Sono più o meno dieci anni che parlo di Yellow Mythos su questo blog e mai avrei creduto di
trovare qualcosa di così bizzarro. Sono stato a lungo anche piuttosto combattuto circa l’opportunità
di scrivere quest’articolo, ma visto che in passato ho scritto robe anche più inutili, mi sono detto
“perché no?”, e così ho fatto. Prima di entrare nel cuore della questione, è forse però opportuno un
piccolo riassunto. Dopo tante parole spese sull’argomento, sappiamo tutti ormai abbastanza bene,
anche se ci piace far finta che sia il contrario, che il mitologico “The King in Yellow” non è altro
che un’espediente trovato da Robert W. Chambers per rendere più efficace la sua omonima
antologia di racconti. Nulla di male, visto che molti altri Autori avrebbero seguito il suo esempio in
un periodo successivo, millantando l’esistenza dei più svariati pseudobiblium (*). Addirittura, la
pratica divenne talmente diffusa che a un certo punto uno di essi si rese conto di come fosse
necessario un pubblico chiarimento (**). Noi ci divertiamo lo stesso a indagare sul “Re in giallo”, nella vana (o forse sarebbe meglio dire
“incosciente”) speranza che esso sia qualcosa di più di una completa invenzione. I presupposti ci
sono, o meglio, li abbiamo intravisti, così come intravediamo i sempre più deboli raggi di sole in
queste prime giornate autunnali.
Tanto è stato detto e scritto qui sul blog sui personaggi che si muovono sulla scena e nelle località
che fanno da sfondo alle vicende descritte nel fantomatico testo. Abbiamo rivoltato come guanti i
racconti del ciclo canonico e abbiamo analizzato e cercato di interpretare decine di racconti
successivi che, nell’arco di decenni, altri autori hanno scritto, tentando di portare il loro personale
contributo alla mitologia, ampliandone i confini fino a confonderli, ma nonostante i nostri sforzi,
tutto ciò che abbiamo messo insieme è ancora ben poco. Abbiamo piuttosto compreso che non è
importante la quantità di materiale che si riesce a leggere sul “Re in giallo”, bensì l’opportunità che
da essa deriva di trovare il giusto bandolo della matassa, in un ginepraio di conferme e smentite da
far diventar matti. Un esempio su tutti è l’identificazione di Hastur ora con un luogo, ora con un
personaggio, ora di nuovo con un luogo. Lo stesso Lovecraft, altro grande specialista di
pseudobiblium, nel suo racconto “The Whisperer in Darkness” posizionò Hastur esattamente a metà
di un lungo elenco di luoghi e personaggi, cosicché sarebbe stato lo stesso suo lettore a dover
decidere a quale categoria assegnarlo. Pare invece non ci siano mai stati
dubbi sulla natura di Carcosa: essa è certamente un luogo, anche se la sua posizione nello spazio e
nel tempo è certamente fonte di discussione.
Carcosa, come ormai sappiamo, fu citata per la prima volta nel racconto di Ambrose Bierce “An Inhabitant of Carcosa” (1886), e in tal contesto venne descritta come un’antica e misteriosa città,
visitata dal narratore solo dopo la sua distruzione. Il termine Carcosa fu successivamente ripreso e
ampliato da Robert W. Chambers nella sua antologia “The King In Yellow”, senza tuttavia
aggiungere molte informazioni circa la sua esatta natura: nei suoi racconti e nell'opera apocrifa
(intitolata anch’essa “The King In Yellow”) la città è un luogo misterioso, antico e forse maledetto,
adagiato sulle sponde dell’altrettanto misterioso lago Hali, ma la cui effettiva ubicazione è difficile
da determinare, ammesso che abbia effettivamente un'unica ubicazione. L’opera non è infatti
nemmeno molto chiara sulla realtà fisica di Carcosa: potrebbe esistere su questa Terra, su un altro
pianeta o all'interno di un diverso piano dimensionale, come suggerirebbe la singolarità della luna
che transita davanti alle torri delle città invece che dietro di esse. Data la natura aliena dei soli (ve
ne sarebbero due) e delle stelle (sarebbero nere) si potrebbe dedurre che Carcosa non sia di questa
Terra, e la sua associazione con le Iadi non farebbe che confermarlo. Tuttavia, il racconto di Bierce
collocava le rovine della città su un pianeta da cui si potevano vedere le Iadi nel cielo notturno, il
che implicherebbe che quella fosse la Terra. In entrambi i casi il contesto temporale è certamente
successivo al periodo classico, dato che il termine Iadi deriva dalla mitologia greca.
