Il digiuno umano è un fenomeno molto antico. Dico “umano” perché di questo parliamo oggi, ma l’esperienza ci dice che
anche gli animali, quando stanno poco bene, rifiutano istintivamente il cibo; quel che manca loro, naturalmente, è la
volontà ideologica - religiosa o politica - di praticare il digiuno.
Tutte le religioni incoraggiano il digiuno come forma di disciplina e pratica di purificazione, e per altre motivazioni; si
digiuna per ottenere l'autocontrollo, per "risvegliarsi" (come nel Buddhismo) o per conoscere il Signore, per espiare
(come nel Cristianesimo), per tenere lontane le tentazioni, come forma di autoconoscenza che porta ad aprire il cuore a
Dio e al prossimo (quindi con significato sia spirituale che sociale), come rito religioso, per adempiere un voto religioso
(nell’Induismo) e perfino come forma di preghiera. Talvolta ci sono regole rigorose (ad esempio, nel ramadan), altre volte
ci si rimanda alla coscienza dei fedeli, ma ha sempre e comunque una funzione educativa.
Nella religione cristiana il digiuno, fenomeno prevalentemente femminile noto come anorexia mirabilis, fu praticato da
figure come S. Caterina da Siena o Agnese da Montepulciano. Si è ipotizzato che queste donne, lontane dall’ambiente
ecclesiastico e impossibilitate a salirne la scala gerarchica, si affidassero al digiuno santo non solo per imitare le
sofferenze di Cristo, ma anche per affermarsi e disporre del proprio corpo fino alle conseguenze più estreme. Questa
forma di anoressia permetteva loro nella maggior parte dei casi di mantenersi in salute (almeno all’apparenza) nutrendosi
solo delle ostie della comunione, cosa che veniva interpretata come un miracolo eucaristico. Ma le cronache medievali
dell’Europa e dell’America del Nord, anche al di fuori dell’ambiente ecclesiastico, sono ricche di storie di giovani donne
(in qualche caso di bambine) che sostennero digiuni miracolosi perché affermavano di essere nutrite direttamente da Dio
e divennero note come “fasting girls”.
Dal punto di vista politico il digiuno è un’arma potente, ma anche spesso un percorso senza ritorno; e, naturalmente, è
attuabile dove l’opinione pubblica e l’etica o la religione sappiano dare il giusto peso alla vita umana. Quando una
persona non ha potere, non ha armi o non è incline a usarle, oppure ancora è privata della libertà, l’arma della lotta non
può che divenire il suo stesso corpo. Il rifiuto del cibo è la violenza estrema, quella contro se stessi, da opporre alla
prevaricazione del sistema. Un atto che costringe gli spettatori a partecipare alla violenza stessa mentre li mette di fronte
ai limiti del proprio controllo.
Per il suo valore simbolico, nella storia umana il cibo è stato usato anche come arma politica. Una tendenza
probabilmente non recente, ma che ha iniziato a colpire l’immaginario collettivo solo con la diffusione dei mezzi di
comunicazione di massa. È sull’informazione, quella televisiva in testa, che si giocano i destini della società e di
quell’agognato fantasma chiamato democrazia (l'eroe di piazza Tienanmen insegna: la sua protesta è passata alla storia
grazie alle telecamere, che questo anonimo ribelle cinese ha saputo sfruttare come il più navigato degli uomini di
marketing).
In Italia abbiamo avuto il caso di Marco Pannella, cofondatore del Partito Radicale e inneggiatore alla non violenza,
anticlericale e antimilitarista, le cui campagne per i diritti civili (famosa quella per la riforma delle carceri) venivano
rafforzate da scioperi della fame, uno dei quali effettuato già nel 1976 per strappare alla RAI una tribuna politica cui i
Radicali, secondo le regole di allora, non avrebbero avuto diritto. Più di recente è salito alla ribalta il caso Cospito, che ha
riportato a galla la mai sopita diatriba sul regime detto 41bis, il cosiddetto “carcere duro”. Il carcere duro sembra aver
fallito negli intenti per i quali era stato creato, come già in precedenza l’incarcerazione aveva perso (se mai ne avuta una)
la sua funzione rieducativa, incarnando la mera funzione di punizione per i propri reati (peccati) e, nel mentre, ha visto
l’ascesa di una forma di protesta che è l’apice della non violenza, e che sottrae il corpo del detenuto a quell’autorità che
del suo corpo ha preso possesso, delimitandone gli spazi e il raggio d’azione.
