venerdì 12 luglio 2024

La giungla di Upton Sinclair

Mentre mi accingo a scrivere so già che non ce la farò ad essere sintetico, talmente affollati sono i miei pensieri dopo la lettura di questo libro. Tra l'altro l'idea originale era quella di trattare questo argomento come "fuori speciale" ne "La grande Abbuffata", ma poi mi sono ricordato che nel post introduttivo mi ero ripromesso di non parlare di libri, per cui ho optato per la soluzione che vedete oggi, completamente slegata dal progetto che ha monopolizzato il blog per tre mesi. L'argomento, lo avrete intuito leggendo il titolo, è “La giungla” di Upton Sinclair (The jungle, 1906), autore che una ventina di anni dopo pubblicherà “Petrolio!” (Oil!, 1927), da cui nel 2007 sarà tratto il film “Il petroliere” (There Will Be Blood) di Paul Thomas Anderson, con Daniel Day-Lewis nel ruolo principale. Mi sono avvicinato a questo testo, lo confesso, perché avevo letto da qualche parte che fosse uno dei romanzi preferiti di Bukowski, ma anche per via della sinossi italiana, che afferma, e non è lontana dal vero, che il libro “è sufficiente per convincere a diventare vegetariani”. 
La pagina wikipedia dedicata all’autore è avara di notizie e definisce “La giungla” come un saggio denuncia sull'industria delle carni e insaccati, ma ciò è del tutto inesatto, perché benché la situazione dell'industria del confezionamento della carne di Chicago, il cosiddetto Trust della Carne, sia descritta in modo veritiero, a seguito di un’indagine effettuata personalmente dallo stesso autore, i personaggi sono fittizi e si tratta quindi tutti gli effetti di un romanzo; potremmo definirlo, al massimo, un romanzo-inchiesta. 
Per saperne di più su quest’opera e sull’accoglienza che gli fu riservata occorre rivolgersi alla wikipedia inglese: oltre a guadagnarsi il plauso di personalità letterarie come Jack London e George Bernard Shaw, il libro creò un piccolo terremoto sul piano intellettuale e politico, contribuendo all’attuazione del “Pure Food and Drug Act”, la legge sulla sicurezza degli alimenti e dei medicinali emanata nel 1906; l’allora presidente Theodore Roosevelt, dopo aver definito l’autore “un pazzo" a seguito di un’intervista da lui rilasciata a Cosmopolitan, lesse il libro e si disse d’accordo con alcune dichiarazioni di Sinclair, dissentendo però fortemente con le idee socialiste espresse nel romanzo (Sinclair fu un attivista politico e un socialista). 
La nuova legge, va detto, non soddisfò per nulla Sinclair, che la vedeva come un regalo ai lobbisti della carne, dato che il costo delle ispezioni alle fabbriche, stimato in 30.000.000 di dollari all'anno, sarebbe stato a carico del governo e, quindi, dei contribuenti. 

Una scena dal film "The Jungle" (1914), di George Irving, Jack Pratt e Augustus Thomas  
Il romanzo descrive innanzitutto una realtà in cui il cibo è totalmente insalubre, e ciò che fa rabbrividire è che l’Illinois non è altro che lo specchio di tutto il paese. E pensare che ci fu un tempo in cui gli immigrati in America si nutrivano meglio dei loro consanguinei rimasti nei paesi europei d’origine, certamente grazie alla enorme disponibilità di aree fertili sul suolo americano. Eppure, già alla fine dell’Ottocento le cose cominciano gradualmente a cambiare. 
La necessità di aumentare la produzione agricola porta alla meccanizzazione dei processi produttivi, che poi sarà estesa a tutti i settori industriali; nascono le grandi aziende agroalimentari, che segnano il passaggio alla produzione di cibo in serie, che sarà di qualità sempre più scadente; gli agronomi cercano il modo di sviluppare semi in grado di resistere meglio ai parassiti, aprendo la strada agli OGM, mentre il settore chimico inventa pesticidi sempre più performanti. 
I dietisti americani, da Graham e Atwater, cominciano a porre l’accento sul valore energetico dei piatti, le tanto famigerate calorie, e non più sul sapore, e l’industria alimentare inizia a produrre cibo insipido e da mangiare velocemente, che non necessiti di essere consumato a tavola, perché la società americana è ormai formata da individui che mangiano da soli o con i colleghi direttamente sul posto di lavoro, aumentando la produttività aziendale; poi sapori artificiali (salse e additivi) per coprirne la mancanza di gusto; e in seguito vitamine, fermenti e quant’altro possa servire a spacciare il cibo per qualcosa di sano, o comunque “più sano” di quello della concorrenza. 
Dopo la Prima Guerra Mondiale nasce e si afferma il fast food, ma questa è una lunga storia che è stato possibile affrontare solo in parte in questo post. Il fatto che il cibo di oggi sia fatto con ingredienti che i dietisti menzionati sopra avrebbero aborrito è un effetto collaterale spiacevole e del tutto imprevisto; per esempio, ed è il meno, è in base a questa deriva che un cibo depotenziato come i corn flakes si è affermato in tutto il mondo. Purtroppo, pare che questi uomini siano stati le armi inconsapevoli per la disgregazione della famiglia e delle tradizioni, ma pure della salute degli americani, e non solo. 

