lunedì 24 febbraio 2014

Kuroneko

L’immaginario nipponico è pervaso di mostri; dagli yokai, o bakemono, ai più moderni Gamera o Gojira (Godzilla), dai classici oni e demoni ad animali mostruosi come l’Ushi-oni (tanto per non citare il solito Bakeneko), dagli esseri umani deformi (Noppera-bō, Futa-kuchi-onna…) agli oggetti animati (Bake-zōri, ecc.: su tutti il Kasa-Obake, il mio preferito) ai fenomeni meteorologici. Molti di essi derivano dalla religione primigenia della regione (Me-kurabe, Yobuko), che confluì nello Shintoismo, mentre altri (come Kirin e Shōjō…) furono importati dal continente in una commistione e varietà che lascia stupefatti. 
E così, è naturale che anche l’arte nipponica sia pervasa di mostri... Se anticamente c’erano le opere di Toriyama Sekien e Sei Shōnagon o i dipinti di Hokusai a rappresentarli, più recentemente sono stati i manga e gli anime a rivisitarli in chiave moderna. Tra le rappresentazioni più “colte” possiamo annoverare anche e soprattutto pellicole d’autore come “Onibaba – Le assassine” e “Kuroneko”, entrambe a firma del maestro Kaneto Shindo, purtroppo scomparso nel 2012.

L’articolo di oggi è per l’appunto dedicato a “Kuroneko” (Yabu no naka no kuroneko, 1968), una storia di fantasmi che s’ispira vagamente ad una famosa leggenda popolare chiamata “The cat's revenge”, mettendo però l’accento soprattutto sui concetti di fato e karma. Il racconto, molto semplice, è ambientato durante il Medioevo giapponese. Questi due elementi accomunano questo film al succitato “Onibaba”, così come l’uso di uno splendido bianco e nero e di una colonna sonora originale e sperimentale, e come il fatto che i personaggi principali siano due donne e un uomo. Se una differenza si può trovare, trama a parte, è forse nel tocco più “espressionista” e sovrannaturale di “Kuroneko”, laddove “Onibaba” era più legato a tematiche sociali all’avanguardia, comunque presenti anche nell'altro film, e nell’ambientazione claustrofobica del primo in contrasto con gli spazi aperti di “Onibaba”; anche in “Kuroneko” la natura contribuisce non poco all’atmosfera oscura del racconto.


Yone e sua nuora Shige vivono sole al limitare del bosco, nella campagna di Kyoto, da quando Gintoki, il marito di quest’ultima, è partito per la guerra. Un giorno alcuni soldati di passaggio si introducono in casa loro per razziare del cibo, le stuprano brutalmente e, prima di andarsene, incendiano tutto. Arse vive mentre sono prive di sensi (memorabile la scena in cui il gatto nero di casa, rimasto solo, lecca le ferite sui loro corpi ormai senza vita), le due donne stringono un patto con una divinità malvagia e si trasformano in kuroneko, spiriti vendicativi con l’aspetto e le abilità di un felino (kuroneko è la contrazione di kuroi neko e si può tradurre come gatto nero). Dal tramonto all’alba le due donne possono tornare sulla terra sotto forma di fantasmi, con l’aspetto di donne nobili e non delle popolane che furono in vita, a patto che uccidano tutti i samurai di passaggio e si nutrano del loro sangue. Da quel momento, ogni notte, nei pressi della porta Rajomon la bella Shige, pallida e spettrale, in un lungo kimono bianco attende i samurai al varco e, con il pretesto di farsi scortare per un tratto di strada molto pericoloso, un bosco di bambù frequentato da banditi e vagabondi, si fa seguire fino a casa. Nessuno di quegli uomini riesce ad uscire vivo di lì. Poiché tutto fa pensare all’opera di uno spirito, il governatore decide di mandare un suo uomo, un eroe appena ritornato dalla guerra, ad ucciderlo. Ed ecco che il destino si compie: quest'uomo, ribattezzato Yabu no Gintoki, è il figlio di Yone nonché il marito di Shige... La missione, dunque, si rivela nient’affatto semplice, e assume i toni del dramma.

