venerdì 6 marzo 2020

Invisibili: Pál Adrienn


«Ci sono tre livelli nel mio film. Il primo è l’indagine personale. Nei film, mi piace concentrarmi sulla vita interiore delle persone. I protagonisti sono in ogni inquadratura e io cerco di mostrare le loro emozioni attraverso la composizione dell’immagine. Così, mentre la storia progredisce, il lavoro della mdp diventa sempre più complesso e colorato. Il secondo livello riguarda il modo con cui lavora la memoria, che è relativo e soggettivo. La gente ha spesso ricordi diversi dello stesso momento. Infine, il terzo livello è uno sguardo sull’obesità. La protagonista è un’infermiera obesa che offre cure palliative in un ospedale. Per me, l’obesità rappresenta la tristezza. Questo si è visto anche durante il casting: la maggior parte delle donne che abbiamo incontrato avevano disturbi alimentari causati dalla depressione. Le persone obese sono spesso vittime di discriminazione e sono più sensibili verso i problemi degli altri. Infatti, molte delle donne che si sono presentate al casting lavoravano nel sociale. Credo che se arrivassimo a comprendere la molteplice natura della realtà, potremmo riuscire a dare meno importanza all’aspetto esteriore degli altri e allo stesso tempo accettare noi stessi con più facilità. Questo è quello che accade alla protagonista del film». (Ágnes Kocsis)

Non ricordo esattamente su quale sito o blog avevo preso lo stralcio di intervista riportato qui sopra. È passato troppo tempo. Nemmeno ricordo se fosse già in italiano o se quella che avete appena letto fosse una mia traduzione. Spiace non poter citare la fonte, ma tutto sommato credo che indicare il nome di chi quelle parole le aveva pronunciate in origine sia sufficiente.
È passato un po’ di tempo, come dicevo, dalla visione di questo film ungherese presentato nella sezione “Un Certain Regard” al Festival di Cannes 2010 (almeno un anno, se la mia memoria non fa cilecca), eppure già allora sapevo, e avevo già deciso, che prima o poi avrebbe fatto parte del progetto “Invisibili”, sebbene a quel tempo “Invisibili” non fosse ancora partito.
Troppo facile, direte voi, e quasi ovvio rivolgere lo sguardo a uno dei problemi di salute pubblica più diffusi di questo secolo. Alimentazione scorretta e vita sedentaria sono oggi ormai quasi la regola, spesso a causa di ambienti di lavoro stressanti e competitivi che assorbono la quasi totalità delle giornate, ore dei pasti incluse. E così si finisce per consumare ciò che il poco tempo concede, in un trionfo di grassi e carboidrati senza precedenti. È esattamente il caso di Piroska (Eva Gabor), una giovanissima infermiera impiegata in un reparto per malati terminali a Budapest.

Un ambiente allucinante che si stenta a credere possa da qualche parte esistere davvero. Non me ne intendo moltissimo di ospedali, per carità, ma qui stiamo parlando di una vera anticamera dell’inferno, una sorta di metallico contenitore dove i pazienti vengono rinchiusi, abbandonati e dimenticati, in attesa del triplice fischio finale.
Il lavoro di Piroska è particolarmente assurdo: sola in una stanza vuota, con le pareti tappezzate da decine di monitor affiancati l’un l’altro, Piroska non deve far altro che guardarli. Tutto il giorno, o quasi. Ingannando magari il tempo con qualche panino o una fetta di torta.
E quando uno dei monitor cambia di stato, allora Piroska deve alzarsi, trascinare una gelida barella per altrettanto gelide corsie, su e giù per inquietanti ascensori fino alla sporca ultima meta dello sfortunato ex-paziente di turno: la cella frigorifera.
Lavoro apparentemente semplicissimo, quello di Piroska, che tuttavia non viene quasi mai svolto nel più impeccabile dei modi. Ma d’altra parte, chi se ne importa? O meglio, cosa può mai importare a una ragazza la cui esistenza è così dannatamente simile a quella, grigia e priva di speranza, dei suoi anonimi malati terminali? Non del tutto anonimi, in verità, come vedremo più avanti.