Ma torniamo alla vera ragione di questo post, che è il libro di Sinclair. “La giungla” descrive l’odissea di una famiglia di immigrati lituani - e in particolare di uno dei suoi membri, il giovane Jurgis - che lascia la madre patria per inseguire il sogno americano, un sogno che si rivelerà però quantomai effimero e illusorio. Il libro comincia con pagine dedicate alla veselija, la festa di nozze di Jurgis e Ona, che lascia la famiglia con cento dollari di debiti (considerato che Jurgis arriverà a guadagnare un dollaro e mezzo al giorno, se non ricordo male, fate voi le proporzioni). 
In seguito ci vengono narrate le circostanze che hanno portato questa famiglia allargata a decidere di trasferirsi in America, i primi tempi a Packingtown, il quartiere della carne di Chicago, e il suo primo impatto con l’enorme estensione della fabbrica, del tutto inimmaginabile per una mente contadina: “C’erano più di due chilometri di macelli e più della metà di essi erano occupati da recinti di bestiame; da nord a sud, per quanto l’occhio riusciva a spaziare. Si trattava di un vero e proprio oceano di recinti, così pieni e traboccati di bovini che nessuno di loro si era mai sognato ne potessero esistere così tanti al mondo.” 
Non sanno ancora, i nostri protagonisti, quanto dure e precarie siano le condizioni di lavoro nell’industria della carne, non conoscono il Capitalismo e le regole della concorrenza, in base alle quali se l’esistenza degli operai dipende dal lavoro, le paghe diventano sempre più basse e gli operai ingaggiano una lotta perpetua con altri disperati per la vita o per la morte. Lo impareranno a proprie spese; questo e molto altro. Impareranno innanzitutto che i salari in America sono più alti che in Europa perché il costo della vita è proporzionalmente più alto, e certo troppo alto per le loro possibilità economiche. 
Se all’inizio riescono in qualche modo a tirare avanti, sebbene vivendo solo in funzione della sussistenza, una serie di sfortunate coincidenze gli farà perdere tutto, anche perché la loro ingenuità, che è pari alla loro ignoranza, li rende la preda ideale di ogni genere di approfittatori e professionisti del crimine. “Avevano sognato di essere liberi in America, avevano bramato la possibilità di guardarsi intorno e poter imparare qualcosa, avevano desideato di essere gente dignitosa e pulita, di vedere i loro figli crescere e diventare forti. Ma tutto era volato via, i sogni non si sarebbero mai relizzati. Avevano giocato la loro partita e avevano perso.” 
E così, benché Upton Sinclair non sia incline all’indulgenza, proprio questa purezza di fondo dei suoi personaggi ci invoglia a provare pietà per loro nonostante i loro difetti, le loro bassezze e i loro peccati. 

A un certo punto Jurgis lascerà la famiglia, alternando periodi di lavoro durissimo e usurante ad altri nei quali si troverà a mendicare, imbrogliare, corrompere e rubare per poter sopravvivere, fino al momento del suo ingresso nel partito socialista che inaugura l’ultima parte del romanzo, col suo finale sospeso ma pieno di speranza. La sua presa di coscienza della terribile realtà che lo circonda era già cominciata con il suo ingresso nel sindacato: “Adesso, nel sindacato vi erano degli uomini che gli spiegavano tutta quella faccenda, e allora poté imparare che l’America si distingueva dalla Russia perché in essa il governo si esprimeva sotto forma di democrazia. I membri venivano sì corrotti, ma dovevano essere prima eletti.” Poi aveva sconfessato quel mondo e quella consapevolezza per unirsi alla minoranza dei corrotti e privilegiati, privilegiati proprio perché corrotti, e solo l’impatto con le idee socialiste lo renderà appieno consapevole, e quindi libero. 
Quando lui e la sua famiglia avevano visitato la fabbrica della carne per la prima volta, non si erano resi conto dell’analogia fra il destino umano e animale, e non l’avevano fatto neppure in seguito: “I nostri amici non erano spiriti poetici e la scena non gli ispirava nessuna metafora sull’umano destino: pensavano solo alla grandiosa efficienza di tutto il meccanismo.” Ora, però, Jurgis può finalmente vedere la realtà per quella che è. “Jurgis ricordò come, quando era giunto per la prima volta a Packingtown, era rimasto a guardare le uccisioni dei maiali e aveva pensato quanto crudele fosse il trattamento riservato a quelle povere bestie, e come si era rallegrato con se stesso di non essere un maiale. Il suo nuovo amico gli dimostrò che invece proprio un maiale egli era stato, nient’altro che uno dei maiali dei conservieri. Ciò che volevano da un maiale era tutto il guadagno che potevano spremergli, ed era esattamente quello che volevano anche dall’operaio, come anche dal consumatore. Ciò che il maiale pensava, e ciò che soffriva, non era affar loro, e così per il lavoratore e, in seguito, per chi comprava la carne.” 

