Il post di oggi vuole onorare un impegno preso con me stesso (ma anche con voi) molto tempo fa e poi rimasto disatteso senza un vero perché. Oggi dunque vi parlerò di “Prima neve sul Fuji”, una raccolta di racconti di Yasunari Kawabata risalente al 1958, ma resa disponibile ai lettori italiani soltanto nel 2000 da Mondadori.
Avendo ripreso in mano questo volume a distanza di anni dalla prima lettura, mi sono reso conto che alcuni di questi racconti erano ancora ben impressi nella mia mente mentre due o tre li ricordavo appena, e fin qui nulla di strano, se non fosse che in tutti, oltre a una prosa lieve e scorrevole, sono centrali i rapporti umani e i sentimenti, non per forza amorosi, mescolati a temi come la comunione con la natura, il trascorrere del tempo, la vecchiaia e la morte, l’espressione artistica (alcuni dei personaggi principali sono scrittori e probabili alter ego dell’Autore); e questo rende ognuno di loro, anche quelli secondo me meno riusciti, a suo modo diverso e unico.
Inoltre credo, anche se forse questo è un altro pensiero banale, che il ritratto dell’umanità che emerge da questi racconti sia universale ma allo stesso tempo sottolinei quelle che per noi sono le maggiori peculiarità giapponesi.
Innegabilmente giapponese, secondo me, è ad esempio il modo in cui la bella Takako, sposata con Hirata, comincia a fantasticare di fare uno scambio di coppia con i vicini Ichiko e Chiba dopo aver letto che casi simili sono avvenuti in Svezia e negli Stati Uniti. Innegabilmente giapponese perché, nonostante l’infatuazione per Chiba, Takako tradisce il marito con un terzo uomo, ma anche perché a tratti il tarlo che la tormenta sembra più intellettuale che sentimentale o emotivo. “Paesi del mondo” (questo è il racconto in questione) accenna a quella sintonia perfetta ed eterna tra due anime che è da tutti vagheggiata eppure, se esiste, è un evento molto raro, null’altro forse che la conseguenza di quella fase detta “innamoramento” (l'illusione di aver trovato un essere unico e speciale, la propria anima gemella, l'altra metà della mela), destinata a finire per tramutarsi in “amore” (un sentimento che si nutre di quotidianità, di familiarità, di accettazione dell'altro).
Leggendo questo racconto, che ruota attorno a due coppie, mi è stato impossibile non riandare con la mente a “Le affinità elettive” di Goethe, la storia di un matrimonio che si disgrega perché marito e moglie si sentono inesorabilmente attratti da altre due persone, formando due nuove coppie. Il romanzo di Goethe e il racconto di Kawabata non hanno nulla in comune, dalla trama allo stile (lieve quello di Kawabata, più greve e foriero di tragedia quello di Goethe) per arrivare al finale che da una parte è aperto e dall’altra prende invece una direzione ben definita, eppure il tema di fondo è molto simile. Detto in parole semplici, si tratta in entrambi i casi di una riflessione in merito a se e quanto conti nelle relazioni amorose la compatibilità di carattere: qual è davvero, se ce n'è una, la ricetta dell'amore? L'affinità (elettiva) è garanzia di riuscita di un rapporto? Nessuno dei due autori fornisce una vera risposta, anche se è emblematico che in nessuna delle due vicende le coppie più affini siano destinate a restare assieme; se l'affinità elettiva è un picco, una nota così alta da sovrastare tutte le altre, allora forse sono le nostre orecchie a non sopportare troppo a lungo gli acuti. O forse il vero significato del racconto sta nel rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere ma non è, il fuggevole sguardo gettato su una realtà alternativa che, nel bene e nel male, non si può realizzare.
Ancora di rapporti matrimoniali parlano “Cose che suo marito non faceva” e “Gocce di pioggia”. Se nel primo il matrimonio di Kiriku sembra compromesso dal tradimento della donna e visto attraverso la lente deformante delle sue parole e di ciò che ne percepisce il suo giovane amante, a cui il preludio sembra quasi dare più piacere degli incontri in sé, nel secondo il tradimento è solo supposto ma ci fa capire che, dietro la facciata solida e normale, il rapporto di Toshiko col marito Hidaka è in crisi. È proprio vero che il giovane Junji con la sua attenzione morbosa per il corpo dell’amante è il grado di darle qualcosa che il marito non sa o non può darle (“Cose che suo marito non faceva”)? E davvero l’attraente Tomiko ha preso il posto di Toshiko nel cuore o quantomeno nel letto del marito (“Gocce di pioggia”)? La verità e la fantasia si mescolano al punto da divenire inestricabili per il lettore, ma soprattutto la narrazione gira attorno a rapporti umani complessi e sfaccettati e denotati, in definitiva, da una desolante incomunicabilità.