La vita di Piroska procede miseramente, tra un lavoro alienante e la speranza ormai crollata di poter vivere un’esistenza normale, impegnata magari in una relazione normale con una persona normale. Ma a livello psicologico, è noto, l’obesità può stravolgerti completamente la vita: chi è obeso non solo viene sistematicamente isolato, ma viene portato a rifiutare, come conseguenza, qualunque tipo di socialità. Piroska rappresenta lo stadio finale di questa condizione: una donna priva di una benché minima espressione facciale; nessun muscolo tradisce l’esistenza di un suo mondo interiore. Piroska mangia, lavora, mangia, dorme, si sveglia nel cuore della notte, apre il frigo, mangia, si siede immobile su una sedia, fissa il muro e mangia. Incredibilmente, in tutto questo Piroska non è sola: si è pure trovata un marito, che però sembra del tutto incapace o indesideroso di penetrare la cappa di apatia che avvolge il suo matrimonio, limitandosi a vaghi e poco convinti rimproveri alla bulimia di sua moglie.
Ma noi spettatori, paradossalmente, non proviamo alcun tipo di simpatia per Piroska. Quasi comprendiamo l’atteggiamento disfattista e sempre più irritato del marito, che si trova a vivere con una persona completamente bruciata, che da tempo ha ormai rinunciato anche alla dignità.
La vita trascorre e Piroska semplicemente la guarda passare con sguardo catatonico, rinunciatario. Ágnes Kocsis, la regista, è stata bravissima a ritrarre la sua protagonista: inquadrature strette sul viso, immobile, colto a fissare qualcosa che non ci è dato di sapere, primi piani della durata di interi minuti mentre fuori campo la vita passa.

Quando un giorno nel suo reparto viene ricoverata una paziente, non più anonima, questa volta, ma con lo stesso nome, Pál Adrienn, di una sua compagna di scuola delle elementari, qualcosa nella mente di Piroska scatta. Il ricordo dell'amica d'infanzia la riporta alla sua infanzia felice, quando aveva degli amici, quando aveva ancora dei sogni, quando forse non era ancora grassa. Lentamente una rinnovata speranza si fa largo nel suo mondo, e finalmente ne vediamo il riflesso in fondo ai suoi occhi. A casa, suo marito non sa come interpretare il crescente tumulto di Piroska, fa le valigie e se ne va, lasciandole solo un freddo quanto vigliacco messaggio di addio. Non tutto il male viene sempre per nuocere, però, visto che adesso Piroska ha tutto il tempo per perseguire il suo nuovo scopo: quello di rintracciare l’amica d'infanzia perduta, senza lasciare traccia, tanti anni prima.

E qui entriamo nel vivo di quel secondo livello citato in apertura, quello che “riguarda il modo con cui lavora la memoria, che è relativo e soggettivo.” Se devo essere onesto, è proprio questo secondo livello che mi ha convinto a scrivere questo articolo. L’obesità, siamo tutti d’accordo, è un tema importante che tuttavia è stato affrontato in mille altre occasioni, con risultati spesso migliori. La memoria dell’infanzia perduta è invece molto più rara da vedersi al cinema, specialmente se in quella memoria ci sono più lacune che altro; come nel caso di Piroska, i cui pochi ricordi sono tutti riposti in una vecchia valigia di foto ingiallite. Non credo di allontanarmi troppo dalla verità dicendo che è così per tutti noi che siamo di gran lunga entrati negli “anta”.

Ma quanto sono veritieri quei ricordi, è la domanda che Ágnes Kocsis ci costringe a porci? Non è che magari, azzardo un’ipotesi, quei ricordi non sono altro che desideri che avremmo voluto vedere avverarsi e che nel corso dei decenni si sono confusi con la realtà? Alzi la mano chi tra di voi non ha provato un’amara delusione nel rivedere i volti dei vecchi compagni di scuola su Facebook. Sono quelle le persone che ricordavate o sono semplicemente l’espressione idealizzata di una perduta gioventù?
Piroska, con una piccola luce di speranza negli occhi, si lancia sulle tracce di ex compagni di scuola ed insegnanti, forse per ritrovare se stessa, forse per recuperare purezza, o forse solo per capire quale sia stato, a un certo imprecisato punto della vita, il suo errore. In quel momento neppure l'abbandono da parte del suo uomo, squallido e impersonale com'è, sembra scalfirla, è semmai una ragione in più per impegnarsi a ritrovare l'amica di un tempo.

