lunedì 12 maggio 2014

L'ultimo treno della notte

Non so come sia per te, ma il mio problema sono le ragazze. Ho sempre voluto stare con una ragazza. E non ci sono mai riuscito. La cosa peggiore erano tutte quelle feste della scuola. Io che le guardavo, loro che ballavano. Non con me però. A molte scendevano giù continuamente le spalline del vestito, e gli idioti che erano con loro le tiravano su con un sorriso malizioso. Quello era il mio più grande desiderio, sistemare le spalline del vestito a una ragazza. Ma non è mai successo. E le ragazze erano tutte così stupende. Come se brillassero. E avevano quell’odore, come se prima di venire alla festa fossero state in un altro universo, in un altro mondo, sdraiate su un prato dal profumo soprannaturale. Io ero lì ed eco così lontano da tutto. Anche se fisicamente ero così vicino. Le persone nella sala erano racchiuse in una bolla invisibile. E io ero fuori. A pensarci sembra un po’ strano. Sarei potuto andare da una di quelle ragazze, per esempio per toccarle la schiena. Ma non le avrei toccato veramente la schiena. Solo la bolla, capisci?

Era da molto tempo che non mi capitava di leggere un libro tutto d’un fiato. Sapete, quei libri che una volta iniziati non ne vogliono proprio sapere di farsi riporre sul comodino. Mi è capitato nuovamente poche settimane fa con questo “L’ultimo treno della notte”, scritto nel 2005 dall’allora ventitreenne scrittore tedesco Benjamin Lebert. Trovai questo libro molto tempo fa su una bancarella dell’usato e, se ci penso adesso, non so dire come fu che lo portai in cassa e lo pagai. Credo che la molla sia stata una frase letta aprendo il libro a caso, una frase che mi colpì molto e che diceva: “Odio il buio. Il buio illumina sempre le cose più orribili.” Personalmente non odio il buio. Anzi, lo trovo, come dire, confortante. Immerso nel buio riesco a guardare dentro di me e a trovare, non dico delle risposte, quelle no, perché nella vita non esistono risposte, ma perlomeno delle indicazioni. 

È tuttavia davvero interessante l’opinione dell’autore (anche se tecnicamente è solo l’opinione del protagonista del romanzo) che descrive il buio come un luogo intriso di cose orribili, esprimendo tra l’altro il concetto con un azzeccato ossimoro. Ripensandoci il buio non può essere davvero confortante. Il buio può essere davvero un luogo dove ci si può trovare a disagio. Credo che il tutto dipenda da noi, o meglio, non dal “noi” in generale, bensì dal “noi” in uno specifico momento della nostra vita. “L’ultimo treno della notte” è un romanzo che parla di adolescenza, di tutte quelle piccole grandi situazioni, di gioia e dolore, che almeno una volta nella  vita ciascuno di noi ha sperimentato sulla propria pelle. 
Sono convinto di non andare troppo lontano dalla verità se affermo che anche tu, sì, proprio tu che mi stai leggendo, avresti potuto scrivere quelle stesse parole che ora hai letto là in alto, all’inizio del post. Indipendentemente dal fatto che tu sia uomo o donna, avrai senz’altro passato un periodo della tua vita nel quale ti sei sentito inadeguato, anzi, diciamo le cose come stanno, che ti sei sentito rifiutato. Un periodo in cui avresti voluto scomparire dalla faccia della terra, mentre tutti attorno a te sembravano essere indifferenti al dramma che stavi vivendo. E probabilmente anche tu, come il protagonista del romanzo, non ti sei sottratto alla tentazione di dare agli altri tutta la colpa dei tuoi mali.

E quelle ragazze. Le vedevo davanti a me, che ballavano e ridacchiavano, mentre le braccia di quei maledetti le avvinghiavano, premendosi addosso i loro seni. Le ragazze, pensavo, non sono affatto le creature meravigliose che io mi immagino, tanto tenere e sensibili e delicate e fragili. Di cui bisogna sempre prendersi cura e tutto il resto. Sono delle bastarde. Che sanno esattamente quanto male ti fanno.

