LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI
Un altro romanziere, Kazumi, è il protagonista di “Yumiura”. Una donna gli fa visita e gli dice di averlo conosciuto a Yumiura, dove abitava prima di sposarsi, circa trent’anni prima, snocciolando nomi e date e molti altri dettagli. Addirittura, all’epoca Kazumi le avrebbe chiesto di sposarlo, e dopo tanto tempo la donna lo ricorda ancora con molto affetto, al punto da aver intrapreso quel viaggio proprio allo scopo di poterlo rivedere e parlare con lui. Kazumi invece non ricorda affatto quella donna, e consultando un atlante non riesce nemmeno a trovare alcuna traccia di una città chiamata Yumiura nel Kyūshū. Certo, ciò che la donna racconta potrebbe essere una fantasia o il frutto di una mente malata… oppure, quello dei ricordi è un labirinto che divide le persone, e nel quale certi fatti ci sono o non ci sono accaduti a seconda che li ricordiamo o meno. Forse ciò che non conserviamo nella memoria non è mai avvenuto, ed è questo il motivo per cui non è mai possibile condividere con altri il nostro personale mondo dei ricordi.
Con “Un filare di alberi” l’atmosfera si fa se possibile ancora più intima, forse perché la narrazione si svolge tutta all’interno di una casa e di una famiglia che mi piace pensare come la tipica famiglia giapponese. C’è Soeda, il capofamiglia, la cui casa si trova a metà di una salita fiancheggiata da un filare di alberi di ginko, che una sera di fine novembre si accorge che i fusti situati nella metà inferiore della strada hanno perso quasi del tutto le foglie, e se ne meraviglia; c’è la figlia Yuko, cui è stato sottratto il portafoglio ma la cui bontà d'animo la porta a convincersi che ciò sia avvenuto per caso, perché la persona che ha accolto nella propria casa non può averla derubata di proposito; e infine c’è Ikuko, la moglie di Soeda, che prega il marito di non sgridare la figlia; e poi la tenerezza di Soeda verso le piccole manie di sua moglie, la nostalgia di entrambi per il figlio Shin'ichi, che studia a Kyoto e torna a casa solo saltuariamente, e così via.
“Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie” scrisse il sommo Ungaretti e in questi versi perfetti è racchiuso tutto il senso della caducità della vita. Ecco, questo racconto di Kawabata risplende in parte delle stesse suggestioni, perché se è evidente che le foglie sugli alberi in realtà siamo tutti noi che per un breve periodo ci troviamo a calpestare questa terra, perché sfidare il vento gelido dell'autunno equivale a sfidare la vita, questo concetto pare buttato lì a casaccio insieme a molti altri, tanto che a una lettura superficiale parrebbe quasi che l'Autore abbia mischiato i temi più diversi perché non sapeva bene dove andare a parare. Credo invece che solo un orientale potesse pensare di usare come spunto un avvenimento all'apparenza tanto banale come un filare di alberi che ha perso le foglie, e solo un grande scrittore come Kawabata potesse riuscire a rendere un tale racconto, senza grossi drammi o avvenimenti e per giunta molto corto, così ricco di sfaccettature.
Nello stupore con cui i Soeda si rendono conto di non essersi accorti immediatamente dello strano fenomeno e nel tentativo di trovarvi una spiegazione razionale c’è qualcosa che fa sorridere, sebbene sappiamo tutti che in realtà sia abbastanza comune non riuscire a vedere le cose che si hanno davanti agli occhi tutti i giorni. Quel genuino, commovente senso di meraviglia per fenomeni ciclici, che fanno parte da sempre dell'ordine naturale delle cose (come, appunto, la caduta delle foglie dagli alberi ad autunno inoltrato, o la fioritura dei ciliegi in primavera) testimonia un sentimento di profonda affezione, di intima comunione, per/con la natura. Tuttavia, nelle poche pagine che compongono il racconto la natura e i sentimenti si compenetrano in molti altri modi, a sottolineare la qualità non necessariamente razionale della mente umana, capace di stimolarsi per un rumore o un profumo e non solo con il ragionamento o per forza di volontà. A fine lettura resta soprattutto un retrogusto amaro, malinconico, dato dall’immagine degli alberi nudi, desolati, con le poche foglie rimaste che sembrano tremare.
