lunedì 19 ottobre 2020

Cent'anni di ordinaria follia

Quando arrivai a Los Angeles trovai un alberghetto a buon mercato in una traversa di Hoover Street e rimasi a letto a bere. Ci rimasi per un po’, tre o quattro giorni. Non riuscivo a decidermi a dare un’occhiata alle offerte di lavoro. Non sopportavo l’idea di sedermi davanti a un uomo dietro una scrivania e dirgli che volevo un lavoro, che avevo i requisiti necessari. La vita mi faceva semplicemente orrore. Ero terrorizzato da quello che bisognava fare solo per mangiare, dormire e mettersi addosso qualche straccio. Così restavo a letto a bere. Quando bevi, il mondo è sempre là fuori che ti aspetta, ma per un po’ almeno non ti prende alla gola. (Charles Bukowski, Factotum) 

Magari non ci crederete, ma in quel lontano giorno del 2011 in cui Obsidian Mirror vide la luce, il sottoscritto si prese un impegno: il giorno in cui il vecchio Henry Charles "Hank" Bukowski, se fosse vivo, avrebbe compiuto 100 anni, avrei dovuto dedicargli un post. Ebbene, quel giorno era lo scorso 16 agosto e il sottoscritto, come sempre distratto, se n’è accorto solo quando era ormai troppo tardi per rimediare. Avrei potuto, certo, buttarmi a capofitto nella scrittura quella stessa sera, con l'incombenza dello scoccare della mezzanotte a tormentare la mia creatività, ma ho deciso di rinunciare e di prendermela comoda. Il vecchio Buck, compagno di sbronze e di tante serate solitarie occupate dalla lettura dei suoi racconti e delle sue poesie, mi avrebbe certamente perdonato. 
Henry Chinaski, così era conosciuto il suo alter ego letterario, nacque ad Andernach, in Germania, il 16 agosto 1920. Sembra una frase di wikipedia (e in effetti lo è), ma è soprattutto la frase con cui si aprivano le prefazioni dei suoi libri, frase che ho imparato a memoria, avendone letti a decine tra la fine degli anni Ottanta e la metà dei Novanta, quando la mia vita si incanalò su binari diversi. Feci giusto in tempo a leggere “Pulp”, l’ultimo suo romanzo, scritto nell’anno della morte e uscito postumo, prima di dedicarmi ad altro. Non avrei mai pensato che da quel momento in avanti, a intervalli regolari, nuovi suoi titoli avrebbero continuato senza interruzione a uscire nelle librerie (prevalentemente raccolte di poesie rimaste inedite che qualche erede senza troppi scrupoli si era affrettato a trasformare in denaro contante), titoli che decisi però di ignorare, non senza un pizzico di rimpianto. 