Non si può negare che gran parte del fascino di “Kuroneko” derivi dalle sue atmosfere notturne, sepolcrali. Dopo la scioccante (anche se solo accennata) scena di violenza all’inizio del film, il mood si fa onirico e rarefatto (soprattutto quando (ri)esplode la passione romantica tra marito e moglie), così come del resto si confà ad un film di fantasmi. Comunque, se il film precorre le tematiche dei più recenti film di genere di qualche decennio, lo fa in maniera sottile, suggerendo piuttosto che mostrando, e con atmosfere del tutto diverse: dialoghi, recitazione, costumi e ambientazione, tutto contribuisce a dare alla rappresentazione un'eleganza senza tempo mutuata dal teatro classico giapponese. Il film funziona proprio a questo livello: senza cercare di risultare realistico, il regista si preoccupa solo di colpire l’immaginazione.

Per apprezzare appieno tutto questo bisogna tenere bene a mente sì il contesto storico in cui si svolge la vicenda narrata, ma anche (ovviamente) la mentalità giapponese; non ci si stupisca quindi del senso di irrealtà generato da alcuni dialoghi, né dal ritmo piuttosto lento e ripetitivo di alcune scene. Per il giapponese c’è bellezza nella contemplazione: è questo il senso di riti, anche quotidiani, approcciati con precise regole formali, come la famosa cerimonia del tè.

Degrado spirituale, sofferenza, pietà e orrore, amore e dovere, fedeltà e voglia di rivalsa: tutto questo trova ampio spazio all'interno di “Kuroneko”. Lo sguardo del regista è però fondamentalmente pessimista. Il fulcro è il conflitto interiore irrisolvibile che avviluppa i tre protagonisti; mentre Gintoki, nato povero e catapultato quasi per caso nel dorato mondo dei samurai, per mantenere la sua posizione sociale e la sua onorabilità deve uccidere le due persone che ama di più al mondo, le due donne a loro volta devono contrastarlo per sopravvivere, senza oltretutto potergli rivelare il motivo che le spinge a compiere quegli orrori. La moglie, il personaggio di gran lunga migliore, decide di rompere la spirale di violenza e per questo paga un prezzo altissimo. È inevitabile quindi che la lotta si articoli soprattutto tra Gintoki e sua madre, colei che gli ha prima dato la vita e poi è condannata a togliergliela. Una velata critica ai rapporti filiali nella tipica famiglia giapponese, rigidamente sorretti più da una peculiare forma di pietas che non, banalmente, dall’amore? Forse no, ma mi piace pensarlo.

Prima di tutto, però, viene il tema della vendetta così caro a tanta cinematografia giapponese, che non è solo quella delle donne che subiscono angherie dagli uomini, ma anche quella delle popolazioni che devono sopportare la guerra e le sue devastazioni, e soprattutto quella delle classi sociali più deboli vessate dai nobili e dai samurai in cambio della loro “protezione” (realtà magistralmente simboleggiata dalle vittime di Shige che, sotto la patina del samurai onorevole svelano, una volta ubriachi, una natura meschina, cinica e violenta. Dopo “Onibaba”, ancora il concetto della maschera che ritorna... varrà la pena di approfondirlo, una volta o l’altra).

Per questo la scelta del gatto (spesso randagio o mal sopportato dall’uomo) come metafora è quantomai azzeccata. Intervistato in proposito, Shindo affermò: “I liked the idea of using the cat because I could thus express the very low position in society which certain people occupy by using so useless and low an animal as the cat”.

