“Fuori speciale” è una serie di articoli che vengono scritti di getto nel periodo di pubblicazione dello
speciale “La grande abbuffata”. Pur non essendone parte integrante, ciò che viene qui trattato
ruota intorno all’argomento principale senza spezzarne il filo logico. Si tratta, in estrema sintesi, di
piccoli approfondimenti che non hanno trovato posto nella struttura principale. “Fuori speciale”, in
uscita tutti i venerdì, non è una lettura necessaria alla comprensione degli articoli de “La grande abbuffata” (che usciranno invece il lunedì), è viceversa una lettura che può essere ignorata o
rimandata, a vostro piacimento.
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Capita talvolta su questo blog che si postino anche dei contenuti seri. È il caso del post precedente ed è anche il caso di
quelli che arriveranno nei prossimi giorni, che lo saranno ancora di più. Spezzare in due tanta serietà con un post frivolo
serve a sdrammatizzare e a riportare l’angoscia a livelli più sopportabili. Non so se faccio bene a farlo, visto che un
pochino di angoscia non fa mai male, ma mi serviva un articolo “fuori speciale” da scrivere velocemente e non ho trovato
di meglio che parlare di temi secondari.
La volta scorsa abbiamo parlato di cibo spazzatura, e scrivendo il pezzo mi sono trovato a chiedermi quale potesse essere
l’hamburger più noto del cinema. La risposta non poteva essere che una: il leggendario Big Kahuna Burger che Jules
(Samuel L. Jackson) aveva tanto gradito in una delle scene più epiche di Pulp Fiction di Quentin Tarantino, una di quelle
scene, per inciso, che solo pochi sassi non saprebbero ripetere a memoria.
Come riferisce lo stesso Jules nel film, il Big
Kahuna Burger è una variante del classico cheeseburger commercializzata da una catena di fast food hawaiana, la cui
caratteristica principale è la presenza di una fetta d’ananas caramellata.
Quale gusto possa avere una fetta d’ananas mischiata a formaggio fuso, ketchup e carne macinata non saprei dirvelo, ma
il partner di Vincent Vega sembrava apprezzare parecchio quel panino e, se vogliamo dirla tutta, anche da questa parte
dello schermo il suo aspetto era piuttosto attraente.
La verità è che non esiste nulla di commestibile negli Stati Uniti che sia anche attraente come quel panino, e non solo
perché la catena Kahuna Burger è una pura invenzione cinematografica, ma anche perché oggettivamente la cucina
d’oltreoceano oltre che essere malsana è anche un violento attentato alle papille gustative. E ve lo dice uno che è appena
rientrato da una settimana trascorsa negli USA per lavoro.
Ricordavo bene, per esserci già stato varie volte in passato, che
non era roba per me e temevo, cosa che si è poi avverata, che il mio stomaco si sarebbe subito ribellato. Ottimisticamente
speravo che dopo quindici anni (questo il tempo trascorso dalla mia ultima visita) qualcosa potesse essere cambiato, ma
ovviamente mi sbagliavo: nulla è cambiato e ciò che è cambiato lo ha fatto in peggio.
Devo tuttavia ammettere che,
localmente, alcune specialità sono meglio di altre. A Kansas City, dove sono stato io (anzi, “nel” Kansas City, come
direbbe Nando Mericoni), sono davvero bravi a preparare le Spare Ribs e non tanto per la salsa BBQ, che è la stessa da
tutte le parti, quanto per uno speciale talento nella cottura che fa sì che la carne si stacchi facilmente lasciando le ossa
pulite e lucide come il culetto di un bambino. Tutto il resto è però cattiveria pura.
La mia impressione è che gli americani
non siano in grado di percepire i sapori; non si spiegherebbe altrimenti quel dannato vizio di affogare il piatto con tutte le
salse esistenti contemporaneamente, quasi come se più roba aggiungi meglio è. In effetti questa è più che una mia
impressione, ma ne parlerò meglio magari più avanti, proprio per preservare la programmata frivolezza di questo post.
Se da noi hai voglia di una bistecchina ti aspetti che il cuoco la metta in padella, la scotti un po’ su un lato, un po’
sull’altro, e poi te la metta nel piatto con una guarnizione qualsiasi. Laggiù non funziona così: prima di portartela te la
affogano nel ketchup, aggiungono senape, mostarda, salsa ranch, salse piccanti, agrodolci, al formaggio, al pesto in un
informe mix di sapori, e così tu ti ritrovi a tavola a cercare di raschiare via col coltello quella porcheria per riuscire anche
solo a vedere la portata che si cela sotto.
Suona quindi strano sentire, nel film di Tarantino, Vincent Vega (John Travolta) ironizzare sull’abitudine apparentemente
tutta olandese di mettere maionese anziché ketchup sulle patatine (“Gliel’ho visto fare, amico, cazzo, le affogano in
quella merda gialla!”).
Personalmente interpreto quella scena non tanto come un modo per fare ironia sulle salse degli
altri, che certamente non sono meno sane delle loro, quanto su un modo che gli europei (i paesi francofoni in particolare)
utilizzano per giustificare costi insensati applicando ai prodotti da fast food nomi altisonanti ("Sai come chiamano un
quarto di libbra con formaggio a Parigi? Lo chiamano Royale con formaggio. [...] E come lo chiamano il Big Mac?
[...] Lo chiamano Le Big Mac".)
