pronta a rischiare di essere scoperta, scacciata, e persino uccisa, pur di poter vivere un’esistenza da “umana”…
Sullo sfondo resta il solito tema della subalternità della donna in una società patriarcale, con la strega come elemento di rottura, che tante pellicole di questo genere hanno già esplorato (incluse alcune inserite in questa mia breve carrellata).
Night Tide l'ho visto, davvero un film affascinante che lascia molte cose nell'ambiguità. Gli altri mi hai fatto venire voglia di riguardarli, soprattutto The Neon Demon e Midsommar. A margini, come fai a dire che Il Prescelto " nulla aggiunge e nulla toglie alla vicenda" di The Wicker Man? E Nic Cage? E THE BEES??? (dopo questa scappo per sempre!!)
RispondiEliminaHai ragione, non avevo considerato l'effetto Cage! Shame on me!!!
EliminaNon voglio fare polemiche su Midsommar ma proprio non mi è andato giù. Per quanto riguarda The Neon Demon invece ammetto che il film, pur parlando di gente vacua e situazioni antipatiche o orrende, riesce a farsi ricordare. La bellezza è tutto, e tutti la vogliono, diventa oggetto di una pulsione malsana, e il film riesce a immergerti in questa atmosfera. L'ho visto anni fa e mi mette ancora un certo disagio.
RispondiEliminaGrazie per avermi letto o riletto... A parte la polemica sulla produzione americana, che poi non è esclusivamente americana, non mi torna la Scandinavia (moderna) come set per questo genere di storie. Me la sono girata un po', Islanda esclusa. Sono le nazioni europee più moderne, con lo stato che ha un forte controllo, una popolazione disciplinata. Le renne che vedi in giro in Finlandia, e rischi di metter sotto con la macchina, non sono selvagge, sono tutte microchippate e appartengono a qualcuno. Insomma, oggi come ambientazione per una storia simile la Svezia o la Scandinavia in generale non mi torna. Poteva andare bene la Scandinavia del passato, oppure, oggi, i Cajun (chi lo sa se sono come ce li descrivono, tanto?), o l'Aspromonte o il centro della Sardegna, o qualche misterioso posto dei Balcani, senza offesa per nessuno... ma la Svezia di oggi non ce la vedo.
EliminaNon posso fare paragoni con "the Wicker Man" perché ne ho visto solo qualche pezzo quando ogni effetto sorpresa sul folk horror era andato perso. Ma in Midsommar... tutte le complicate coreografie, le cerimonie, i pranzi, i rituali e ste scene che non finiscono mai quando sappiamo benissimo dove andiamo a parare, mamma mia che palle, che fracassamento. È stata una pena, per me. Va bene l'antropologia o gli aspetti culturali, eccetera, ma un film deve anche prendermi.
Svezia del presente o del passato in quel film aveva secondo me importanza relativa, visto che si intendeva in qualche modo ritrarre una società scollegata dalla modernità. Altri luoghi avrebbero funzionato altrettanto bene, ma l'immaginario scandinavo ha sempre una marcia in più, perlomeno da chi scandinavo non è (l'Aspromonte sarebbe stata una scelta meravigliosa, ma al di fuori di noi italiani, e nemmeno tutti, nessuno saprebbe nemmeno indicarlo su una carta geografia).
Eliminahello
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