Al cinema Margarethe von Trotta ha trasposto con “Anni di piombo” (1981) una vicenda iconica legata al cosiddetto
”autunno tedesco”, quella di Gudrun Ensslin, membro del gruppo terroristico di estrema sinistra Rote Armee Fraktion
(RAF). Il cuore della narrazione è il rapporto conflittuale tra lei e sua sorella Christiane, qui ribattezzate Marianne e
Julianne: entrambe sono impegnate politicamente, ma una sola di loro ha scelto la lotta armata e questo è oggetto di feroci
dibattiti ideologici. Quando poi Marianne, alias Gudrun, si trova in carcere, prima del suo supposto suicidio viene
sottoposta ad alimentazione forzata in seguito a uno sciopero della fame, condotto allo scopo di farla riunire agli altri
membri della RAF che sono stati incarcerati con lei e di protestare contro il trattamento riservato ai prigionieri. Una
visione che la regista, volendo dare al film un taglio intimista, risparmia agli spettatori. Nelle parole di Marianne alla
sorella comprendiamo però tutto il disagio per delle torture soprattutto psicologiche, che hanno l’ovvio scopo di piegare i
reclusi nella mente più ancora che nel corpo: “Non sai tu come viviamo qui dentro? Vedo solo te, e l’avvocato, una sola
volta al mese, e nessun altro. E questi... questi stronzi di guardiani mi consegnano soltanto le lettere tue, e quelle di
mamma. E nient’altro. Non sento assolutamente niente, hanno eliminato completamente tutti i rumori, l’isolamento
acustico funziona perfettamente qui, lo sai? Ho appiccicato l’orecchio ai muri per sentire qualche segno di vita, niente,
tutto vuoto. Non so mai che ore sono. Non spengono mai i porci, la luce è accesa giorno e notte, non riesco a dormire in
questo maledetto silenzio. Ascolto il mio respiro, come passa dal naso, e esce dalla bocca. Fa sempre un rumore nuovo.
Qui dentro il silenzio è diverso, è quello che ci spaventava la notte quando eravamo bambine. Questo silenzio qua ti
rammollisce, perdi la nozione del tempo, perdi il senso di te stessa, ed è questo che vogliono, ridurti all’impotenza. E poi
ti sbattono via, in un manicomio.”
Ancora più sconvolgente è ciò a cui ci mette di fronte Steve McQueen con il suo lungometraggio del 2008 “Hunger”. Si
tratta del racconto della storia vera di Bobby Sands, volontario della Provisional Irish Republican Army (IRA),
processato e condannato per possesso illegale di armi da fuoco nel 1977 e promotore, dopo 4 anni e mezzo della
cosiddetta “protesta dello sporco”, di uno sciopero della fame che, oltre a lui stesso, portò alla morte di altri nove uomini
rinchiusi nella prigione Maze.
Per dare qualche cenno storico (anche se non penso ce ne sia bisogno), il conflitto
nordirlandese (in inglese “the Troubles”) era cominciato alla fine degli anni ‘60 contrapponendo varie associazioni
paramilitari nazionaliste (cattoliche) a quelle filobritannicihe (protestanti), queste ultime supportate dai militari britannici
e irlandesi; la miccia, sedimentata per anni, era la situazione di grave discriminazione subita dalla minoranza cattolica da
decenni, ovvero fin dalla divisione del paese a seguito della guerra d’indipendenza (1919-1921). La situazione divenne
davvero critica dopo la Bloody Sunday, il 30 gennaio 1972, data in cui l’esercito britannico sparò su una folla di
partecipanti a una marcia per i diritti civili a Derry, uccidendo quattordici persone (anni dopo, la band irlandese U2
avrebbe dedicato a questo avvenimento uno dei loro pezzi più belli, “Sunday Bloody Sunday”): la risposta dei nazionalisti
fu molto dura, e la lotta armata si inasprì al punto che il governo centrale britannico decise di assumere il controllo diretto
del parlamento nordirlandese. Fino a un certo punto, comunque, ai paramilitari che venivano incarcerati era stato
garantito lo status di prigionieri politici, ma le cose cambiarono a partire dal 1 marzo 1976: da quella data vennero
considerati comuni criminali e trattati di conseguenza.
Da quel momento in avanti, mentre l’IRA metteva in atto una serie
di attentati contro il personale carcerario (vediamo infatti uno dei poliziotti controllare la presenza di un ordigno sotto la
sua automobile anche nelle battute iniziali del film di McQueen), all’interno delle carceri i detenuti misero in essere una
strategia di lotta non violenta rifiutando di indossare le uniformi regolari, e restando quindi nudi o coperti solo con delle
coperte (da cui il nome di blanket protest), e rifiutando di lavarsi, di radersi barba e capelli e di usare i bagni, spargendo
ovunque le proprie deiezioni (no wash protest, o dirty protest).