In un'altra scena Butch (Bruce Willis) e la fidanzata Fabienne illustrano allo spettatore una delle più classiche quanto
agghiaccianti colazioni americane. (“Sai cosa voglio mangiare a colazione? Cosa, crostatina? Voglio mangiare un bel
piattone di frittelle di mirtilli con tanto sciroppo di acero sopra, uova strapazzate e anche cinque salsicce.”).
Se pranzi e
cene rappresentano una sfida ardua ma superabile, è la colazione la vera minaccia alle funzionalità gastrointestinali. Non
sto parlando della colazione offerta dagli alberghi di catena, dove uno si prende quello che vuole nelle quantità che vuole
(a me il mix uova e pancetta piace, ma solo ogni tanto), quanto di quella delle realtà ristorative destinate a soddisfare
quasi esclusivamente il primo pasto quotidiano degli americani.
Sono capitato in una di queste drammatiche situazioni
una domenica mattina, costretto dalla volontà di una maggioranza di compagni di merende (in gran parte americani) alla
quale non ho potuto oppormi. Premetto che arrivavo da una colazione essenziale già consumata in albergo alle 8 del
mattino, per cui non sentivo l’esigenza di ingoiare null’altro per molte ore a venire, quand’ecco che qualcuno suggerisce
“andiamo a fare una colazione vitaminica!” (parafrasando forse Pulp Fiction, ma senza troppa precisione).
Non sono ancora le
dieci del mattino e facciamo il nostro ingresso in un locale della catena “iHop”, dove mi trovo davanti a un menù dove la
cosa più digeribile è un alligatore vivo. Si tratta di uno di quei menu “turistici” accompagnati da fotografie taroccate e che
lasciano poco spazio alla descrizione degli ingredienti. Sento già altri ordinare salsicce di maiale e alcuni tra i più
impavidi scegliere una bistecca di Angus, e mi ritrovo a pensare a quell’altra scena di Pulp Fiction dove il solito Jules
confessa a Vincent di non mangiare carne di maiale (“Ehi, un topo avrà anche il sapore di torta alla zucca, ma non lo
saprò mai perché non lo mangio, quel figlio di puttana. I maiali dormono e grufolano nella merda, cioè sono animali
schifosi. E io non lo mangio un animale che si mangia le sue feci.”).
Già preparato al peggio, mi accorgo, in un angolino seminascosto in ultima pagina, di un timidissimo “French Toast
Sandwich”. Sembra essere l’articolo più umile dell’intero menù e così lo ordino assieme a una bella tazza di caffè nero
(ero già alla terza, ma quello è il meno). Non faccio caso (anche se avrei dovuto) a due indizi che avrebbero dovuto
mettermi in guardia: il prezzo, più o meno simile a tutto il resto (avrebbe tanto strisciato qualcun altro), e l’indicazione
del contenuto calorico (laggiù la scrivono dappertutto, ma non ci fa caso nessuno). Ciò che mi vedo arrivare è qualcosa
che nessun umano, da qui al largo dei bastioni di Orione, avrebbe mai pensato di potersi vedere servito: due fette di pan
carrè grandi come piastrelle e spesse due dita affogate in una pastella di vaniglia e cannella e guarnite con ricotta al
limone, mirtilli freschi e zucchero a velo.
Azzardo un piccolo morso, ne azzardo un secondo, quindi mi rifugio nel caffè
nella speranza che gli altri finiscano presto e giunga il momento di andar via. Trascorrono invece due ore e il mostro
vanigliato continua instancabile a osservarmi dal piatto di portata. Si trattava, lo avrei scoperto solo giorni dopo
navigando sul web, del famigerato “Thick N Fluffy Lemon Ricotta Blueberry French Toast”, per l’occasione pubblicizzato
con una terminologia più soft. Vi state chiedendo com’è finita? Il toast lentamente è scivolato lato tavola scomparendo
sotto il menù, ma quei due soli morsi mi sono stati comunque, gastrointestinalmente parlando, abbastanza fatali.
Alla fine però ce l’ho fatta. Sono sopravvissuto e rientrato nel mio paese che, con tutti i difetti che ha (e nemmeno pochi),
perlomeno non ti costringe a una dieta ipercalorica se tu non la desideri.
Capisco bene. Non sono mai stato (e non credo che andrò mai) negli Stati Uniti, ma in Inghilterra ci sono andato varie volte e ricordo ancora con orrore quella frittata con bacon per colazione, con la signora che mi ospitava che alcune volte pensando di farmi una gentilezza visto che ero italiano mi offriva una piatto di spaghetti con una cosa che assomigliava vagamente a salsa di pomodoro (anche questi per colazione, beninteso).
RispondiEliminaPer le salse gli inglesi forse sono meno esagerati, però il "dolce" a fine pasto spesso lo affogano nella crema, e anche lì amano abbinamenti strani tipo patatine aromatizzate all'aceto o coca cola aromatizzata alla ciliegia...
La cucina inglese è decisamente peggio di quella statunitense; basti pensare che il piatto nazionale si chiama "Fish and Chips". Fortunatamente ne sono tutti consapevoli e il 90% dei ristoranti laggiù propone cucina estera (prevalentemente indiana e italiana ma la scelta è comunque ampia) mentre in USA al massimo puoi sperare in qualcosa di messicano.
EliminaLa Cola alla ciliegia mi manca ma in compenso ho assaggiato improponibili bibite zuccherate alla mela o al tamarindo. E niente, si vede che hanno le papille gustative bruciate...