lunedì 4 dicembre 2023

Il mistero della stanza 1046 (Pt.2)

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Baltimore Avenue, Kansas City, Missouri, Stati Uniti. 1935. È il primo pomeriggio di mercoledì 2 gennaio 1935. Un uomo con un soprabito scuro dall’aspetto molto giovane fa il suo ingresso al President Hotel
Non ha con sé alcun bagaglio. Si avvicina alla reception e chiede una stanza, possibilmente a un piano alto e con vista sul cortile interno. Dice di chiamarsi Roland T. Owen. Si registra con un indirizzo di Los Angeles, paga una notte in anticipo e si vede assegnata la stanza 1046, decimo piano, unica stanza libera con le caratteristiche desiderate. L’uomo, preciserà in seguito il personale dell’albergo, ha i capelli castani e folti, una cicatrice ben visibile sulla tempia e un grave ematoma pericondrale. Per inciso, tale patologia, comunemente detta “orecchio a cavolfiore”, è una deformità dell’orecchio generalmente causata da un evento traumatico ed è molto comune in chi pratica sport di contatto come la boxe. 
Concluse le operazioni di check-in, un fattorino di nome Randolph Propst lo accompagna al decimo piano, fino alla porta della sua stanza, la 1046. Durante il tragitto, Owen dice di aver trascorso la notte precedente al vicino Muehlebach Hotel, ma di averlo trovato troppo costoso. I due entrano in camera e il fattorino vede Owen estrarre dalle proprie tasche e riporre sul lavandino del bagno pochi oggetti essenziali, un dentifricio, uno spazzolino e un pettine. Visto che la stanza non è ancora pronta, al termine di quella rapida operazione i due si allontanano assieme e il fattorino consegna a Owen la chiave della camera. Il primo torna quindi al suo lavoro, mentre il secondo esce dall’albergo e si allontana. 
Poco più tardi, quello stesso giorno, Mary Soptic, una delle cameriere dell’albergo, viene mandata alla 1046 per riassettare la camera. Quando entra, rimane quasi scioccata nel vedere il nuovo ospite presente, seduto su una sedia al buio. Mary si scusa, ma lui le chiede di non preoccuparsi e di procedere con le pulizie. Mary avrebbe detto in seguito che l’uomo sembrava spaventato, o seriamente preoccupato per qualcosa. Sentiva, in altre parole, che c'era qualcosa di strano. Dopo pochi istanti, Owen si alza, indossa rapidamente il soprabito e si accinge ad allontanarsi. Sulla porta dalla camera si volta e chiede a Mary la cortesia di lasciare la porta aperta, una volta terminato, perché da lì a poco arriverà un suo amico. Mary, rimasta sola, spalanca le tende, fa entrare la luce del giorno e inizia la sua attività. 
Verso le 16:00, Mary entra ancora una volta per portare gli asciugamani puliti. La porta è aperta, ma la stanza è nuovamente immersa nell’oscurità. L’ospite è ora sdraiato sul letto, vestito. Mary non dice nulla, lascia gli asciugamani e se ne va velocemente. In quei pochi istanti fa però in tempo a notare un biglietto in un angolo che recita le seguenti parole: “Caro Don, torno tra 15 minuti, aspetta". 

