venerdì 11 aprile 2025

Eat the Schoolgirl

Torna dopo una lunghissima assenza un nuovo appuntamento con la famigerata rubrica Obsploitation Extreme, un agghiacciante spazio dedicato a recensioni di film destinati ai soli titolari di stomaci d’acciaio. Da non confondere con la rubrica quasi gemella “Obsploitation Vomit”, che ne è la variante più malsana, “Obsploitation Extreme” ha ospitato in passato cosettine leggere come "A serbian film" (per citare uno dei titoli più famosi) e varie forme di marciume ero- guru. 
È proprio verso quel tipo di marciume che ci dirigiamo oggi, con l’intento di capire se c’è un limite al peggio oppure se il peggio deve ancora arrivare. Ma partiamo dal regista. Il regista è nientemeno che Naoyuki Tomomatsu, autore di quel “Rape Zombie: Lust of the Dead” che abbiamo recensito a fine marzo proprio qui sul blog
Avevo accennato, in quell’articolo, al fatto che mi sarebbe piaciuto parlare un giorno anche dei suoi titoli più famosi, per cui mi sono detto “perché non farlo subito?” Mi sono quindi messo a spulciare nella sua filmografia alla ricerca di qualcosa su cui provare a imbastire un articolo decente, quando l’occhio mi è caduto malignamente su uno dei primissimi titoli della sua produzione. E quella è stata la mossa che ha svoltato, almeno per oggi, il destino del blog. Sarebbe stato facile e forse più popolare se la mia scelta fosse ricaduta su uno dei suoi lavori più celebrati, come “Stacy: Attack of the Schoolgirl Zombies” (Suteishi, 2001) o “Vampire Girl vs. Frankenstein Girl” (Kyūketsu Shōjo tai Shōjo Furanken, 2009), ma la vera sfida, ho pensato, sarebbe stata presentare qualcosa di cento volte più impresentabile. Ed ecco quindi come siamo arrivati a questo articolo sul discutibile “Eat the Schoolgirl: Osaka Telephone Club”, scritto a quattro mani con Chisato Ôgawara e uscito in Giappone il 10 marzo 1997. 
Si tratta, a scanso di equivoci, di un classico pinku-eiga, ovvero quel macrogenere tutto giapponese nato negli anni Sessanta che include genericamente un qualsiasi film della durata prefissata di 60 minuti, tre quarti dei quali rappresentanti scene di sesso esplicito. La logica di tale minutaggio, come ebbi già modo di spiegare in passato, è che le pellicole venivano proiettate nelle sale in spettacolo doppio o triplo. È interessante notare che, nel genere, il confine con l'hardcore non viene mai superato, poiché in Giappone una legge piuttosto stringente vieta di mostrare organi genitali, ed è per tale motivo che nelle scene in cui proprio non se ne può fare a meno si ricorre a un pixellaggio che a noi può sembrare quasi ridicolo. 
Dal genere pinku-eiga provengono alcuni registi che in seguito si sarebbero affermati a livello mondiale e che tuttora vengono riconosciuti come capisaldi della cultura cinematografica del sol levante: tra questi il più noto è certamente KōjiWakamatsu, autore di perle quali “The Embryo Hunts in Secret” (1966) e “Violated Angels” (1967), ma anche Kiyoshi Kurosawa e Takashi Ishii, due registi che in momenti diversi rinunciarono al cinema d’autore per spendersi nell’industria J-Horror. 
Naoyuki Tomomatsu è ovviamente lontano anni luce dai nomi più rappresentativi dell’universo pinku, tuttavia ha un suo fedele seguito di appassionati tra cui, almeno in parte, mi ci metto anch’io. 

Il film di cui parliamo oggi è il quarto tentativo di Tomomatsu dietro la macchina da presa ma è il primo di cui è rimasta traccia scavando in rete, segno che i precedenti erano davvero molto più artigianali di quanto non sia “Eat the Schoolgirl”, che già di per sé palesa una scarsità di mezzi a tratti imbarazzante. Ma al di là dei difetti tecnici, come vedremo a breve, qui è proprio la regia che fa la differenza. 
Il titolo, cominciamo da questo, è onestamente un po’ fuorviante e, se letto col senno della successiva filmografia del regista, lascerebbe presagire un film a tema zombi o, comunque, cannibalico. Invece non c’è, e lo preciso da subito, alcuna studentessa trasformata in pietanza: c’è qua e là qualche studentessa, questo è vero, ma finisce lì. L’uso della parola “eat” mi fa venire in mente che si possa trattare di un’allegoria sofisticata (con riferimento al fatto che nel pinku-eiga è in fondo la donna a essere consumata come una merce, è insomma la pietanza), ma forse è solo il mio cervello a fare collegamenti troppo audaci. 
La seconda parte del titolo, “Osaka Telephone Club”, richiama invece un’insistita scena di sesso telefonico presente all’inizio, ma mi sembra abbastanza superflua da rendere misteriosa la decisione di dedicarle un titolo che pare invece diretto a catturare un pubblico di squilibrati. Sesso comunque ce n’è, e tanto: almeno tre quarti della pellicola, come da perfetto manuale pinku-eiga. Il trucco per un recensore è quindi quello di tenere pronto il fast-forward e concentrarsi su quel quarto d’ora residuo, perché è solo da lì che si può capire se c’è un valore o se è tutta spazzatura softcore. 

