Non so che dire. Era un bel po’ che non mi accomodavo davanti allo schermo davanti a un bel film
di zombi. Questo principalmente per il fatto che non ho più grandi speranze di trovare materiale
abbastanza buono là fuori che possa spingermi serenamente a premere il tasto play.
Voglio dire,
non che mi dispiaccia, nelle sere in cui la mia priorità è spegnere il cervello, assistere all’ennesima
carneficina non-morta, ma un minimo di novità ogni tanto mi piacerebbe che ci ci fosse. Non dico
di originalità, perché quella ormai non la vedo probabile, ma perlomeno un particolare, anche
secondario, che mi strappi un’emozione, fosse anche una risata, e che mi faccia dire che non tutto
quello che ho visto è da buttare nel cesso.
Negli ultimi anni ho tirato lo scarico innumerevoli volte e
senza alcun rimorso, eccezion fatta per un paio di pellicole a tema zombi di provenienza asiatica
che sono state in grado di aggiungere un pizzico, ma giusto un pizzico, di sale sull’insalata. Penso
alla zombi-comedy giapponese “Zombie 100. Cento cose da fare prima di non-morire” (Zom 100:
Bucket List of the Dead, 2023), tanto per fare l’ultimo esempio in ordine cronologico, ma potrei
citarne altre. Ho deciso quindi di rivolgere il mio sguardo nuovamente a Oriente, e questo è
successo la scorsa estate, con l’idea di trovare magari qualcosa di curioso che potesse inserirsi,
come spin-off, nello speciale gastronomico che stavo pubblicando in quei giorni, ed ecco
presentarsi questo “Rape Zombie: Lust of the Dead” (Reipu Zonbi: Lust of the Dead, 2012) di tal
Naoyuki Tomomatsu, già autore di pellicole gore interessanti come “Zombie Self-Defense Force -
Armata mortale” (Zonbi Jieitai, 2006) e “Vampire Girl vs. Frankenstein Girl” (Kyūketsu Shōjo tai
Shōjo Furanken, 2009), pellicole che un giorno di questi, ma senza particolare urgenza, potrei
pensare di recensire da queste parti.
Con questo “Lust of the dead” l’ipotesi gastronomica
purtroppo è venuta a cadere quasi immediatamente, ancora prima dei titoli di testa, perché i suoi
zombi sono sì affamati, ma… di patata! E no, non intendo il tubero.
Il sipario si apre su una donna indaffarata nei suoi lavori domestici. Il marito rientra a casa e, dopo
essersi lamentato della qualità dell’accoglienza a lui riservata, inizia ad aggredirla fisicamente, del
tipo che la prende a pugni, le sbatte la testa contro il muro, e infine si appresta a violentarla. La
donna, con un disperato istinto di autoconservazione, afferra un paio di forbici e gliele pianta nel
basso ventre. Nel frattempo, iniziano a emergere notizie di molteplici stupri che si starebbero
verificando nelle strade di Tokyo e in tutto il resto del Giappone. È l’apocalisse zombi che non ti
aspetti!
Trasformati improvvisamente in maniaci sessuali, anziché nelle orde di carnivori della
tradizione romeriana, i maschi zombificati di tutto il paese hanno iniziato ad attaccare le donne con
intenti tutt’altro che pacifici. Scene di stupro si susseguono ovunque e i notiziari non fanno che
riproporre in diretta le peggiori oscenità, immagini in precedenza esclusiva solo dei cinema a luci
rosse. Le stesse giornaliste inviate sul campo cadono immediatamente vittime degli inarrestabili
invasati.
Fortunatamente gli zombi non sono velocissimi, come pare sia oggi tendenza nel cinema
americano: i loro movimenti sono rallentati (e questo è il colpo di genio del regista) non dal loro
stato di revenant in decomposizione, ma dall’intralcio dei pantaloni abbassati alle caviglie!
Nel
frattempo, un’altra giovane donna, Momoko, viene violentata da un medico mentre è ricoverata in
ospedale; un’infermiera, Nozomi, interviene e interrompe l’odioso amplesso con una spada che
trancia di netto le parti intime dell’infoiato aggressore. E qui giunge l’inevitabile (ma in parte
prevedibile) secondo colpo di genio, che mette in discussione tutto quello che nel corso degli anni
abbiamo imparato sugli zombi: per ucciderli non serve mirare alla testa, ma occorre piazzare un
colpo preciso nel più sacro dei gioielli di famiglia.
Momoko e Nozomi si danno quindi alla fuga e trovano rifugio in un tempio shintoista. Qui trovano
ad attenderle altre due ragazze, Kanae e Tamae, che non vedono di buon occhio la loro irruzione.