Henry e Paul si incontrano su un treno, condividono lo stesso scompartimento di un vagone letto che ha appena lasciato la stazione di Monaco. Entrambi giovanissimi, i due iniziano a raccontarsi le loro storie e non la finiranno fino all’arrivo del treno a Berlino, molte ore dopo. Henry è il primo rompere il ghiaccio: “Avevo due amici. I miei unici amici. Eravamo uniti. Quando ero con loro non avevo paura. Si chiamavano Jens e Christine. Erano tutti e due più grandi di me. Jens aveva ventitré anni e Christine ventotto. Io ne ho diciotto. Adesso non staremo più insieme. Mai più”. La storia di Henry, Jens e Christine si sovrapporrà alla narrazione principale, impadronendosi del lettore per buona parte del libro. Jens e Christine si erano conosciuti in una clinica per la cura dei disturbi alimentari, presso la quale avevano trascorso, per motivi opposti (lui obeso, lei anoressica), tre mesi della loro vita. Henry, sebbene dall’apparenza normale, era forse il più disturbato dello strano terzetto. L’aspetto fisico e l’aspetto morale si fondono in un desolato tuttuno. Dicevano prima del sentirsi inadeguati, no? Essere brutti, sentirsi brutti, o meglio non rientrare in quelli che si ritengono essere i canoni estetici, non aiuta a superare indenne i turbamenti dell’adolescenza.  E tutto inevitabilmente finisce in vacca, almeno fino al giorno in cui ci si ritrova adulti e ci si rende conto di aver corso dietro ad una montagna di puttanate.

Tutte le ragazze se la fanno sempre con degli idioti. È un luogo comune, lo so. Ma è vero. Le ragazze ti fanno credere che per loro sono importanti solo il cuore, la tenerezza, la sensibilità, l’anima e roba del genere, ma non è affatto così. Vanno fuori di testa mille volte di più per altre cose. Per il modo di fare, per la bellezza, per il rock. Proprio come i maschi. Con la differenza che le ragazza fanno sempre finta che non sia così. Questo è il peggio. E non sono per niente indifese, bisognose di aiuto o in qualche modo svantaggiate. Per lo meno non quelle che conosco io. Che sono calcolatrici e stronze. […] E qualcuno sostiene che le ragazze stiano assieme a questi coglioni perché risvegliano il loro istinto materno protettivo. Ma se vogliono davvero proteggere qualcuno che vive circondato da cose orribili, perché non corrono da me?

Paul, dal canto suo, non dice molto. O meglio, il suo racconto è meno lineare di quello di Henry. Paul cita delle situazioni, dei flashback piuttosto confusi e, quasi sempre, si esprime solo se sollecitato dal compagno di viaggio. Noi lettori riusciamo facilmente ad appassionarci alla storia di Henry e quasi troviamo le interruzioni di Paul quasi fastidiose. In realtà c’è molto di più nel “non detto” di Paul che nel “detto” di Henry, ma di questo noi lettori ci renderemo conto solo alla fine.

Ho cercato in rete qualche opinione su “L’ultimo treno della notte” (in originale “Der Vogel ist ein Rabe” ovvero “The Bird is a Raven”) e sono rimasto un po’ deluso di quante stroncature abbia ricevuto questo romanzo. Praticamente non si trovano altro che pareri negativi e di ciò davvero non riesco a trovare una ragione. Ammetto che lo stile di scrittura di Benjamin Lebert appare essere un po’ acerbo, il che è quasi giustificato, considerata la sua giovane età, e ammetto anche che il suo modo di ridurre al minimo i periodi, sovraffollando il testo con milioni di pause (come in “Gliel’ho detto. Una sera. Era novembre. Pioveva forte.”) possa apparire alquanto fastidioso, ma ammetto anche, come ho già detto, che è un testo in grado di catturare l’attenzione del lettore, costringendolo ad appassionarsi alle vicende dei protagonisti e invogliandolo a sfogliare le pagine, una dopo l’altra, freneticamente, fino alla fine. Ci sono diversi motivi, in questo libro, che potrei riassumere con il termine “mal d’amore” che quasi mi spingono ad un paragone azzardato tra Benjamin Lebert e un suo illustre connazionale... 