Protagonisti sono due ragazzi. Il primo è ossessionato dal sesso telefonico e lo incontriamo già nei titoli di testa mentre si sta segando in una stanza solitaria ascoltando i gemiti dell’operatrice di una hot-line. Il secondo invece ama la violenza in tutte le sue forme, e ne trae piacere sessuale: in pratica se ne va in giro vestito da studentessa e uccide brutalmente con una lama quelli che gli attraversano la strada (per poi segarsi sui cadaveri). 
Significativa la scena, una delle più malate che abbia mai visto (e Dio sa quante ne ho viste), in cui siamo testimoni dello sventramento di una ragazza dentro la doccia. La macchina da presa si sofferma sulle interiora che cascano a terra mentre lei cerca inutilmente di tenerle dentro, sul killer che una volta terminata l’operazione prende a masturbarsi, e si finisce sulla ferita aperta della sua vittima. 
Tra una scena e l’altra c’è anche una gang yakuza (non manca mai in questo genere di film) che rapisce una giovane donna e la violenta mentre una telecamera riprende tutto. È qui che si presenta la sequenza più schifosa di tutte: uno dei membri della gang afferra un gigantesco clistere e lo somministra alla vittima indifesa, all’evidente scopo di aggiungere umiliazione all’umiliazione e annientarla, oltre che fisicamente, psicologicamente. Quel che segue è un tripudio di liquame marrone che posso lasciarvi immaginare da soli. Basta così. Non racconterò altro. Anche perché non c’è molto altro da raccontare, almeno soffermandoci solo sulla trama. 

Vi starete chiedendo a questo punto cosa mai potrebbe avermi spinto a parlare di un filmaccio gore che si regge praticamente solo sulla volgarità più becera. Beh, ammetto che non è esattamente un bel film, ma alcune inquadrature particolarmente azzeccate lo rendono un’esperienza di visione tutto sommato interessante; mi riferisco in particolar modo a quel murale colorato che ho inserito qui in mezzo al testo, un dipinto che, lo converrete anche voi, ricorda da vicino uno molto simile presente in “Profondo Rosso” di Dario Argento. Non è certamente un caso che alcuni flashback sembrino suggerire, esattamente come nel capolavoro del regista romano, che il nostro assassino abbia assistito a qualcosa di sanguinoso e traumatico da bambino. 

In generale la fotografia rivela una tecnica rara per questo genere di film grazie al sapiente uso dei contrasti, dell’illuminazione e delle prospettive. La recitazione è piuttosto buona, specialmente quella offerta dalle interpreti femminili, e alcuni passaggi lasciano ampio spazio alle riflessioni. Chi è, ad esempio, quell’angelo nudo con le ali spiegate e dalle fattezze femminili che appare al killer e sembra voler guidare, o semplicemente approvare, le sue gesta? 

Al netto del superfluo, purtroppo non è più di un quarto d’ora il girato su cui riflettere, ma nonostante ciò i temi accennati (e non abbastanza sviluppati) ci sono, e sono tanti: dall’isolamento sociale (particolarmente sentito in Giappone) a una cultura della prevaricazione le cui vittime sono destinate alla rassegnazione; dal fenomeno delle hot-lines che ha travolto l’intero mondo negli anni dell’uscita di questo film alla mercificazione del corpo femminile, con particolare attenzione al fenomeno noto come rorikon (letteralmente “complesso di Lolita”), ovvero l’ipersessualizzazione delle ragazze in uniforme da collegiali che ha preso piede nel paese asiatico sin dagli anni Ottanta, per divenire col nuovo millennio un elemento talmente rilevante nella cultura pop dal riuscire a trovare un canale di esportazione privilegiato anche in Occidente. Nessuno di questi temi è nuovo e originale, non lo era forse neppure quando il film uscì, ormai quasi trent'anni fa, eppure tutti insieme bastano a dare un po’ di profondità a un piccolo film senza pretese che potrebbe altrimenti scivolare subito nel dimenticatoio.



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