lunedì 16 dicembre 2024

Karma, colpa e fine vita (Pt.3): Plan 75 e riflessioni finali

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Per riallacciarci alla prima parte di questo post, abbiamo appurato che la relazione del Giappone con la morte volontaria non riguarda solo la famosa pratica del seppuku, il suicidio rituale dei samurai, o le missioni suicide degli aviatori giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale; è una pratica se possibile ancor più antica, il cui ricordo permane nell’immaginario collettivo della nazione e di tanto in tanto ritorna in auge, se pur camuffato da narrazione distopica. Un esempio recente è il film del 2022 "Plan 75" di Chie Hayakawa, ambientato in un futuro in cui il Paese del Sol Levante inaugura un programma di suicidio assistito gratuito per gli anziani ultra settantacinquenni. Prima che la narrazione prosegua concentrandosi su pochi personaggi, vediamo come la proposta susciti l’attenzione degli anziani per i motivi più disparati: c’è chi ha perso il lavoro, si sente inutile e sente di pesare sulle casse dello stato, chi vuole uscire di scena quando ancora è autosufficiente per non creare problemi ai parenti, chi è allettato dalla somma messa a disposizione dallo stato agli anziani per soddisfare i loro ultimi desideri o pensa di lasciarla in eredità a figli e nipoti, chi semplicemente è solo e non ha nulla e nessuno per cui continuare a vivere. A partire dall’incipit, in cui viene mostrato un attentato contro una casa di cura per attirare l'attenzione sul problema dell’invecchiamento della popolazione (“il crescente numero di anziani sta distruggendo l'economia del nostro paese”, dice l'attentatore prima di togliersi la vita), il film è un crescendo di angoscia e di profonda commozione mostrati col tipico minimalismo giapponese. 
Come già nelle due trasposizioni de "La ballata di Narayama", qui l’eutanasia non segue alcun criterio medico o fisico e non c’è alcuna valutazione dello stato psicofisico degli anziani, o eventualmente anche del loro recupero, per una possibile utilità materiale o morale per la società: semplicemente, le persone vengono eliminate come si rottama un vecchio elettrodomestico all’avvento di uno più performante. L’assistenza psicologica fornita agli anziani (una sorta di “telefono amico”) ha lo scopo dichiarato di non far cambiare idea agli aderenti e, in generale, non sorprende troppo che tutti gli impiegati della “filiera” siano estremamente gentili e non sembrino far caso alle implicazioni etiche del proprio lavoro, se non quando ormai è troppo tardi: forse somigliavano agli attendenti ai campi di concentramento e ai carcerieri di ogni tempo e luogo, o almeno ad alcuni di essi. 
L’invecchiamento della popolazione è un dato reale e incontestabile in varie altre parti del mondo, oltre al Giappone. Sebbene l’Occidente non abbia mai spartito con l’Oriente l’orientamento al sacrificio personale più o meno estremo per la collettività, i recenti avvenimenti sul piano sanitario hanno scombinato un po’ il comune sentire. 
L’insistenza sul “bene comune” e sul “fare la cosa giusta” ha caratterizzato come un mantra gli anni della pandemia, e lo stigma morale ha colpito coloro che non hanno voluto cedere la sovranità sul proprio corpo e rinunciare all’autodeterminazione sanitaria, con tutto quel che ne è derivato anche sul piano dei diritti civili: una china odiosa e anche insidiosa, perché sempre passibile di recidiva. Rammento bene anche chi, davanti ai dati delle ospedalizzazioni, non trovava di meglio da fare che parlare dell’incremento dei costi sanitari, suggerendo senza dirlo apertamente che ogni morte fosse in fondo un sollievo per le casse dello stato. La contraddizione insita in questo modo di pensare è che da un lato si spinge alla protezione degli anziani e dei fragili anche a discapito di se stessi, dall'altra si suggerisce neanche troppo velatamente che arriva un momento nella vita in cui è il caso che ognuno di noi si tolga di torno, di sua sponte o meno. 

Al di là delle finzioni letteraria e cinematografica, l’eutanasia è infatti una pratica già ampiamente sdoganata da anni, con modalità differenti, in paesi come Svizzera, Belgio, Olanda, Germania, Spagna, parte degli Stati Uniti, Australia e Canada, solo per citarne alcuni. Particolare il caso del Canada, dove è in vigore dal 2016 il cosiddetto Medical aid in dying (Maid - Aiuto medico alla morte), e dove nel 2021 anche le persone con problemi mentali, inclusa la depressione, sono state incluse nel programma, suscitando un vespaio di polemiche perfino da parte di un quotidiano tutt’altro che reazionario come il Toronto Star. Il programma per i malati mentali è stato sospeso all’inizio del 2024 per la carenza di medici aderenti, ma nel frattempo ha già fatto numerose vittime (si parla di oltre 13.000 persone solo nel 2022). Se il fine del suicidio assistito può sembrare nobile (non intendo certo affermare che si dovrebbe negare il fine vita a chi sta morendo o soffrendo senza possibilità di recupero e lo richieda nel pieno possesso delle sue facoltà mentali), è innegabile il rischio che a usufruirne non siano solo persone realmente convinte di questa scelta, ma anche quelle più fragili, individui esasperati dalla negazione di assistenza regolare e cure palliative, problemi abitativi, depressione, oppure disabili e anziani soli, sollevando il problema della responsabilità morale dello stato verso i suoi cittadini e riesumando l’angosciante spettro dell’eugenetica. 

Come tutti sanno, a dare nuova linfa alla discussione sul fine vita in Italia fu la morte di Eluana Englaro, la giovane rimasta in stato vegetativo a seguito di un incidente stradale il cui caso aveva diviso l’opinione pubblica e il parlamento italiano per più di un decennio. I genitori di Eluana consideravano l'alimentazione forzata, che teneva in vita la figlia, una forma di accanimento terapeutico, e portarono avanti una battaglia legale per anni affinché questa venisse sospesa, fino alla sentenza della Corte d'Appello di Milano del 2008 che accolse l’istanza: sentenza che venne attuata pochi mesi dopo, nel febbraio del 2009. Nel 2024, quindici anni dopo, la regione Emilia Romagna ha emanato una delibera regionale con le linee guida per l’accesso al suicidio assistito e istituito un Comitato regionale per l’etica allo scopo di esaminare le richieste. Leggendo la notizia non ho potuto fare a meno di ricordare un tempo in cui l’argomento (come molti altri) era tabù, e qualunque accenno all’eutanasia, anche se al di fuori dei confini nazionali, veniva apertamente censurato e si attirava gli strali di una Chiesa oggi penosamente silente. Ma per ogni persona che voglia farsi uccidere, c’è qualcuno che materialmente deve prendersi carico di questa uccisione e quel che avviene è a tutti gli effetti un omicidio legalizzato; mentre la parola eutanasia viene sempre più spesso accantonata in favore della più accettabile locuzione di suicidio assistito, nell’errata convinzione che modificando il linguaggio si modifichi anche la realtà, il consenso dei morituri potrà forse alleviare qualche coscienza. Non sono certo il primo a dirlo, ma questo è un terreno minato, perché una volta dichiarato che la vita è un bene disponibile tutto diventa lecito, i criteri che determinano chi vive e chi muore rischiano di divenire quantomai ampi e superficiali e, un giorno, il diritto di morire potrebbe trasformarsi nel dovere di morire. 



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