E pensare che presso molte culture antiche i gatti venivano idolatrati; nell’antico Egitto questa venerazione giungeva a tal punto che, alla loro morte, le loro spoglie venivano addirittura mummificate e poi seppellite in appositi cimiteri. Fa effetto pensare che, nel tempo, questo animale sia universalmente diventato oggetto di superstizione. Dall’Europa, all’America, all’Asia, non c’è praticamente paese che non abbia una leggenda che riguardi i gatti, preferibilmente neri (sugli altri continenti non mi pronuncio, ma sono pronto a scommettere che sia più o meno lo stesso). Il gatto è animale indipendente e fiero, con il dono di poter andare e venire senza preavviso, quasi scomparendo: capacità invidiabili, certo, e tanto più sospette e temute per questo. Da qui a considerarle doti luciferine il passo fu breve: l’isteria di massa nata con la caccia alle streghe, dapprima in Inghilterra e poi nel resto d’Europa, con l’Inquisizione, e poi in America con la famigerata vicenda delle streghe di Salem, fece identificare i gatti, soprattutto se neri, con le streghe, per via della supposta capacità delle streghe di assumere forma felina durante la notte. Nella migliore delle ipotesi i gatti divennero simboli di falsità e forieri di sventura, nel peggiore compagni del Demonio, da cui ottenevano poteri occulti. Per fortuna, i gatti hanno sette vite (da noi, altrove anche nove...) e sono sopravvissuti a questo (reiterato) tentato sterminio. Bisogna dire, per dovere di cronaca, che se con le superstizioni sui gatti si potrebbe mettere insieme un articolo lungo dieci volte questo, non tutte quelle sopravvissute fino ai nostri giorni ne danno un’immagine così negativa… a volte la superstizione è anche un deterrente per il violento o lo stolto: non tirare un calcio a un gatto se non vuoi che ti vengano i reumatismi, si dice; non annegare un gatto, o il Diavolo ti prenderà… Per quanto mi riguarda, da gattofilo, ben vengano queste leggende!

Anche in Giappone il gatto è un tema popolare ricorrente. I giapponesi preferiscono il loro gatto nativo (il Bobtail, dalla caratteristica coda corta) perché lo ritengono meno propenso a stregare gli esseri umani, mentre sulle navi giapponesi i marinai ospitano gatti tricolore perché pensano che portino fortuna. In generale, è avere un gatto a bordo che attira la buona sorte e nessuno si sognerebbe mai di gettare un gatto a mare, perché si crede che questo provocherebbe una tempesta... A questa particolare superstizione si deve la diffusione, tanto nelle case quanto negli esercizi commerciali, di quelle graziosissime statuine in porcellana o ceramica chiamate Maneki neko o "gatti della fortuna”.

12 commenti:

  1. Questa opera la conosco di nome :)
    Lontana da me, ma sicuramente interessante.
    Certo intrisa di giapponesitudine ma anche universale nella figura dei personaggi.

    Universale specie nella figura del gatto, che è un simbolo così potente da ricorrere davvero in tutte le culture: benigno o maligno non importa, è sempre misterioso ed esoterico.

    Moz-

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    1. Verissimo. Il gatto è presente in praticamente tutte le culture e certamente non per caso. C'è qualcosa in loro di sovrannaturale. Quante volte mi sono fermato a guardare i miei gatti sentendomi dentro una sensazione quasi di disagio. Piccoli amici di tutti i giorni ma a volte così irraggiungibili...

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    2. Ed è questo che li rende interessanti.

      Moz-

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  2. Ahahah, TOM, non sapevo niente di tutto ciò e quando ho visto il titolo del post nel mio blogroll ho pensato che fosse un articolo dedicato a "Kuro neko tanda" ("Volevo un gatto nero" nella versione originale giapponese della canzoncina)!

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  3. Universali sono le superstizioni sui gatti, universali sono le supestizioni sulle streghe. Fa pensare vero?
    Gran film e gran recensione! Complimenti!

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    1. Le superstizioni non hanno mai portato a nulla di buono, ma tu questo lo sai meglio di me. Grazie per i compimenti!

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  4. I gatti sono i guardiani dell'aldilà.
    Sono una specie rispettabilissima, qui e nelle Dreamlands! :D

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    1. I gatti sono guardiani della soglia e un sacco di altre cose. E' per questo che nelle nostre case godono di privilegi superiori a quelli di qualsiasi altro ospite a quattro zampe...

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  5. Credevo che il bobtail fosse un cane!

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    1. Esiste il bobtail-cane ed esiste anche il bobtail-gatto. Esiste inoltre anche il bobtail-cavallo (ma quello non è naturale) .

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