Sorprende scoprire quindi che, sebbene raramente, il termine Carcosa sia stato anche utilizzato per
identificare un personaggio.
Alan Moore, nella miniserie a fumetti “The Courtyard” (2003), vede un agente dell'FBI indagare su
una serie di omicidi rituali. La sua indagine lo porta in una discoteca dove scopre l’esistenza di una
droga psicoattiva spacciata da un misterioso uomo velato che risponde al nome di Johnny Carcosa.
Nel racconto “Dark Tower Dream” (2014), dello scrittore e poeta statunitense Neal Wilgus, il
narratore viene assunto per consegnare alla Torre Nera (***) "un baule con una strana serratura e
simboli inquietanti su tutti i lati". Seguendo una mappa che mostra il mondo com'era millenni prima
(****), giungerà a destinazione e gli verrà rivelato che in precedenza la Torre era uno splendente
castello dove governava un sovrano di nome Krakosa, ovvio mispelling della città hasturiana.
Un terzo esempio, decisamente bizzarro, come scrivevo in apertura di articolo, è il breve racconto
“The Memoirs of Dr. Carcosa Laveau” di tale Justin Hoffman. Perché bizzarro? Perché l’utilizzo
di un personaggio ricollegabile agli Yellow Mythos sembrerebbe essere un espediente per spingere
le vendite di un pessimo manuale di auto-aiuto, uno di quei testi spazzatura che pretendono di
insegnare alla gente cose come “come parlare in pubblico” o “come essere più efficaci sul lavoro”.
Nella fattispecie, qui siamo davanti a un ebook autoprodotto il cui contenuto guiderebbe il lettore
nell’ottenimento di un generico “stato di felicità”, qualsiasi cosa voglia dire. Se lo cercate su
Amazon, oggi non lo troverete più (è stato oculatamente ritirato dalla piattaforma Kindle già da
qualche anno), ma se come me lo avevate comprato ai tempi senza leggerlo, e se come me lo state
facendo solo ora, vi ritroverete a rimpiangere quegli spiccioli, fossero anche 99c, che avevate speso.
L’ipotesi “espediente di vendita” è confortata dall’esistenza di ben quattro diversi titoli con i quali il
medesimo testo è stato propinato al pubblico. Secondo Amazon la sua prima pubblicazione, sotto il
titolo di “The Man in the Mirror Pt.1”, risale al 12/3/2014; il giorno successivo viene pubblicato
“The Memoirs of Dr. Carcosa Laveau” (alias “The Man in the Mirror Pt.2”), il cui contenuto è
esattamente identico se non per una decina di pagine iniziali di cui andremo tra poco a parlare. In
seguito, rispettivamente il 12 giugno e il 9 agosto dello stesso anno, il testo viene riproposto con i
titoli di “Achieve+Purpose!” e “Aristotele’s Fix!”, edizioni caratterizzate da un’immagine di
copertina che tanto ricorda le vecchie figurine che, negli anni Settanta, si potevano trovare nei
fustini di detersivo (le potete visualizzare in fondo a questo articolo). Tra queste, l’edizione che ci
interessa è, come ovvio, quella con l’astuto riferimento agli Yellow Mythos, stratagemma che mi ha
fatto cadere, così come credo sia accaduto a molti altri, nella trappola tesa dall’autore.
“The Memoirs” è presentato come un diario, redatto da un anonimo traduttore che un giorno riceve
l’incarico di tradurre un antico testo francese del diciannovesimo secolo intitolato “Les rêves et les
moyens de les diriger” (ossia “I sogni e i modi per controllarli”). L’uomo si trasferisce quindi
dall’Ohio, dove vive, a New Orleans, dove trova alloggio in un hotel del quartiere francese, non
distante dal luogo in cui il giorno successivo dovrà ritirare “Les rêves” dalle mani di un tenente del
dipartimento di polizia. Il tenente in questione non si farà trovare all’appuntamento, ma troverà
comunque il modo di fargli avere “Les rêves” e un fascicolo della polizia riguardante il caso di una
persona scomparsa all’inizio degli anni Settanta, tale dottor Carcosa Laveau. Il libro, si viene a
sapere, era stato ritrovato nel corso di lavori di ristrutturazione dell’hotel Dauphine (guarda caso lo
stesso hotel dove l’anonimo narratore ha preso alloggio) e quindi consegnato alle autorità, in quanto
al suo interno erano stati trovati dei fogli vergati a mano, e ingialliti dal tempo, recanti proprio la
firma di quel Carcosa Laveau. Il compito del narratore sarebbe quindi quello di tradurre tutto il
traducibile, con la speranza, se ne deduce, che si trovi una pista che porti alla soluzione di quel
vecchio “cold case”. L’attività andrà rapidamente a rotoli: procedendo nella traduzione strani sogni
inizieranno a tormentare le notti del nostro protagonista finché, come ampiamente prevedibile, il
diario non si interrompe. I fogli sparsi e ingialliti rinvenuti all’interno de “Les rêves”, come avrete
indovinato, altro non sono che “The Man in the Mirror”.
