"Fast Food nation”, ispirato all'omonimo romanzo di Eric Schlosser, racconta le vicende di una catena di fast food
immaginaria, la Mickey's (ogni riferimento a McDonald's è comunque piuttosto evidente): a seguito di alcune inchieste
secondo le quali la carne non è igienicamente a norma, il direttore marketing californiano si reca ad indagare presso lo
stabilimento di macellazione. L’uomo verifica che le norme igieniche per fortuna vengono rispettate, ma anche che alla
produzione di hamburger vengono riservate le parti di scarto degli animali. Si rende anche conto che gran parte dei
lavoratori sono immigrati illegali dal Messico, che lavorano in condizioni precarie, soggetti a rischi fisici e abusi.
Suppongo che avvenga lo stesso, trasversalmente, un po’ in tutti i settori.
È noto che le industrie alimentari del fast food utilizzano carne proveniente da allevamenti intensivi, vale a dire di animali
che vivono in condizioni di stress e che, per evitare che si ammalino, vengono imbottiti di antibiotici, antinfiammatori e
cortisonici, e costretti a una dieta, per loro innaturale, a base di cereali. I polli vengono cresciuti a dismisura grazie agli
ormoni anabolizzanti. Inoltre, gli hamburger (come le crocchette di pollo, polpette, wurstel, cordon bleu e cotolette)
vengono prodotti con carne separata meccanicamente e ricavata da scarti industriali che includono anche ossa e
cartilagini, il tutto tritato assieme per renderlo lavorabile nella forma preferita. Si tratta di materie prime dalla scarsa
tracciabilità (la dichiarazione di origine non è obbligatoria), lavate con soluzioni di ammoniaca per annullare la carica
batterica degli scarti e conferirgli sapore, con molto sodio e molti grassi. Nelle crocchette di pollo solo una minima parte
è costituita dal muscolo, la gran parte è macinato di grasso puro con una minima quantità di carne, senza contare che la
panatura è a base di carboidrati, olio e additivi; quindi, la percentuale di grassi del prodotto può arrivare al 60%. Per la
legge questo preparato può a buon diritto essere definito “carne di pollo”, e il consumatore finale non avrà la percezione
di ciò che sta davvero mangiando, ovvero un alimento contenente grassi e carboidrati in eccesso e ben poche proteine.
È
l’ultima tendenza del settore alimentare: promuovere prodotti nutrienti ma “light”, poveri di sodio e integrali, eccetera,
cioè promettere salubrità e vantaggi nutrizionali anche laddove non ce ne sono. E quand’anche si dimostrasse che tali
diciture sono ingannevoli, al massimo al produttore verrebbe comminata una multa, senz’altro irrisoria a paragone dei
profitti ricavati dalla vendita dei propri prodotti.
Non è un caso che il fast food sia sinonimo di cibo spazzatura, dato che questo tipo di alimentazione più di ogni altra può
portare a sovrappeso e obesità. E a essere più a rischio di sovrappeso e obesità, nei paesi industrializzati, sono le fasce di
popolazione più povere.
Negli Stati Uniti, in particolare, oltre il 40% della popolazione adulta e il 20% di quella fino a
vent’anni è obesa e la percentuale sale tra la popolazione afroamericana e ispanica, ma questa situazione non è imputabile
solo al singolo, ovvero alla pigrizia, ai ritmi frenetici della vita moderna o alla scarsa cultura culinaria dell’americano
medio (che comunque in genere non si mette ai fornelli se non per grigliare hamburger, arrostire marshmallows o
infornare il tacchino per il Ringraziamento).
La situazione ovviamente è diversa da stato a stato, ma la realtà americana è
che nella maggior parte dei casi le catene di fast food, dove con un piccolo sovrapprezzo è possibile accaparrarsi porzioni
di cibo extra large, e i supermercati che vendono cibi pronti, ultra processati, sono più presenti sul territorio dei negozi
che vendono cibi freschi e naturali. Il fatto che la gente non abbia una vita molto attiva è dovuto a un’urbanistica che ha
destinato ogni area della città a una specifica destinazione d’uso, relegando le attività commerciali al di fuori delle aree
residenziali, dove nulla è raggiungibile a piedi dalle abitazioni, a un trasporto pubblico inesistente o insufficiente, e più
costoso di un mezzo proprio, e a una vera e propria cultura del “drive-through” (dai fast food e negozi di liquore agli
sportelli del bancomat, dalle farmacie al banco alimentare, e molto altro), in cui le persone sono disincentivate a scendere
dall’auto, anche perché molto spesso nelle città non ci sono i marciapiedi o si trovano barriere architettoniche
insormontabili, o attraversare la strada è più pericoloso della roulette russa. Se a questo aggiungiamo il fatto che la legge
americana prevede meno vincoli sulle sostanze nocive che è possibile inserire negli alimenti rispetto ad altre aree del
mondo, ad esempio l’Europa, il quadro è sconfortante, e non bastano iniziative come la Sugar Tax (o Soda Tax) a
cambiare le cose.
Chiaramente, la grande disponibilità di cibo di qualità scadente, pieno di grassi e zuccheri e povero di
micronutrienti, a partire dalle mense scolastiche e aziendali, porta a un maggior consumo di farmaci, e in un paese in cui
in cui la sanità non è pubblica questo rappresenta indubbiamente un bel giro di affari. Si comprende quindi che questa
cultura alimentare è stata promossa di proposito dalle grandi multinazionali alimentari e della ristorazione usando gli
stessi meccanismi che inducono le persone a desiderare grandi frigoriferi, automobili enormi, vestiti in gran quantità,
sigarette, alcol, farmaci.