Gliel’ho detto. Una sera. Era novembre. Pioveva forte. E lei apparve come un gatto bagnato davanti alla mia porta. Lei entrò. Buttò sul pavimento la sua giacca d’agnello, corse in bagno, si asciugò la faccia con una salvietta, si piegò in avanti, si asciugò alla meno peggio i capelli e poi li gettò indietro. Io la guardavo emozionato dal corridoio. Poi raccolsi la sua giacca da terra e l’appesi all’attaccapanni. Andammo insieme nella mia stanza. Mio padre mi aveva lasciato un giradischi vecchissimo con cui si potevano sentire i 45 giri. Erano già rovinati di brutto. Ma comunque il suo era ottimo. Tutte le volte che lo ascoltavi, era come essere avvolti in un tenero abbraccio. E poi mi ricordavano un po’ mio padre. Ci sedemmo per terra, uno di fronte all’altra. Ascoltammo vecchie canzoni. Di alcune, che trovavo grandiose, le mostrai i testi. Per farlo mi sedetti dietro di lei e passandole il braccio sopra la spalla seguivo con l’indice la strofa che stavano cantando in quel momento. Per esempio con “ The joker” della Steve Miller band. A un certo punto ordinammo due pizze. Venticinque minuti dopo ce le consegnarono. C’erano anche dei tovagliolini. Mentre, seduti uno di fronte all’altra, le mangiavano con le mani continuando ad ascoltare la musica, scrissi qualcosa sul mio tovagliolino. Scrissi: 1) Non smetterei mai di guardarti. 2) Ti amo. Glielo passai. Lei lesse. La pioggia batteva contro la finestra. Ci fu un clic. Il disco era finito. […] Per un po’ non ha detto nulla. […] Poi è andata alla finestra e ha guardato fuori nella pioggia. Dopo un po’ si è voltata di nuovo verso di me. E poi, per spezzare il silenzio che si era creato tra noi, si è messa a parlare del tempo che passa.

Non c’è un lieto fine in questo “L’ultimo treno della notte”. Non potrebbe esserci. D’altra parte non c’è un lieto fine nemmeno nell’adolescenza. Si giunge all’età adulta quasi per caso, improvvisamente, e tutto ciò che era parte di quella età, per alcuni meravigliosa, termina senza preavviso. Rimane solo un senso di smarrimento, un vago ricordo di lunghe giornate passate a cercare di dare un motivo ad un’esistenza fatta di… solitudine.

Quand’ero ragazzino tutte le volte che mi sentivo solo mi dicevo che in realtà non ero affatto solo. E sai perche? Perche mi immaginavo esistesse qualcosa che seguiva costantemente la mia storia. No, non Dio. Ma nemmeno una persona. Un qualche essere. Molti esseri. E mi mettevo in mente che fossero entusiasti di me. E che aspettassero con ansia di vedere cosa mi sarebbe successo. [… ] E provassero quello che provavo io. […] Tutte cazzate. Perché non c’è nessuno che segue la nostra storia. Perché quello che facciamo è indifferente, nessuno applaude quando combiniamo qualcosa di buono. Qualcosa che in quel momento per noi è eccezionale.  E sai, anche se qualcuno applaudisse […] comunque ci si sentirebbe sempre soli, forse ancora più soli di prima.


15 commenti:

  1. Mi hai incuriosito.
    Comunque, ho letto i giudizi su anobii.com e parecchi sono positivi.

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    1. Su Anobii forse mi ero dimenticato di andato a vedere. Bene, significa che non sono il solo ad averlo apprezzato.

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  2. Hai incuriosito anche me. Da valutare.

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    1. Racconta di esperienze che si riesce facilmente a fare proprie. Non ti dispiacerà.

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  3. Hai incuriosito anche me.
    Potrebbe essere il mio genere anche se è troppo cupo (ho una visione un po' diversa dell'adolescenza...) però appunto, penso possa piacermi.
    Quanto al modo di scrittura, il fatto di usare periodi brevissimi significa esprimere il sentimento dell'io narrante. In questo caso a scatti. E' uno stile, non può essere criticato.

    Moz-

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    1. Il periodo breve è quello che uso più spesso anch'io. Mi piace. Lo vedo come uno stile molto... intimista. E facilita la comunicazione. Da qualche parte avevo letto però che era sintomatico della difficoltà ad articolare grossi discorsi. Mah.

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  4. Vedo il titolo e mi dico: ma guarda tu, TOM si è confuso e ha sbagliato blog... ha pubblicato il post di obsploitation su Inside the O.M.
    Nessuno sbaglio invece XD

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    1. Per un attimo, ti dirò, mi era anche balenata l'idea di postare "L'ultimo treno della notte" di Aldo Lado in contemporanea su Obsploitation...

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  5. Sempre più rari quei libri da leggere tutti d' un fiato. Da valutare anche per me

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    1. Si legge tutto d'un fiato anche perché è molto breve. Una lettura da non più di un paio d'ore. Ci ho messo molto di più a scrivere questo post.

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  6. Anch'io dal titolo pensavo qualcosa di atroce o terribile! O più strano, come il treno a mezzanotte e quant'altro. Insomma, una sorpresa!

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    1. Atroce o terribile? Perché mai?

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    2. Non so, l'ultimo treno non è un cliché da brutti incontri?

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    3. Nell'omonimo film di Aldo Lado si fanno incontri bruttissimi, in effetti. Personalmente però preferirei salire su quel treno piuttosto che passare la notte in stazione centrale...

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    4. Fatto! ^^
      Però non era la centrale di Milano.

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