Tutto questo viene documentato minuziosamente in
“Hunger”: prigionieri nudi o seminudi in pieno inverno; celle con le pareti ricoperte da strati di escrementi, con i detenuti
costretti a dormire su sudici materassi poggiati direttamente sul pavimento; una discesa nell’animalità a cui le guardie
reagivano con brutalità crescente, picchiando i reclusi senza pietà dapprima nei bagni, poi anche più apertamente. Si
potrebbe pensare che i prigionieri avessero a quel punto abbandonato la propria umanità, riducendosi come delle bestie
ingabbiate e impazzite cui il corpo, solo, fornisce un’arma di difesa, oppure sfugge di mano di pari passo con la perdita
del senso della realtà, ma non fu così.
Il dialogo con il sacerdote che avviene circa a metà del film ci mostra un Sands del
tutto lucido e razionale discutere dell’escalation della protesta: lo sciopero della fame. Alcuni detenuti avevano già tentato
questa carta fallendo miseramente, digiunando tutti assieme ma interrompendo il digiuno non appena il primo di loro era
sul punto di morire; Sands decise di riprovarci, e di farlo personalmente, ma con un digiuno a intervalli regolari: alla sua
morte un altro avrebbe preso il suo posto, e così via, a oltranza. L’ultima parte film è un’agonia, ma non solo di Sands,
anche di noi spettatori. Quanta forza di volontà occorre per portare a termine un proposito del genere? Quali ideali sono
così puri e assoluti da far pensare di potersi lasciar morire di fame per non tradirli? Quel che resta, dal lato opposto, è la
perversione di un potere che raramente sa dialogare o fare compromessi, ma non dimentica e certamente mai perdona.
Il digiuno annunciato pubblicamente e pubblicamente eseguito, com’è ovvio, non è per forza da intendersi come protesta
politica, a meno che voi non siate tra coloro che vedono in ogni azione umana un atto politico (il che ha un suo fondo di
verità).
Nel suo racconto del 1922 “Un digiunatore” (“Ein Hungerkünstler”, letteralmente "Un artista della fame"), ad
esempio, Franz Kafka immagina un "artista della fame" che digiuna come forma d'arte, dapprima in una gabbia esposta
al pubblico e poi in un circo. Liberamente tratto da questa storia è il lungometraggio “Il digiunatore” (断食芸人) di
Masao Adachi, del 2016, che a parte spostare la narrazione in una metropoli è abbastanza fedele all’originale. Come nel
racconto, il protagonista è un emarginato che si mantiene esibendosi in digiuni prolungati da cui, peraltro, non sembra
trarre alcuna soddisfazione. Non si muove e non parla, e per gran parte del tempo rivolge uno sguardo assorto al cielo.
All’inizio la sua immobilità sacrificale suscita la curiosità e la preoccupazione generale, ma poi l’uomo viene sfruttato
senza pietà: i media cercano di farne il vessillo di istanze sociali, politiche e anticapitalistiche, politici, influencer e gente
comune condividono con lui i riflettori, gli yakuza gli sottraggono il denaro delle offerte e i monaci si aspettano da lui
chissà quale rivelazione mistica. Ma il tempo passa inesorabile e il digiunatore diviene invisibile come un qualunque
mendicante: quando la sua presenza diventa molesta, con la scusa del pubblico decoro viene sloggiato senza tante
cerimonie.
Il finale beffardo (l’uomo dichiara che la ragione del digiuno è che non è mai riuscito a trovare un cibo che gli
piacesse) non inficia i temi di fondo, che sono il rapporto con la vita e la morte, il significato dell’arte, i rapporti umani, il
declino della spiritualità e molto altro. Il digiunatore è una vittima della società, della quale non condivide lo spirito e gli
slanci: la sua chiusura verso di essa non può che trasmutarsi da mentale in fisica, fino al punto che egli non riesce neppure
più a “ingoiarne” il frutto o, meglio, il prodotto, quel cibo che ne afferma il potere e allo stesso tempo lo circoscrive.
Non
so se qualcuno abbia mai fatto uno studio sociologico sull’incentivo del cibo nei reality show (“L’isola” in primis), ma
credo che andrebbe fatto. Sospetto che, più che assistere alle prove dei concorrenti e veder trionfare i propri beniamini,
quello che fa davvero godere la maggior parte del pubblico è la prospettiva di vedere queste persone soffrire di stenti,
come se dovessero in qualche modo fare ammenda per i privilegi che la fama garantisce loro nella vita reale. L’eroe
sfortunato o che cade dal piedistallo è amato e ricordato, magari con una distratta lacrima di coccodrillo, ben più di quello
integerrimo o a cui la vita ha arriso. Un meccanismo psicologico che non fa piacere rammentare, ma che è forse più
presente in noi di quanto saremmo mai disposti ad ammettere.
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