La ricerca del proprio passato non è ovviamente impresa facile. Molti nemmeno ricordano l’esistenza di una Pál Adrienn nella loro giovinezza. Nemmeno si ricordano di Piroska, per dirla tutta. Chi tra loro invece se ne ricorda, non conserva però di Pál Adrienn la stessa candida immagine che affiora dalle descrizioni di Piroska. E il dubbio che le due fossero davvero state amiche affiora con rapidità. Che cosa sono dunque i ricordi? Fotogrammi di un momento remoto, scattati e conservati con lucidità, oppure fantasie elaborate nel corso del tempo? Tutto sembra quindi accentuare quel “sense of doubt” inizialmente solo accennato. È esistita veramente quella ragazzina o il suo ricordo appartiene solo a Piroska? E ancora: esiste davvero un passato? A pensarci bene, in fondo non ha questa grande importanza.

Visivamente, “Pál Adrienn” è un esempio di cura e attenzione per i dettagli al limite dell’ossessivo. Tutto sembra realizzato per costruire un senso estremo di oppressione, un interminabile calvario di 136 minuti. E in questo la Kocsis riesce benissimo: tutti gli ambienti, dal salotto domestico alle corsie d’ospedale, sono sbiancati al limite del sopportabile, appiattendo drammaticamente la fotografia. Anche gli ambienti esterni, come quella stazione ferroviaria di campagna, nel buco del culo dell'Ungheria, si adeguano alla regola. E la nostra protagonista? Nel suo cammino verso la verità continua a mostrarsi priva di espressione; quella piccola luce di speranza riusciamo a intuirla noi perché ci aspettiamo umanamente che sia così, ma ancora una volta nessun muscolo la tradisce. Piroska trascina la sua vita, lentamente e dolorosamente, finché non giunge per lei il momento di richiudere quella valigia di cartone e seppellire per sempre quei ricordi.

6 commenti:

  1. La questione dell'"idealizzazione" dei ricordi mi trova pienamente concorde. Io dispongo di una buona memoria, perciò quando qualcuno mi parla di un certo evento di ...nti anni prima in cui io ero presente mi sorprendo a constatare come spesso le due versioni del ricordo non coincidano affatto (e ci può stare) ma soprattutto come quasi sempre l'interlocutore abbia in mente sensazioni di "divertimento" che nei miei ricordi non ci sono affatto, anzi, io magari rammento una reciproca noia...

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    1. Ho perso di vista tutti i miei compagni di scuola praticamente il giorno dopo il diploma, per cui un confronto mi è praticamente impossibile. Ho solo notato, ma questo credo sia capitato a tutti, un'orrenda freddezza reciproca nel momento in cui sono finito per caso sui profili Facebook di alcuni di loro. Evidentemente ciascuno (me compreso) preferisce mantenere i ricordi incorrotti...

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  2. Beh, quello dell'"Idealizzazione del passato" in particolare dell'infanzia è un tema interessante e sempre più attuale. Mi capita spesso di ripensare ad eventi e a persone del passato e mi capita sempre di più di di notare come i miei ricordi non coincidano con quelli di mia sorella o dei miei cugini con cui sono quasi coetaneo. In uno degli episodi dell'ultima stagione di "X-Files" si parlava proprio di questo fenomeno unendolo al concetto degli universi paralleli. E' una risposta come un'altra anche se temo che la vera risposta sia solo nel fatto che tendiamo troppo a mitizzare la nostra infanzia.

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    1. Ecco, quella degli universi paralleli potrebbe essere una bella spiegazione. Se verificata, significherebbe però che, nel corso di una stessa esistenza, è possibile trasferirsi da un universo all'altro.

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  3. Io amo questo tipo di film. Mi piace quella piattezza della fotografia, l'assenza del ritmo, il silenzio. Mi piace tutto questo perché il "ritmo" interno del racconto si trae da tutt'altro che dai soliti elementi. Sono quei film in cui, chi apprezza, può fare un'immersione totale.
    Ho visto il trailer, mi piacerebbe vederlo tutto.
    La tua descrizione credo colga il senso di questo racconto. Del resto, non c'è vitalità della protagonista se non nel ricordo, non c'è dinamismo se non nella ricerca o nel recupero di quella lei del passato, attraverso il ricordo dell'amica perduta.
    Bello, grazie per questo post.

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    1. L'unico appunto che, in generale, è stato fatto a questo film è la sua eccessiva lunghezza, e di ciò sono d'accordo solo in parte. Tempi lunghi possono effettivamente sembrare, specialmente da parte di alcuni registi, un inutile esibizionismo, ma credo che se il film fosse durato la classica ora e mezza molte delle sensazioni di disagio, che sono poi la vera anima di Pál Adrienn, si sarebbero perse nel nulla.

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