venerdì 21 giugno 2019

Invisibili: la sindrome di Dio

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Nella prima parte di questo articolo abbiamo fatto la conoscenza di Dante Remus Lăzărescu, un uomo che, oltre a essere completamente solo al mondo, è anziano, vedovo, povero, malato, fisicamente e psicologicamente uno sfacelo, mezzo alcolizzato e definitivamente privo di prospettive.
Sull’invisibilità che un qualsiasi signor Lăzărescu possa sperimentare nel nostro mondo reale credo non ci sia da dubitare, ma ci sono dei casi in cui l’invisibilità trascende la solitudine e tutti gli altri parametri appena elencati e trascina nel suo vortice anche noi (o voi) che pensiamo (pensate) di essere ben integrati nella nostra (vostra) comunità. Uno di questi casi credo l’abbiate vissuto anche voi se, almeno una volta nella vita, avete dovuto ricorrere alle cure di un pronto soccorso (non importa se come pazienti o come accompagnatori): sicuramente vi sarete trovati in quella tipica situazione kafkiana in cui vi fanno accomodare da qualche parte e lì vi fanno rimanere, senza mai dare un cenno di vita per una decina di ore (in codice verde o, peggio, in codice bianco, le prospettive di uscire dall’incubo il giorno stesso tendono inoltre drammaticamente allo zero). L’esempio del pronto soccorso (ma avrei potuto riferirmi a qualsiasi altro ufficio pubblico) non è casuale, perché Dante Lăzărescu, esattamente come il “ghibellin fuggiasco” (cit.) suo omonimo, di ospedale in ospedale vivrà un inferno al cui confronto persino la sua stanca e lenta vita da emarginato sociale gli parrà rosea.
Non è mia abitudine sollevare polemiche nei confronti del nostro sistema sanitario che, spesso per motivi ricercabili altrove, non se la passa nemmeno troppo bene, ma indubbia invece è la polemica che Cristi Puiu solleva nei confronti dell’equivalente sistema rumeno, a suo dire popolato da una moltitudine di operatori sadici, corrotti, snob e scontrosi, perfette imitazioni dell’esimio professor Guido Tersilli di sordiana memoria. Questo per dire che, sebbene la vicenda venga contestualizzata in Romania, non siamo esonerati dal generalizzare la questione. Certo, è molto più comodo per noi spettatori occidentali pensare alla Romania come a un paese arretrato, divorato dalla dittatura comunista e popolato da villici simili a quelli che accolsero Jonathan Harker all’inizio del suo tragico viaggio… Molto più comodo ma anche molto più presuntuoso, mi verrebbe da dire, perché la disumanizzazione e l'assenza di compassione, due tra i maggiori temi trattati nel film, sono attributi universali. Così come sono universali le eccezioni. E infatti, nel desolato scenario offertoci da Cristi Puiu alcuni personaggi assomigliano vagamente a esseri umani. Ed è proprio su questa singolarità che la storia comincia. 

L’ambulanza finalmente arriva e sebbene inizialmente Mioara Avram (Luminita Gheorghiu), il paramedico di turno, si lasci sedurre dalla facile equazione “alcolismo uguale malattia”, la sua ammirevole dedizione professionale prende il sopravvento. Un rapido esame e la diagnosi è già servita: cancro al colon. Non chiedetevi come tale conclusione possa essere arrivata così in fretta a un paramedico privo di qualsiasi strumento diagnostico. Sospendete la vostra incredulità, fate finta che ciò sia il risultato di una lunga esperienza sul campo e passate oltre, perché la priorità adesso è quella di trasportare con urgenza il paziente in ospedale.

Una volta compreso (e come avrebbe potuto essere altrimenti) che i vicini di casa non li avrebbero mai accompagnati, Mioara e Lăzărescu, con l’ausilio dell’autista Leo, intraprendono un’estenuante odissea di ospedale in ospedale, rimbalzati come palline da ping-pong a causa, così si dice, del sovraffollamento. Ma il fatto che quella stessa sera un terribile incidente stradale abbia monopolizzato tutti gli ospedali della città non può giustificare quella terribile sensazione che la causa sia un’altra, quella che ci suggerisce che al mondo non può esserci posto per un vecchio ubriaco, etichettato automaticamente come bevitore e trattato come tale.
Mioara, che comprende perfettamente il dramma, finisce ben presto per diventare la cosa più simile a quell’amico che Lăzărescu non ha mai avuto. Viene da chiedersi se ciò può essere di consolazione a un uomo le cui condizioni fisiche si vanno deteriorando con il trascorrere dei minuti. Mi piacerebbe pensare che possa essere così, sebbene il regista non sembri propenso a fare troppe concessioni alla speranza. 

