lunedì 9 dicembre 2024

Karma, colpa e fine vita (Pt.2): un cambio semantico

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Ma vediamo anche quanto scrive Houston Smith in "Le religioni del mondo", un classico della saggistica sulla storia delle religioni che lessi alcuni anni orsono, a proposito di Induismo e di India: 
“...può forse sorprendere che ancora oggi ci siano indiani, perfettamente a conoscenza delle alternative occidentali, che difendono il sistema delle caste, naturalmente non nella sua interezza e non per quello che è diventato, ma come modello fondamentale”; e ancora “Tra le caste non esisteva nessuna uguaglianza, eppure all’interno di ciascuna i diritti degli individui erano più sicuri di quanto non sarebbero stati in generale se fossero stati costretti a difendersi da soli nel mondo. Ogni casta si reggeva sull’autogoverno e in caso di guai si poteva star certi di essere processati dai propri pari. All’interno di ciascuna casta c’erano uguaglianza, opportunità e sicurezza sociale.” (cap. 2). 
Queste parole mi hanno sempre disturbato, perché vi ho colto una sorta di tentativo di legittimare l’esistenza delle caste (che comunque, tra le altre cose, non giustifica l’esistenza di individui senza casta). È difficile infatti pensare al giogo delle caste scollegato dal concetto di karma: se il karma determina il posto che ciascuno occupa nel mondo, chi crede nel karma non si ribellerà mai alle disparità sociali, soffocando l'angoscia per ogni ingiustizia subita (o, nel racconto di Fukazawa, per la prospettiva della morte prematura) e accettando con rassegnazione ciò che crede essere un giusto fardello, originato da colpe che non è neppure in grado di ricordare. 

Nel saggio "Trattato sull'azione, la colpa e il gesto", Giorgio Agamben evidenzia l’omologia tra le parole crimine e karma (omologia sulla quale non tutti i linguisti sono concordi, come lo stesso Agamben rileva). Scrive infatti l’Autore:
"Come ciò sia potuto accadere, come una mente umana abbia potuto concepire l’idea che le sue azioni potessero renderla colpevole – questa autoaccusa, che sembra così trita e scontata, è l’enigma di cui l’umanità deve ancora venire a capo.” (cap. 1);
e più avanti: 
Adolphe Pictet in Les Origines indo-européennes scrive che il latino crimen corrisponde verosimilmente al sanscrito karman, “opera” in generale, buona o cattiva, dalla radice *kr, kar, facere, al passivo kriyate, conservata del resto in creo.” [...] “Non rientra negli scopi di questo studio verificare la correttezza dell’etimologia proposta da Pictet (Ernout e Meillet sembrano preferire l’ipotesi di Pott). È certo, tuttavia, che l’accostamento crimen/karman corrisponde a una prossimità concettuale così forte e stringente, che stupisce che essa non sia stata presa in considerazione dagli storici del diritto e delle religioni. È opinione comune degli indologi che il termine karman, che significa letteralmente «azione», implichi, infatti, una connessione essenziale (rta) «tra gli atti e le loro conseguenze» (Silburn, p. 192)” (cap. 2). 
Questo invece è ciò che afferma Carlo Della Casa nel volume dedicato alle Upaniṣad (il grassetto è mio):
“L'azione è la caratteristica più propria dell'individuo, e sembra quindi abbastanza logico che in essa sia vista la causa dell'individuazione, mentre il mutamento del significato attribuito al vocabolo karman (che prima delle Upaniṣad designa l'atto rituale) è indicativo del sopraggiunto cambiamento degli interessi e dell'attenzione sempre più viva rivolta all'uomo. In alcuni punti si ritrovano ancora tracce dell'antica concezione per cui i pensieri nell'ora della morte determinano la condizione della futura esistenza; poi, con un evidente approfondimento del senso etico, la dottrina del karman come determinante della futura condizione d'esistenza s'afferma, dapprima come dottrina segreta (B. Up., 3, 2, 13), poi come postulato indiscusso. Difficile è tuttavia tracciarne la storia e individuarne l'origine. La dottrina del karman è sorta come naturale sviluppo di concezioni affermate nelle raccolte vediche o si tratta del risultato d'infiltrazioni d'un sostrato culturale diverso che affiora adesso alla luce?”; mentre nel glossario si trova questa definizione: “Karman: anticamente "azione sacrificale", poi "azione" in generale, che comporta un rimerito da usufruire su questa stessa terra dove s'è compiuta l'azione, in questa o in una vita successiva, che è derminata quindi nella condizione di partenza dalla qualità morale dell'azione compiuta.” 
Per appurare in quale momento della storia la parola sanscrita karman, che in passato non aveva alcuna connotazione particolare, abbia assunto il senso di destino inteso come frutto delle proprie azioni passate, dobbiamo affidarci all’enciclopedia britannica: dopo aver rimarcato che il termine karma non aveva anticamente alcun significato etico e nei testi antichi della religione vedica (1000–700 a.C.) si riferiva solo all'azione rituale e sacrificale, gli autori spiegano che fu solo man mano che la teologia sacerdotale del sacrificio fu articolata dai sacerdoti brahmani nei secoli successivi che l'azione rituale finì per essere considerata efficace di per sé, indipendentemente dagli dèi. Questo cambio semantico, che ha determinato le due funzioni principali del karma all’interno della filosofia morale indiana (quella di fornire la motivazione principale per vivere una vita morale e quella di spiegare l’esistenza del male), si deve al teologo vedico Yājñavalkya, il quale a metà del I millennio a.C. espresse la convinzione (all’epoca considerata rivoluzionaria e di stampo esoterico) che un uomo si trasformasse in “qualcosa di buono con una buona azione” e in “qualcosa di cattivo con una cattiva azione”. 
Con l’infittirsi del dibattito teologico l’aspetto rituale del karma finì per estendersi alla sfera morale, per così dire, specialmente nelle religioni del Buddismo e del Giainismo, che emersero verso la fine del I millennio a.C., dando origine a quella che oggi conosciamo come “legge del karma” e alle sue derivazioni (o, cambiando punto di vista, degenerazioni): si pensi alla dottrina buddista e induista del trasferimento o condivisione dei meriti, in base alla quale i meriti del praticante, derivanti da buone azioni, possono essere trasferiti a parenti vivi o defunti, a divinità o a un altro essere senziente (cosa che spiega anche le offerte ancestrali, i pellegrinaggi e altri rituali per i defunti, che esistono in base al principio che gli atti compiuti dai vivi possano andare a beneficio dei morti). 
Questo concetto retributivo del karma è poi penetrato nell’Occidente moderno con la New Age, sommandosi alle catene ideologiche del Cristianesimo, tutto incentrato sulla rassegnazione nell’attesa della ricompensa e della gioia della vita eterna (ma anche di Ebraismo e Islam, che ugualmente si fondano sulla ricompensa e sulla punizione divina delle azioni umane). 
Confesso che questo cozza con il mio sentire, perché io credo che veniamo al mondo per essere felici, qui e ora, o almeno per provare a esserlo, e per cogliere tutte le occasioni che abbiamo, nel limite della legge e dell’etica, per migliorare la nostra vita e quella delle persone che amiamo. 



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