Il mattino seguente, 3 gennaio, la donna ritorna verso le 10:30. Questa volta la porta della camera è chiaramente chiusa dall'esterno. Mary tira un sospiro di sollievo pensando che questa volta non dovrà incontrare quell’uomo bizzarro, ma aprendo la porta lo trova invece seduto sulla solita sedia, al buio. 
Squilla il telefono. Owen afferra la cornetta e dopo qualche istante Mary lo sente dire alla persona all’altro capo del telefono: "No, Don, non voglio mangiare. Non ho fame. Ho appena fatto colazione. No, non ho fame". Mary inizia le pulizie mentre l’ospite cerca di scambiare con lei qualche frase di circostanza (le chiede qualcosa del suo lavoro e si lamenta anche con lei dei prezzi dell’altro hotel). La donna, presa dall’ansia, termina alla svelta il suo lavoro e si dilegua. 
Quello stesso pomeriggio, ancora verso le 16:00, Mary deve però tornare per portare in camera gli asciugamani freschi di lavanderia. Coglie, attraverso la porta, le voci di due uomini parlare tra loro, per cui decide di bussare. Una delle due voci, con un tono piuttosto sostenuto, chiede “Chi è?”. Mary risponde: "Sono io, Mary. Ho portato gli asciugamani puliti". La stessa voce, indubbiamente non quella di Owen, dice: "No, non ne abbiamo bisogno". Mary si allontana perplessa. Sa benissimo che in quella stanza non ci sono asciugamani, poiché quelli del giorno precedente li ha portati via lei stessa quella mattina. 
Non ci sarà alcun altro contatto tra il personale dell’albergo e il misterioso ospite della 1046. Almeno, non ci sarà alcun contatto fino al mattino del 4 gennaio, quando Randolph Propst (sì, proprio lo stesso fattorino che lo aveva accompagnato in camera dopo le operazioni di check-in) lo troverà in fin di vita all’interno di una stanza inondata di sangue. 

Appare subito chiaro come gli avvenimenti dei primi due giorni siano tutto sommato piuttosto insignificanti, e che sarebbero stati rapidamente dimenticati dai loro protagonisti se non fosse stato per le circostanze che abbiamo descritto nell’articolo precedente. Mary Soptic, la donna incaricata delle pulizie, sostiene di essere rimasta turbata dal comportamento di Roland T. Owen, ma, se ci pensate, non vedo nulla di veramente strampalato in un uomo che decide di trascorrere le sue ore in una camera d’albergo al buio con le tende tirate. Sì, ammetto che è insolito, ma potrebbero benissimo esserci mille spiegazioni, tra cui un momento stanchezza, una depressione, una fobia sociale, un episodio di agorafobia e, non ultima, una ipersensibilità anomala alla luce causata da una patologia oculare (e no, escluderei sin da ora l’ipotesi del vampiro). 
Non vedo nemmeno nulla di strano nel presentarsi in albergo senza bagaglio, se l’idea è quella di fermarsi una sola notte. Io stesso, nei miei viaggi di lavoro più brevi, tendo a viaggiare leggero, portando con me lo stretto necessario, ovvero dentifricio, spazzolino e deodorante. Di solito tendo anche a mettere nello zainetto perlomeno una mutanda pulita, un paio di calzini di ricambio e una maglietta non sudata, ma capisco, anche se non condivido, la scelta di chi non lo fa. 
Oggi viaggiare senza un minimo di bagaglio sembra una scelta ancora più estrema, visto che dobbiamo portarci dietro anche smartphone, smartwatch, tablet, laptop e qualche chilometro di cavo di ricarica, ma, a quanto pare, anche nel 1935 un uomo che viaggiava con un dentifricio nella tasca del soprabito doveva sembrare quantomeno bizzarro. 
Anche le parole che l’ospite avrebbe scambiato con quel fantomatico “Don” (“torno tra 15 minuti” e “non vengo a mangiare”) non mi pare abbiano nulla di straordinario. Stupisce piuttosto il fatto che una cameriera se le sia appuntate, talmente poco pregne di significato queste erano. Resta quell’ultima scena, quella in cui una voce sconosciuta rifiuta l’assistenza di Mary. Ancora una volta, non vedo nulla di strano nel chiedere alla cameriera di un albergo di non disturbare, e potrebbe essere stata solo una svista quella di ritenere di essere a posto con gli asciugamani. 