A questo punto non mi resta che menzionare i racconti più anomali dell’antologia, ovvero “Le prostitute delle barche” e “Crisantemo nella roccia”, che volutamente avevo lasciato per ultimi. Il primo è un esempio di scrittura teatrale, qualcosa di inusuale per Kawabata, ed è ambientato in un’epoca antica in cui la sopravvivenza delle famiglie era strettamente legata a quella del loro clan di appartenenza e le vicende politiche interferivano nella loro vita spesso in maniera tragica, strappando i mariti dalle mogli e i genitori dai figli: quando il clan era in pericolo, gli uomini andavano in guerra e mogli e figli li attendevano a casa, spesso invano. Un po’ melodramma e un po’ tragedia del fato, permeata di un senso di ineluttabilità e malinconia che neanche il finale riesce del tutto a riscattare, la storia della danzatrice e suo marito e dell’uomo e di sua figlia è una storia tipicamente medievale, così come tipicamente medievali sono le arti della danza e della poesia che l’Autore fa doppiamente rivivere, creando un’opera per parole e musica che ha per protagonisti due danzatrici e un cantastorie.
Il destino vuole che il marito non riesca più a fare ritorno a casa e che ritrovi sua figlia dopo molto tempo, quando lei è adulta ed entrambi hanno ormai trascorso troppi anni per strada per aver conservato ogni parvenza di nobiltà. Ma anche se padre e figlia non sono in grado di riconoscersi a prima vista, il legame costituito dalle canzoni gloriose che lei ha conservato gelosamente nella memoria fin dalla sua infanzia permetterà loro di ritrovarsi in extremis.
“Crisantemo nella roccia”, invece, viene spesso definito un racconto-saggio, e di saggio in senso stretto si tratterebbe se non fosse che, unica parvenza di narrazione vera e propria, cita una leggenda riguardante una donna fantasma, un bizzarro leimotiv che si mischia strettamente con le riflessioni del protagonista che hanno come tema la morte. Amo questo racconto per diversi motivi, ma il più importante è che (anche se non è il solo) è ambientato nell’area di Kamakura, un luogo meraviglioso che ho avuto il privilegio di visitare e nei cui dintorni è concentrato un gran numero di templi e bellissimi esempi di arte funeraria: quello di Kamakura fu il periodo di massimo splendore dell'arte della pietra, prima che essa cominciasse a declinare “perdendo [per usare le parole del narratore] ogni stile”.
Infatti, nella mentalità giapponese non solo la morte è considerata un evento naturale e qualcosa di familiare, ma viene data molta importanza ai monumenti funerari. Nella pietra, modellata rispettando determinati canoni di armonia e bellezza, si desidera infondere una sensazione di pace e bellezza da trasmettere ai posteri. Una bellezza che simboleggia il Giappone stesso, impossibile da realizzare nel presente, ma ricevuta in eredità dal suo glorioso passato: anche Kawabata evidentemente aveva a cuore l’arte funeraria, e sembra quasi che abbia usato questo strano esperimento di scrittura proprio per sviscerare l’argomento (e se pensiamo che probabilmente morì suicida, il tema si fa ancora più complesso e affascinante).
Il protagonista del racconto è un uomo originario di un villaggio situato in una piccola valle ma da molto tempo trapiantato, appunto, nell’area di Kamakura. L’uomo desidera scegliere mentre è ancora in vita il proprio monumento funebre, che rispecchi nella morte quello che lui è stato in vita, o che comunque lasci una traccia tangibile e indelebile di sé. Eppure, sul punto di acquistare uno stupa a tredici piani cambia idea, e il motivo sta nel ricordo di una donna fantasma del suo paese natio che all’improvviso, dopo tanti anni, gli torna alla mente. Pare che un giorno la donna fosse morta di freddo aspettando il suo amato nel bosco, all'ombra di una roccia, e che la sua testa fantasma avesse continuato a comparire dietro quella roccia finché non si era celebrata una funzione in suo onore e qualcuno non aveva piantato un crisantemo bianco nella sua cavità: solo allora il suo spirito si era quietato. L’uomo comprende allora che la natura all'occorrenza diviene essa stessa un monumento funebre per tutte le sue creature, e forse un giorno avrà pietà anche di lui.
Molto stimolanti come spunti di lettura. Confermo che a questo punto me lo annoto come testo da mettere nella lista della prossima spesa libresca.
RispondiEliminaOK, allora poi un giorno mi saprai dire. ^_^
EliminaQuesta è la part two del mio commento alla prima parte. Mi ero scordato di scrivere che la mia lettura del libro di Kawabata aveva alle spalle un motivo preciso: la visione del film omonimo del 1985 "La tristezza e la bellezza" di Joy Fleury. Che ha come interprete maschile nientepopodimeno che Andrzej Zulawski.
RispondiEliminaCredo di averlo visto un milione di anni fa quando ero praticamente perso per Charlotte Rampling. Non mi ricordavo affatto di Zulawski, ma non me stupisco...
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