Insistono, anzi, sulla necessità di liberarsi di Momoko, che in quanto vittima dello stupro potrebbe
aver contratto un virus e rappresentare un pericolo per la piccola comunità. In realtà, lo scopriremo
a stretto giro, il problema non si pone: il rischio, per le fanciulle che cadono sotto le grinfie degli
spiritati aggressori, sta nella tossicità del loro eiaculato. Detto in altro modo, se lui viene, lei muore.
E senza alcun periodo di incubazione.
Da qui in avanti la pellicola inizierà prendere una piega stantia (le quattro rimangono
semplicemente nel loro rifugio isolato fino alla fine del film, ascoltando i notiziari e cercando di
capire cosa fare, e come da manuale arriva anche il solito siparietto lesbo che ti aspetti da questo
tipo di produzioni), ma la voglia di novità che i nostri palati stavano cercando indubbiamente c’è
stata. Avrebbe potuto esserci qualcosa di più? Direi proprio di no. Tutto quello che c’era da dire è
già stato detto, e l’impressione che rimane è che il regista Naoyuki Tomomatsu abbia preferito
concentrarsi sul modo più originale per svestire proprie attrici piuttosto che perdere tempo a
imbastire una trama.
Deluso da questa visione? Anche in questo caso non sarei così drastico nel mio giudizio: d’altra
parte cosa mai avrei potuto chiedere a un film con quel titolo se non una corposa dose di softcore,
qualche eviscerazione, effetti speciali a buon mercato e il solito carnevale di assurdità giapponesi?
Una carnevalata tra tutte? Il plotone di esecuzione tutto al femminile creato per giustiziare i
"maschi tossici", che vengono messi in fila legati e con addosso mutande a forma di bersaglio,
cosicché che le tiratrici sappiano esattamente dove sparare.
Se proprio vogliamo trovarci del significato, potremmo dire che il regista stia prendendo di mira in
modo satirico l'ossessione del Giappone per la violenza sessuale, oppure potremmo dire che il
regista ne è lui stesso morbosamente ossessionato e “Lust of the Dead” non è altro che la sua
valvola di sfogo.
Ci sarebbe, e lo dico per dovere di completezza, anche tutta una sottotrama legata a una profezia
secondo la quale il mondo potrebbe salvarsi attraverso la nascita di un bambino concepito da due
lesbiche, ma temo che si tratti di uno stratagemma messo in piedi dal regista per mostrare qualche
nudo femminile in maniera un po’ più particolareggiata.
Non può mancare la citazione di “Dawn of the Dead” di Romero, in cui vediamo intellettuali e
femministe che dibattono sulla natura dell'epidemia di fronte alle telecamere di un salotto
televisivo.
Eh, già, mi accorgo adesso di non essermi ancora soffermato sul motivo scatenante
dell’epidemia. Devo raccontarlo? No, direi che è un particolare assolutamente ininfluente, così
come ininfluente è il finale che in realtà, e gli appassionati del genere lo avrebbero scoperto presto,
non è affatto un vero finale.
Naoyuki Tomomatsu avrebbe infatti trovato il modo, tra il 2013 e il 2014, di realizzare altri quattro
capitoli della saga di “Lust of the Dead”, ai quali, dopo una breve pausa, si sarebbero aggiunti un
paio di “spin-off”: “Ren'ai shitai: Romance of the dead” (2015) e “Rape Zombie Side-Storye: Hadcore of
the Dead” (2017).
Credo non serva precisare che non sento alcun bisogno di proseguire il viaggio
in questo ennesimo delirio nipponico che, se ci pensiamo bene, non fa altro che normalizzare
degenerazioni come la misoginia o, se vista dal lato apposto, la misandria; ovvero odio e
pregiudizio nei confronti di persone di sesso opposto che si traducono spesso in violenza gratuita.
Certo, fatico parecchio a credere che un’operazione cinematografica così bislacca possa davvero
offendere la sensibilità di qualcuno o ispirare parole o gesta insane. Tuttavia, non credo che il
mondo, già corrotto di suo, abbia bisogno dell’ennesimo argomento di cui discutere.
Ogni tanto una variazione sul tema ci vuole. Nella serie coreana Non Siamo più Vivi alcuni zombie rimanevano raziocinanti, potevano controllarsi (ma questo non li rendeva per forza meno pericolosi).
RispondiEliminaQui abbiamo un impulso, diciamo, diverso...
Tutto fa brodo. Come abbiano fatto a farne CINQUE film però mi meraviglia.
Non dev'essere per niente facile variare su un tema tanto abusato, ma credo sia ancora più difficile farlo in tema vampiri, squali e possessioni demoniache. Con gli zombi qualcosa ancora si può fare e questo "Lust of the dead" ne è la prova. Sui sequel non mi esprimo, ma è una tendenza comune a tutte le latitudini ripetere all'infinito una buona idea quando la si trova.
Elimina