“Fuori speciale” è una serie di articoli che vengono scritti di getto nel periodo di pubblicazione dello
speciale “La grande abbuffata”. Pur non essendone parte integrante, ciò che viene qui trattato
ruota intorno all’argomento principale senza spezzarne il filo logico. Si tratta, in estrema sintesi, di
piccoli approfondimenti che non hanno trovato posto nella struttura principale. “Fuori speciale”, in
uscita tutti i venerdì, non è una lettura necessaria alla comprensione degli articoli de “La grande abbuffata” (che usciranno invece il lunedì), è viceversa una lettura che può essere ignorata o
rimandata, a vostro piacimento.
***
Nel corso di uno speciale dove l’attenzione è praticamente sempre rivolta a gente seduta a tavola,
non poteva mancare uno sguardo all’altro lato della medaglia, al dietro le quinte, ovvero a quella
gente che della ristorazione ne ha fatto un mestiere. Non so quanti tra i miei lettori abbiano mai
fatto, nel corso della loro vita, i cuochi, i pizzaioli o i camerieri. Il sottoscritto non è tra questi, anche
se non nego che per un giorno, ma solo per un giorno, non mi dispiacerebbe provare. Ho invece
visto da vicino amici che nell’assistenza ai tavoli, per necessità e non certo per vocazione, ci si
sono tuffati. Tanto mi è bastato per capire quale vita di merda sia: dagli orari assurdi del servizio ai
lunghi tempi morti tra pranzi e cene (ma non abbastanza lunghi per tornare a casa), fino alle poche
ore di sonno disponibili, spesso utilizzate, anziché per dormire, per lavare e stirare le divise.
Chi
lavorava in quel campo mi ha raccontato di gente che piangeva in cucina, gente che mollava il
lavoro a metà servizio, camerieri che venivano alle mani con i cuochi o che mandavano affanculo i
clienti più maleducati. Tutte storie buone per un romanzo di Bukowski.
Da fuori potrebbe sembrare
anche tutto bello, ma non è così. I grandi sorrisi di chi ci porta i piatti a tavola sono quasi sempre di
cortesia e nascondono un inferno di cui è difficile anche solo immaginare le proporzioni. E l’indizio
che ce lo suggerisce è appunto il continuo rinnovo del personale all’interno di questi luoghi.
“Boiling Point” (in Italia
arrivato con il sottotitolo “Il disastro è servito”) è il racconto di una notte frenetica in un ristorante
stellato di Londra. Il capo chef Andy Jones (Stephen Graham) per diverse ragioni è sotto stress, e
negli ultimi due mesi non è riuscito a mantenere alti gli standard, tanto che, nella scena iniziale, si
vede togliere un paio di “stelline” a causa di un’ispezione sanitaria terminata non troppo bene.
È il
preludio di una notte in cui andrà storto tutto ciò che poteva andare storto: tra clienti maleducati,
imprevisti, errori e conflitti dentro e fuori la cucina, il dramma è dietro l’angolo.
E tutto ciò mentre il
vecchio mentore di Andy, chef di fama mondiale con qualche sassolino nella scarpa, si presenta a
cena senza preavviso accompagnato da un noto critico gastronomico, e una tavolata di giovani
influencer caciaroni fa le pulci al menù al solo scopo di rompere le palle e se va bene scroccare la
cena.
Girato in un unico piano sequenza, “Boiling Point” è un film avvincente e adrenalinico che fotografa
perfettamente lo stress e le tensioni dei lavoratori della ristorazione, specie di quelli che hanno la
fortuna (o la sfortuna) di lavorare in un ristorante di fascia alta, dove nulla può essere lasciato al
caso. Lo spettatore si sente completamente coinvolto, come se lui stesso lavorasse nella squadra,
attanagliato per novanta lunghi minuti dall’ansia di tenere in piedi una situazione che è
inevitabilmente destinata a crollare.
“Boiling Point”, preceduto nel 2019 da un cortometraggio con lo stesso titolo, è uno spettacolo
davvero straziante che spero possa arrivare alla platea più vasta possibile, invitando le persone a
riflettere su alcune delle cose a cui nessuno pensa mai entrando in un ristorante. Personalmente
non sono mai stato, nemmeno da ragazzo, quello che si rivolge all’assistente di sala con
supponenza, magari sollecitando senza un vero motivo un servizio che tarda un pelino. Ho sempre
però visto attorno a me gente che, una volta accomodatasi a un tavolo, dimentica immediatamente
i concetti più basilari di educazione, quali i “buongiorno”, i “grazie” e i “per cortesia”, come se tutto
fosse dovuto solo per il semplice fatto di essere lì.
In un mondo in cui il rispetto per il prossimo è
inversamente proporzionale alla bramosia di protagonismo, non stupisce nemmeno l’episodio di
quel piccolo gruppo di influencer (o presunti tali) che ottengono notorietà da quattro soldi
distruggendo vita e carriera anche di chi cerca solo di fare bene e onestamente il suo lavoro. È un
fenomeno, quello degli influencer, che ben rappresenta la deriva verso il basso del concetto di
recensore, specie se paragoniamo l’opinione di persone perlopiù senza arte né parte all’attività di
un vero critico gastronomico che tutto sommato svolge un servizio di pubblica utilità, generalmente
onesto e oggettivo (la cosa è ovviamente opinabile, ma io la vedo così).
“Boiling Point”, che si è portato a casa nel 2021 quattro riconoscimenti al BIFA (British Independent
Film Awards), si è trasformato in una serie televisiva in quattro puntate, la prima delle quali andata
in onda sul primo canale della BBC lo scorso 1° ottobre. La serie, co-diretta da Philip Barantini e
Mounia Akl, è in pratica un sequel del film omonimo, anch'esso diretto da Barantini, e comincia nel
punto esatto in cui sul film erano scesi i titoli di coda.
Nessun commento:
Posta un commento