I macelli di Chicago descritti da Sinclair sono un inferno che accomuna animali e uomini in una sofferenza che non lascia “alcuna tregua e nessuna liberazione”. Milioni di animali vengono trasportati su rotaia in condizioni terribili e abbattuti all’arrivo in modo chirurgico, ma niente affatto pietoso, e il tutto è narrato dall’autore in pagine disturbanti e indelebili, che non risparmiano al lettore alcun particolare. Se ciò non bastasse a convincere a diventare vegetariani, lo farà forse la descrizione dei processi di lavorazione di una vera e propria industria della carne guasta, in cui gli ispettori del governo, che dovrebbero controllare i rischi di affezione per la carne malata, sono nominati su richiesta dei conservieri stessi e pagati dal governo centrale per accertare esclusivamente che tutte le carni malate non possano uscire dallo stato, mentre per quanto riguarda l’ispezione delle carni da mettere in vendita entro i confini della città e dello stato i controlli sono lassi e aggirabili. 
Al macello vengono utilizzati non solo gli animali sani, ma anche quelli malati o deceduti durante il trasporto, che sia di tubercolosi (ben vista, perché fa ingrassare più in fretta gli animali) o di colera o per qualsiasi altra causa, o coperti di pustole perché nutriti con gli scarti della distillazione; la carne si adultera per via delle condizioni di stoccaggio inidoee, per la pioggia che gocciola dai buchi nel soffitto della fabbrica o per le migliaia di topi che vi s’avventano sopra voraci, lasciandovi le proprie deiezioni; nelle salsicce confluisce ogni genere di scarto della lavorazione della carne, tutto ciò che è troppo malmesso per essere utilizzato in altro modo, e vengono gonfiate con farina di patate; la carne andata a male viene trattata con soda caustica per eliminarne la puzza e venduta alle mense per i poveri, alle carceri o agli ospedali; si raccoglie il burro rancido invenduto, lo si rilavora e lo si monta col latte scremato per rimetterlo sul mercato; e poi tè, caffè, zucchero, farina trattati chimicamente, e latte annacquato e con formaldeide e piselli colorati con solfato di rame; e così via. Per non parlare di tutte le industrie dell’indotto che sorgono nei pressi dei macelli e che costituiscono un inferno a sé, terrificante quanto i macelli stessi - tra puzza, freddo, caldo e mosche - incluse quelle che recuperano il sudiciume dal “ruscello”, il braccio del fiume Chicago nel quale vengono gettati tutti gli scarichi del mattatoio, e la fabbrica di fertilizzanti, dove si lavorano i residui delle carcasse, dopo che anche il lardo e il sego sono stati utilizzati, e così insalubre che i suoi lavoratori sono destinati a morte certa nel giro di qualche anno. 