Già nel 1957, con il suo saggio “Persuasori occulti”, il giornalista Vance Packard aveva
avvertito gli americani del fatto che la pubblicità stava mutando, utilizzando tecniche di psicologia avanzate per indurre
dei bisogni nei consumatori, soprattutto tramite il suo principale veicolo, la televisione.
Per completare il quadro va citato almeno “Fed Up”, documentario di Stephanie Soechtig, presentato in anteprima al
Sundance Film Festival del 2014, che ha denunciato la collusione del governo americano con le lobby dello zucchero per
nascondere la relazione tra una dieta ricca di zuccheri e le cattive condizioni di salute della popolazione (le prime linee
guida dietetiche emanate dal governo, trent’anni fa, trascuravano il ruolo dello zucchero alimentare nell’insorgere di
obesità, diabete e problemi di salute associati, soprattutto nei bambini).
I film fin qui trattati sono tutti importanti, ma è un peccato che nessuno di questi affronti apertamente il tema dello
sfruttamento animale dal punto di vista etico. Non ha però avuto paura di farlo Bong Joon-ho con “Okja”, del 2017,
anche se la sua è un’opera di fantasia e non un documentario (il che rende il tutto meno crudo, almeno in teoria: “Okja” è
comunque straziante). Nel suo piccolo villaggio sulle montagne coreane, Mija cresce il supermaiale Okja con amore per
ben dieci anni. Ma Okja è un esemplare di una nuova razza di maiale scoperta dalla multinazionale Mirando Corporation
(tramite controversi esperimenti genetici, ma questo lo si saprà poi), che ne detiene ancora la proprietà e infine la reclama.
La ragazzina tenterà quindi di riprendersi Okja insieme a un gruppo di animalisti.
Il film è una sorta di favola, con villain
ridicoli e sopra le righe e un finale a dir poco agrodolce, perché ci mostra sì il salvataggio di Okja, ma anche il dramma
degli animali meno fortunati: quelli da allevamento, destinati a una morte precoce dalla stessa mano che li ha nutriti.
Certo qui si tratta di animali “umanizzati”, ma è indubbio che anche nella realtà gli animali soffrano la detenzione ed
esprimano sofferenza ferendosi e automutilandosi, che sentano il sopraggiungere della morte e cerchino di sottrarvisi,
come provano le numerose storie di bestiame che scavalca i recinti degli allevamenti, dei circhi o degli zoo, o fugge dai
camion in corsa per votarsi a una fine terribile quasi quanto quella del mattatoio. Infatti, non c’è pace per gli animali
neppure quando sfuggono al macello, perché l’ambiente attorno a loro non è progettato per esseri la cui biologia è del
tutto incompatibile con l’urbanizzazione e la cementificazione selvaggia. Basta menzionare i danni alle colture, i rischi di
incidenti stradali e il disagio e la paura delle persone nel trovarsi ad avere a che fare con animali che non siano cani e gatti
per capire che le possibilità di sopravvivenza di quegli animali in natura è tutt’altro che assicurata.
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L'estate è ormai esplosa ed è giunto il tempo di tirare il fiato, ovvero mettere in pausa l'immenso Speciale Food Movie "La Grande Abbuffata", che ha monopolizzato il blog per tre interi mesi.
Ancora parecchio rimane da scrivere ma, visti i ritmi di pubblicazione ai quali mi sono sottoposto finora, la stanchezza fisica e mentale inizia a prendere il sopravvento e correre ai ripari è ormai obbligatorio.
Approfitto quindi dei mesi estivi per sospendere lo Speciale e dedicarmi a qualcosa di più rilassante. La prossima settimana usciremo con una nuova puntata della rubrica Traditi dalla fretta, alla quale seguiranno un paio di post a luglio e magari anche un paio ad agosto. A inizio settembre riprenderemo poi "La Grande Abbuffata" esattamente dal punto in cui ci stiamo fermando oggi. Grazie a tutti per la pazienza e per l'attenzione.
Come ti dicevo non sono mai stato negli USA, però vista la gigantesca quantità di fiction americane che inondano cinema e tv è normale farsi un'idea del "american way of life" e in effetti sono sempre rimasto un po' sorpreso quando si vedono le porzioni di gelati, frappé e dolci nei locali in cui mangiano i protagonisti del film o telefilm di turno: roba che con una porzione americana se ne fanno tre italiane.
RispondiEliminaRiguardo la scarsa qualità della carne venduta nei fast food, in effetti vale un discorso che dovremmo farci tutti, anche in Italia su certi prodotti. Tipo un signore che conosco, socio di un oleificio artigianale che vende un litro d'olio d'oliva a dieci euro, e mi ha detto: quando al supermercato vedi olio d'oliva venduto a 3 / 4 euro al litro, ti devi chiedere come sia possibile che il prezzo sia così basso, si vede che la qualità è davvero scadente...
Buona pausa estiva!
Laggiù è tutto esagerato. C'è una scena di "Super Size Me" dove Spurlock ti mostra la versione XL di una bibita del McDonalds (oggi ritirata dal menu) pari a 1,2 litri e qualche cosa. Una cosa da star male, soprattutto per me che un litro di Cola, che compro solo quando ho a cena qualcuno, mi dura in frigo sei mesi.
EliminaMa non è solo il cibo: fanno impressione anche le mega farmacie (con relativo Drive Through), dove puoi acquistare confezioni maxi di ogni medicinale, tipo la scatola con 365 tachipirine (una al giorno, giustamente) per chi soffre di dipendenza da sostanze chimiche.