Una foto della vittima scattata sul
tavolo dell'obitorio
Quello che invece è un pelino più strano è che Owen fosse in camera con uno sconosciuto. Solitamente, gli alberghi odierni tendono a scoraggiare i propri ospiti dal far salire gente in camera, anche se poi non è così difficile farlo, ma immagino che nel 1935 tale attività fosse ben più tollerata (lo proverebbe il fatto che a un certo punto Owen, andandosene, chiede a Mary di lasciare la porta aperta perché sarebbe arrivato qualcuno). 
Ancora più strano è quel particolare dove si dice che Owen è in camera, seduto al buio, con la porta chiusa dall’esterno. Qui sono molto perplesso, poiché non riesco a capire come sia possibile distinguere una porta chiusa dall’interno da una chiusa dall’esterno: a meno che non ci siano catenacci e catenelle, quando si ha in mano una chiave, la porta si apre uguale da qualunque parte ci si trovi, o sbaglio? O forse Mary riteneva fosse chiusa dall’esterno proprio per l’assenza di catenacci e catenelle? Mi sembra strano. 
Io sono uno di quelli che, viaggiando per alberghi, tendenzialmente non si barrica in camera: lascio che la porta si chiuda alle mie spalle e quando la sento scattare sono a posto. Forse è per quel motivo che tante volte ho visto cameriere fare irruzione nei momenti più indelicati, ma il mio vizio di lasciar chiudere la porta automaticamente e fregarmene non equivale a dire che qualcuno mi ha chiuso dentro contro la mia volontà. Non credo occorra sottolineare il fatto che il sottoscritto non ha alcuna esperienza con le serrature vintage, ma se fosse vero che un passepartout nel 1935 era in grado di aprire una porta solo se chiusa a chiave dall’esterno (e ciò equivale a dire che la stanza è vuota), bisognerebbe allora rileggere sotto questa nuova luce gli avvenimenti della mattina del 4 gennaio. 

Nel corso di quella tragica mattina, due diversi fattorini (rispettivamente alle 8:30 e alle 10:30) si erano recati alla 1046 e avevano aperto la porta con un passepartout, trovando, entrambe le volte, l’ospite all’interno. Significa che l’aggressore era già fuggito chiudendosi la porta alle spalle con un giro di chiave? E per quale motivo prendersi la briga di chiudere a chiave? E di chi era quella voce che alle 7 di mattina aveva invitato il fattorino a entrare? Era la voce di Owen? In tal caso potrebbe reggere l’ipotesi che l’aggressione sia avvenuta tra le 7:00 e le 8:30. Ma allora come avrebbe fatto quel telefono, risistemato alle 8:30, a finire di nuovo a terra alle 10:30? Tante domande e poche certezze. Solo qualche ipotesi non verificabile. 
Ma l’unico vero grande mistero, in questo momento, è un altro: perché Roland T. Owen, nei suoi ultimi istanti di lucidità, con un polmone perforato e il cranio fratturato in tre punti, decide di negare l’evidenza, attribuendo tutto quel casino a uno sciocco incidente domestico? Chi, o cosa, cercava di proteggere? Di chi, o di cosa, aveva paura? 
Dopo quelle poche parole, come detto, Roland T. Owen perde conoscenza e viene trasferito in ospedale, dove muore qualche ora più tardi. Partono immediatamente le indagini. Senza indugio gli agenti di polizia passano la camera al setaccio alla ricerca di indizi, e ciò che non verrà trovato sarà ancora più strano di ciò che verrà trovato... 



4 commenti:

  1. Scatta automatica la tipica frase "la vittima conosceva il suo assassino", però prima voglio sapere cosa è che stranamente non è stato trovato...

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    1. La vittima conosceva l'assassino? Ecco, forse quella è l'unica cosa su cui potrei scommettere tutto quello che ho.

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  2. Il mistero si infittisce! Ma credo, almeno finora, che ci sia stato un "banale" regolamento di conti fra criminali, e che la vittima sia rimasta fedele alla tradizione di non dire/fare alcunché che possa finire per coinvolgere la polizia.

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    1. Ti hanno massacrato di botte, strangolato, pugnalato, spaccato la testa in più punti, ti restano pochi attimi di vita e il tuo pensiero va alla tradizione? Probabilmente c'è dell'altro....

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