In tutto questo degrado il grande assente è Dio, o quantomeno i suoi emissari. Ci si aspetterebbe infatti che in un tale scenario, con migliaia di persone allo sbando e destinate a morire di stenti, queste facessero affidamento sulla Chiesa, ma non sembra essere così: Jurgis, ad esempio, quando può si rivolge al dormitorio pubblico (a pagamento) o a qualche oste compiacente per trovare un po’ di sollievo dal freddo invernale, ma non pensa mai di entrare in chiesa o di chiedere aiuto a qualche sacerdote. 
Il problema di Dio viene comunque affrontato in due punti del libro. Nella prima parte, il narratore extradiegetico e onniscente descrive la mattanza degli animali, e soffermandosi in particolare sui maiali esprime un pensiero che mi sento di condividere: “Davvero qualcuno sarebbe potuto rimanere scettico sul fatto che dovesse esistere un paradiso dei maiali, sulla terra o al di sopra di essa? Un paradiso dove ciascuno di quei maiali non avesse diritto alla ricompensa per così tanta sofferenza subita?” La seconda riflessione è di Ostrinski, il “compagno” per il quale il socialismo è “la nuova religione dell’umanità o, si poteva dire, il compimento della vecchia religione, dal momento che altro non era che l’applicazione alla lettera di tutti gli insegnamenti di Cristo.” 
Invece Schliemann, lo svedese socialista che compare nelle ultime pagine del libro, afferma che, mentre il governo opprime il corpo dello schiavo salariato, la religione si occupa di soffocare ogni sua pretesa, predicando la speranza in una vita futura mentre in questa lo educa “alla frugalità, all’umiltà, all’obbedienza che, in una parola sola, erano tutte pseudo-virtù del capitalismo.” Anche se Gesù è stato “il primo rivoluzionario al mondo, il vero fondatore del movimento socialista, un uomo il cui intero essere è stato una fiamma di odio contro la ricchezza e tutto ciò che è sinonimo di ricchezza”, il messaggio della sua Chiesa è divenuto né più né meno che un’estensione della ragion di stato e, quel è peggio, delle istanze del suo potere economico. 
Quando immagina un’umanità in grado di lavorare meno e in condizioni migliori e guadagnare di più, Schliemann sta evidentemente esprimendo le opinioni dell’autore del romanzo. E appare chiaro che per Sinclair la chiave per la giustizia sociale sia politica, con l’avvento al potere della classe operaia. Schliemann menziona inoltre la sovralimentazione come causa della maggior parte dei mali del corpo umano, e sogna un futuro in cui il costo dei prodotti da macello aumenterà fino al punto che chi vorrà continuare a mangiare carne sarà costretto a provvedere da sé all’uccisione degli animali, e questo finirà per farne diminuire il consumo. 
La storia americana e globale ha preso un’altra piega e non si è dipanata come auspicato da Sinclair, ma se è innegabile che la schiavitù del lavoro esiste ancora, la vita dell’uomo medio non è neanche lontanamente agghiacciante quanto lo era un secolo fa. Ma a differenza degli uomini, gli animali sono ancora senza voce. Chi, se non un pugno di artisti sensibili e di “animalisti estremisti”, si preoccupa delle loro istanze? Mi viene detto da più parti che, in nome del green, i governi promulgheranno leggi volte a obbligare a diminuire o abbandonare il consumo di carne a favore di una dieta vegetale o artificiale (non si sa quanto più sana, però). Oggi tuttavia quel giorno non è ancora venuto. Per gli animali non esiste requie, ogni anno miliardi delle loro vite vengono ancora sacrificate al piacere del palato, e per adesso questa è l’unica realtà di cui valga la pena parlare.



6 commenti:

  1. Per quanto mi riguarda, se venisse dimostrato in modo incontrovertibile che la carne "coltivata" in laboratorio è sana e priva di pericoli per l'organismo umano, non avrei alcun problema a consumare quella.

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    1. Temo che in questo caso dovrai attendere a lungo, visto che dopo il solito iniziale entusiasmo alimentato dalle grandi industrie alimentari, molti stanno iniziando a fare i primi passi indietro. Un esempio? Solo nelle ultime settimane due stati americani, Alabama e Florida, hanno approvato leggi che vietano la produzione e la vendita di carne "sintetica". Ho volutamente utilizzato il termine "sintetica" anziché "coltivata" perché mi pare che quest'ultimo venga utilizzata in maniera tendenziosa, cercando di far passare come "naturale" un processo innegabilmente chimico.

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  2. Proprio un post adatto a me, che sono alle prese con l'impegnativa lettura del Capitale di Marx. Ma non ho le belle (?) speranze del barbuto di Treviri. Il destino di uomini e maiali continuerà a essere quello...

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    1. Non ho mai letto "Il Capitale" ma l'opera dell'economista tedesco è celebre abbastanza da permettermi di conoscere, almeno per grandi linee, il suo contenuto. La mia opinione (mi dirai poi tu se sono in errore) è che Marx non aveva previsto (e come avrebbe potuto?) il sopraggiungere di un'epoca storica in cui sarebbe venuta meno la centralità del lavoro nei processi economici. Oggi l'economia ha ceduto il passo alla finanza, che genera valore per "clonazione", attraverso prestiti e investimenti, rendendo di fatto obsoleti concetti come merci, forza-lavoro e tempi di produzione.

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    2. Farò un post sul mio blog di sicuro, quando avrò terminato l'interminabile libro. Le teorie di Marx sono del tutto inadeguate al mondo di oggi, in cui produzione e lavoro si stanno disaccoppiando, e la finanza fa comunque a meno di tutto. E comunque ci sta, ci mancherebbe altro. Ma erano criticabili anche ai tempi. Parlare dello sfruttamento va bene, ma in un'opera a carattere scientifico (come il Capitale vuol essere) la pretesa che l'operaio sia sempre, infallibilmente "derubato" perché l'unico lavoro è il suo, mi pare un tantino esagerata.

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    3. Esagerata ma comprensibile, perché l'operaio, con il suo lavoro, spesso forzato e ripetitivo, produce beni che appartengono ad altri. E dalla frustrazione di ciò nasce inevitabile il conflitto.

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