Ecco quindi che, dopo quelle promettenti
dieci pagine iniziali, il malaugurato acquirente di “The Memoirs” viene abbandonato, suo malgrado,
alla lettura di quel dannato manuale di auto-aiuto, firmato (e questa è davvero l’unica differenza)
non dal Justin Hoffman autore delle altre edizioni, bensì dall’inafferrabile Dr. Carcosa Laveau.
Devo ammetterlo: nella speranza di ricavarne qualcosa, quel manuale alla fine me lo sono anche
letto (in fondo sono 60 pagine in tutto), ma come previsto è stata una totale perdita di tempo, oltre
che una noia inimmaginabile. Unico diversivo, la presenza in chiusura di una citazione di William
Blake: “If the doors of perception were cleansed every thing would appear to man as it is, Infinite.”,
che i più attenti avranno riconosciuto come la fonte che ispirò Jim Morrison nella scelta di un nome
per la sua band. In altri contesti avrei anche potuto, con qualche piccola forzatura, ricamare un
nesso tra queste “porte” e la scomparsa del Dr. Laveau, ma almeno per questa volta, visti i
presupposti, preferisco lasciar perdere.
Termina qui questo articolo che nulla aggiunge e nulla toglie a questa lunga serie, se non fosse per
la curiosità di trovare nuovi significati al termine “Carcosa”. Per quello che ne è venuto fuori, avrei
potuto anche evitare di scriverlo, ma alla fine ho pensato che non fosse nemmeno così sbagliato
portare, tra le altre cose, un piccolo esempio di come ancora oggi il “segno giallo” (chiamiamolo
così) continua a essere efficace.
Note:
(*) Lo scrittore statunitense Lyon Sprague de Camp è stato il primo ad associare il termine pseudobiblia a quei libri che
«non sono mai stati scritti, ma che esistono solo come un titolo, con magari degli estratti, in un'opera di finzione o
pseudo-fattuale».
(**) Mi riferisco a Howard Phillps Lovecraft, che più volte nelle sue corrispondenze sentì la necessità di ribadire il
concetto, evidentemente per il timore di essere considerato un mistificatore. Particolarmente significativa una lettera
inviata a William Frederick Anger (14 agosto 1934): «Regarding the dreaded Necronomicon of the mad Arab Abdul
Alhazred—I must confess that both the evil volume & the accursed author are fictitious creatures of my own—as are the
malign entities of Azathoth, Yog-Sothoth, Nyarlathotep, Shub-Niggurath, &c. Tsathoggua & the Book of Eibon are
inventions of Clark Ashton Smith, while Friedrich von Junzt & his monstrous Unaussprechlichen Kulten originated in
the fertile brain of Robert E. Howard. For the fun of building up a convincing cycle of synthetic folklore, all of our gang
frequently allude to the pet daemons of the others—thus Smith uses my Yog-Sothoth, while I use his Tsathoggua. Also, I
sometimes insert a devil or two of my own in the tales I revise or ghost-write for professional clients. Thus our black
pantheon acquires an extensive publicity & pseudo-authoritativeness it would not otherwise get. We never, however, try
to put it across as an actual hoax; but always carefully explain to enquirers that it is 100% fiction. In order to avoid
ambiguity in my references to the Necronomicon I have drawn up a brief synopsis of its ‘history’... All this gives it a sort
of air of verisimilitude.” (altri esempi su https://www.hplovecraft.com/creation/necron/letters.aspx)
(***) Ogni riferimento all’omonima serie di romanzi di Stephen King non è affatto casuale.
(****) Anche in questo caso, il riferimento al racconto di Ambrose Bierce “An Inhabitant of Carcosa” è palese.
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