Dottori cinici, infermieri esausti, assistenti sottopagati alla caccia di qualche “mancia”: tutti fanno la loro parte in questa commedia nera che a tratti, paradossalmente, fa anche sorridere. Nessuno ha davvero tempo da perdere con il signor Lăzărescu; tutti hanno la stessa opinione su quell’uomo e in quella opinione si adagiano, ignorandolo, allontanandolo, e infine (naturalmente non prima di aver lasciato trascorrere delle ore) spedendolo con una scusa in direzione di un altro ospedale, dove un collega inesperto abbia magari voglia di assumersene la responsabilità. Paradossali anche certi stratagemmi ideati per evitare di prendersene carico, come quello secondo il quale sarebbe necessario un consenso scritto e firmato dal paziente (e fa niente se questo è ormai privo di conoscenza) per poter prestare le dovute cure.

Siamo in un mondo in cui le regole vengono piegate a seconda delle necessità, un mondo dove è prioritario, per il personale medico, occuparsi della batteria di un cellulare che non tiene la carica. È quella che possiamo definire senza troppi giri di parole la “Sindrome di Dio”, quel delirio di onnipotenza che deriva dall’avere in mano il destino di chi è indifeso. Onnipotenza rafforzata dalla certezza che, qualunque sia il delitto, non vi sarà castigo. Né tantomeno ci si dovrà confrontare con superflui sensi di colpa. 

Solo nell’ennesimo ospedale arriverà finalmente un minimo di aiuto, assieme a una diagnosi che è praticamente una sentenza di morte. Quel cancro al colon in fase avanzata ipotizzato da Mioara è reale, ma non è tutto: c’è un coagulo di sangue nel cervello che va operato immediatamente. E anche noi spettatori ci troviamo ad ammettere di aver sottovalutato quel mal di testa lamentato sin dall’inizio da Lăzărescu, attribuendolo come da copione alla bottiglia. L’accusa del regista non si ferma quindi a una singola categoria, ma si estende all’intera umanità, rea di etichettare rapidamente qualsiasi cosa o persona nella maniera che torna più comoda. 
Lo show termina all'improvviso, con il paziente, la testa già rasata, pronto per l’intervento chirurgico. Mioara esce anche lei di scena: ha già fatto tutto quanto era in suo potere, professionalmente e umanamente, alleggerendo come poteva le ultime ore di questo atipico Lazzaro che forse oggi morirà, o forse no. Chissà, forse l’operazione avrà successo e tra qualche giorno l’uomo sarà dimesso e rimandato a casa sua, dai suoi gatti, a morire di cancro al colon in perfetta solitudine.

La morte del signor Lăzărescu” sarà il primo di una serie di 6 lungometraggi diretti da Cristi Puiu e raccolti sotto il comune titolo di "Storie dai sobborghi di Bucarest". Ioan Fiscuteanu, l’attore che interpreta Lăzărescu, morirà due anni più tardi all'ospedale di Târgu Mureş per un cancro al colon.


14 commenti:

  1. Che combinazione tragica.
    Indubbiamente la trafila ospedaliera talvolta è snervante, soprattutto quando hai l'impressione che i medici siano troppo impegnati o non abbiano le idee chiare sul tuo problema... A volte c'è anche un pregiudizio, sarà che io nei casi in cui sono stato ricoverato ho notato soprattutto aspetti positivi, mentre c'erano altri ricoverati che parlavano male degli ospedali e del personale "a prescindere" con un atteggiamento molto populista...
    Sicuramente non vorrei morire in ospedale dopo un lungo ricovero, se possibile spero di morire mentre sto passeggiando in mezzo a degli alberi in fiore.

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    1. È nella natura umana lamentarsi di ciò che non funziona e soprassedere se la stessa cosa funziona come, se non meglio, di quanto ci si possa ragionevolmente aspettare.
      Statisticamente ascoltare i commenti di chi ha usufruito di un bene o di un servizio non porta da nessuna parte: se arrivi al lavoro con due ore di ritardo perché ti si è guastata la macchina, sicuramente farai presente a qualcuno che quella macchina (tale marca, tale modello) è inaffidabile. Se invece la stessa macchina ti porta puntuale al lavoro, tutti i giorni per dieci anni, non ti verrà comunque mai in mente di consigliarne l’acquisto.