La coppia di “Prima neve sul Fuji” invece non si è mai sposata, ma è stata legata a lungo prima che la guerra, la vita, la separasse, e un incontro fortuito sulla metropolitana e la successiva decisione di recarsi insieme alle terme scatena vecchi ricordi e scalda le ceneri di un amore che forse non è mai morto. La breve vicinanza sembra ricreare tra Utako e Jiro l'antica intimità e passare del tempo insieme serve non a rimpiangere quello che è stato (o non è stato) ma a far rivivere il passato, cercando nell'altro le tracce della persona che fu; e anche, consciamente o meno, a dirsi cose mai dette prima. Perché le cose non dette bruciano come ferite aperte. Tuttavia qualcosa li divide, qualcosa di inconscio che nessuno dei due tiene troppo a sondare. Il tempo non passa mai invano e i due finiscono per chiedersi che ne è stato delle vibrazioni che c’erano fra loro. La risposta sembra trovarsi nella chiacchierata che li occupa durante il viaggio di ritorno a casa, la stessa che potrebbero fare due estranei in ascensore parlando del tempo. Questa rinnovata formalità chiude il racconto come un cerchio perfetto, con la prima neve sul Fuji sullo sfondo.
I giapponesi chiamano il monte Fuji “Fujisan”, ovvero “Signor Fuji”: da sola questa montagna, con la sua placida bellezza, riesce a caratterizzare un intero paesaggio, ma al contempo sta lì, come un neo, a increspare un profilo che altrimenti sarebbe lineare, a sfidare con la sua insidia nascosta una tranquillità che è solo transitoria, nell’attesa che la sua furia, deflagrando, colpisca anche se stesso. La stessa neve che si accumula sul suo profilo non è in fondo che un'imperfezione, e ci ricorda che la montagna, simbolo della natura immota e immutabile, è anch'essa soggetta alle stesse leggi degli uomini: il trascorrere del tempo e l'avvicendarsi delle stagioni, sempre uguali eppure allo stesso tempo sempre diverse, un brivido di imprevedibilità che ci ricorda come tutto possa cambiare pur restando, alla fine, sempre uguale. Utako e Jiro si ritrovano proprio nel momento in cui sul Fuji è caduta la prima neve della stagione e quell’incontro, come la neve, scuote le loro vite come la superficie di un lago agitata dal lancio di un sasso ma come questa destinata a tornare placida prima di farsi increspare ancora e ancora.
Anche “Natura” e “Silenzio” partono da un incontro per introdurre due riflessioni non identiche ma affini sul trascorrere del tempo, e non solo. In “Natura”, Uragami è un romanziere che, di ritorno da un viaggio, si ferma in una stazione termale che era frequentata da un suo amico e collega, morto alcuni anni prima. La stanza prediletta da quest’ultimo è ora occupata da Uryū, un uomo bellissimo che confessa di aver vissuto gran parte della vita fingendosi una donna per evitare la chiamata alle armi, e di essere “ritornato alla natura” solo di recente, dopo essersi allontanato dalla compagnia teatrale per cui ha lavorato per anni e aver rimesso panni maschili. Uryū, come il defunto amico di Uragami, è affetto da miodesopsia, una patologia della vista a causa della quale percepisce gli spazi aperti come ricoperti da puntini grigi, delle macchie che gli riportano alla mente tutte le colpe e i fallimenti che hanno costellato la sua vita. Ma anche se gli occhi possono vedere, a volte è la mente che non vuole più farlo, e questo tema lega sottilmente questo racconto al successivo. In “Silenzio” un romanziere fa visita al suo mentore, il quale è affetto da afasia e da paralisi a una mano. Il vecchio, Akifusa, non reagisce ad alcuno stimolo e sembra un fantasma vivente, che fa il paio con quello di una donna che si dice si mostri di notte ai tassisti che si recano nel centro di Kamakura. Mentre la figlia si domanda se lui vorrebbe ancora scrivere, il suo discepolo si chiede dapprima perché Akifusa non cerchi altri modi per comunicare, e poi realizza che ci sono cose che si possono esprimere solo col silenzio.
Di Kawabata ho letto solo "La casa delle belle addormentate", molto psicologico e introspettivo. Questo potrebbe essere un libro interessante per approfondire la conoscenza dell'autore.
RispondiEliminaIl titolo che citi l'ho letto anch'io, e pure recensito secoli fa qui sul blog. Probabilmente è il suo romanzo più famoso o, perlomeno, c'è stato un periodo in cui ne parlavano tutti. In ogni caso il tuo è stato un ottimo inizio...
EliminaKawabata mi è stato consigliato tempo fa da una persona a me molto cara, e il suo "Maestro del go" (cito il titolo memoria) mi ha molto colpito. Non tanto però da ricordarmi di leggere altro di suo, a quanto pare.
RispondiEliminaQuesta antologia che citi mi sembra un buon secondo passo nel mondo dello scrittore ;-)
Anch'io dovrei ricordarmi ogni tanto di leggere qualcosa di Kawabata. Ho in attesa sullo scaffale "Mille Gru" e "Il disegno del piviere" (che ne è il sequel) ma non riesco proprio a fare in modo che venga il loro momento.
EliminaLetto, di lui, "Bellezza e tristezza", ma ne conservo un ricordo vaghissimo. Dopotutto son passati trent'anni da allora.
RispondiEliminaPost elegante e intenso, in ogni caso, che conferma le tue indiscutibili doti di recensore.
Non lo conosco, ma sbirciando su wikipedia, non ho potuto fare a meno di notare che il protagonista è uno pseudobliblia... Interessante!
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