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  2. Ultimamente i tuoi post mi fanno più male che bene, ma sono troppo belli per non leggerli! :-P

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    1. Grazie per aver tenuto duro nella lettura, allora! Purtroppo sono altre le cose, invece che i miei post, a fare male

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  3. Che sfiga sia il personaggio del film ...ma di più l’attore che lo ha interpretato, visto che è morto di tumore al colon dopo due anni dal fim ( coincidenze?).
    Non vorrei essere troppo di parte visto che lavoro in ospedale😀ma da noi qua in Italia funziona un po’ meglio la sanità.
    Almeno al Nord.
    Ormai si cerca di salvare in emergenza anche quelli prossimi alla tomba.
    Non scherzo .. l’adeguamento alle linee guida europee comporta che non c’è più una soglia oltre la quale intervenire è inutile.
    Per una serie di motivi che non sto qua a tediarti .
    Ti basti pensare ad uno che viene per ictus cerebrale ed ha novant’anni gli fai un intervento d’emergenza per salvargli il cervello ( meglio dire quel che ne resta) e prospettargli una vita che sicuramente non augureresti a nessuno.
    È un costo economico non da poco senza alcun beneficio.
    Qua da noi i Pronti soccorsi sbagliano meno di quelli che descrivi te nel film, poi i casi di malasanità ci sono dappertutto ma almeno nelle realtà che ho conosciuto io ..non mandano a casa davvero nessuno ( quelli urgenti davvero😀)
    Ciao

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    1. Conosco bene gli ospedali, almeno quelli del nord. Non ci ho mai lavorato ma ho avuto modo di frequentarli parecchio, per motivi che non sto a tediarti. Conosco anche i prezzi di certi medicinali e/o prestazioni che pesano sulla comunità ma no sul singolo cittadino. Averne di malasanità del genere, in certi paesi che credono di essere più “sviluppati” di noi, Al di là dei luoghi comuni, credo che spesso chi si lamenta di certe cose è abituato a credere di essere migliore di altri, senza tenere conto dell’enorme pressione a cui sono sottoposti quotidianamente gli operatori sanitari. Ci sono ovviamente le eccezioni, ma quelle sono comuni a tutti gli ambienti di lavoro.

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    2. Sei nordico pure tu?
      Di dove?
      Se posso chiedertelo.

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    3. Appena fuori Milano. Nord-ovest.

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  4. Sono appassionato di cinema dell'est, ma quello rumeno ammetto di aver sempre fatto una gran fatica a digerirlo. Sarà perché tutti quelli in cui mi sono imbattuto finora raccontano storie sullo stile di questa del post. Sfortuna mia o il cinema rumeno è davvero solo così?

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    1. "tutti i film" non "tutti quelli"...

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    2. Beh, credo che all’estero si stiano facendo un’idea simile del cinema italiano contemporaneo: ormai i nostri registi parlano solo di camorra e di famiglie disfunzionali….

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    3. Infatti, ho gli stessi problemi con il cinema italiano contemporaneo ;-D

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  5. Ci vuole un bello stomaco forte per guardare questo film..perché ci sono "mostri" reali: la solitudine, la malattia..gli ospedali. (Location che non fa paura solo nei film di zombie, perché quella è una cosa irreale).
    Quindi alla fine il protagonista potrebbe morire nell'operazione o poco dopo, ma anche se sopravvivesse, troverebbe la morte in seguito.
    Giusta la tua riflessione (e quella del regista): l'uomo ha purtroppo "l'etichetta" facile.

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    1. Serve solo il coraggio di tuffarsi in un film ambientato in un pronto soccorso realistico (non in quelli patinati delle serie tivù). Ammetto che ho fatto fatica a gestire le emozioni e più di una volta sono stato sul punto di interrompere la visione. Ammiro chi negli ospedali ci lavora davvero, gestendo senza impazzire le situazioni più allucinanti. Viceversa non sempre provo empatia per chi condivide con me (o con i miei cari) la sala di attesa di un pronto soccorso. Mi chiedo se ciò faccia di me una persona orrenda...

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