Leggevo prevalentemente la sera a letto, nelle ultime ore di veglia, alla fioca luce di una lampadina, e sognavo quella vita maledetta e scombinata raccontata in quelle pagine, seppur mi fosse chiaro che era tutta sbagliata. Cercavo però di capire la logica, il punto d’incontro, tra un artista dallo smisurato talento, al quale era stata peraltro donata una lucidissima visione del mondo e degli esseri umani, e l’autodistruzione offerta dalla bottiglia. 
Trovai qualche bottiglia vuota in cucina e le riportai in drogheria per farmi dare i soldi del deposito. Trovai un bar sulla Avenue, entrai e ordinai una birra alla spina. C’erano un sacco di ubriaconi là dentro. […] Ogni tanto mi arrivava un’altra birra. Qualcuno stava offrendo da bere. Io bevevo. Poi guardai fuori. Era sera, era quasi notte. Le birre continuavano ad arrivare. […] Mi svegliai molto più tardi in uno scompartimento tappezzato di rosso dietro il bar. Mi alzai e mi guardai intorno. Se n’erano andati tutti. L’orologio faceva le tre e un quarto. Cercai di aprire la porta, era chiusa a chiave. Andai al bar, presi una bottiglia di birra, la aprii, tornai al mio posto e mi sedetti. Poi andai a prendere un sigaro e un sacchetto di patatine. Finii la birra, mi alzai, trovai una bottiglia di vodka, una di scotch e mi sedetti di nuovo […] Continuai a bere fino alle cinque del mattino. 
Cercavo di capire come fosse possibile, per uno come me cui era stato inculcato fin da bambino il mito del “posto fisso” e del risparmio, fottersene di tutto, mandare al diavolo tutto e tutti, sperperare nei cavalli quei quattro soldi guadagnati grazie a pochi e sporchi lavoretti saltuari e sopravvivere tranquillamente. Disgregazione personale, dissociazione sociale, disgusto esistenziale sono ciò che emerge dagli scritti di Bukowski. Niente di più. Era però affascinante tutto ciò e, in linea del tutto teorica, mi sarebbe piaciuto sperimentare la “vita sepolta” narrata dal vecchio zio Buck. Grazie al cielo non ero completamente pazzo: non volevo alcolizzarmi, non intendevo vivere per strada, non tenevo alla compagnia di vecchie battone sdentate. Decisi così di limitare le mie sperimentazioni a poche cose, tipo qualche bicchiere di Martini la sera prima di coricarmi, qualche lavoretto malpagato (in questo caso in realtà non avevo molta scelta) e l’assistere a qualche corsa di cavalli. La sera, accolto nuovamente dal tepore della mia casa, e riflettendo su quanto mi era capitato, non potevo che essere felice di quella vita normale. 
Fui svegliato verso le sei di sera, da mia madre. “È tornato tuo padre”. Mi alzai e cominciai a vestirmi. La cena era pronta in tavola quando entrai nella stanza. Mio padre era un uomo grande e grosso […] “Senti”, disse, “se ti fermi ti metterò fuori il conto, vitto e alloggio e anche la lavanderia. Quando avrai un lavoro, detrarremo dallo stipendio quello che ci devi finché non avrai saldato il debito”. Mangiammo in silenzio. Mia madre aveva trovato un lavoro. Doveva cominciare la mattina dopo. Così avevo la casa tutta per me. Dopo colazione e dopo che i miei genitori furino usciti per andare al lavoro mi svestii e tornai a letto. […] Non avevo nessuna voglia di trovarmi un lavoro. […]. Stavo bene, non era una situazione tormentosa. Ascoltai un po’ di musica sinfonica, fumando le sigarette di mio padre. […] Alla fine di masturbai ancora. 
Ai lavori malpagati avevo già rinunciato da tempo. Sul finire degli anni Ottanta trovai il sospirato lavoro fisso e abbandonai per sempre le cooperative, che non avevano altro da proporre se non sostituire in via temporanea un magazziniere che si era infortunato, quando andava bene, o vagare per le strade nelle mattine d’inverno a infilare volantini di Tecnocasa nelle caselle della posta di paesi lontani cento chilometri. Quando ripenso a quel periodo, e non lo faccio mai con nostalgia, mi rendo conto di quanto vicino io sia stato a certi scenari descritti da Bukowski in romanzi come “Factotum” o “Post Office”. Ho incontrato una fauna umana a dir poco bizzarra, gente sporca dedita a chissà quali attività illecite, disperati senza una sola possibilità di venir fuori da quell’incubo. Se i miei genitori fossero venuti a conoscenza anche solo di un decimo delle situazioni assurde nelle quali mi sono ritrovato, mi avrebbero certamente rinchiuso in casa a vita. Eppure, a me sembrava perfettamente logico, a diciott’anni, riuscire a mettermi in tasca qualche diecimila lire in più in maniera del tutto autonoma. E non avevo nemmeno idea, a quel tempo, che potessero esistere lavori diversi da quelli che apparivano nelle colonne di “Secondamano”. 
Lavori del genere stancano gli uomini. Di una stanchezza che va al di là della fatica fisica. […] Lavorai per parecchie settimane. Tutte le sere arrivavo sbronzo. Non mi importava; avevo un lavoro che nessuno voleva. Dopo un’ora al forno mi passava la sbornia. Avevo le mani bruciacchiate e coperte di piaghe. Tutti i giorni sedevo dolorante nella mia stanza a pungere le piaghe con spilli sterilizzati con un fiammifero. Una sera arrivai più ubriaco del solito. Mi rifiutati di timbrare il cartellino. “Ne ho abbastanza”, dissi. Il Folletto era traumatizzato. “Come faremo senza di te, Chinaski?”. “Bah”. 
Quando finalmente mi fui assicurato lo stipendio alla fine del mese (non altissimo, per carità, ma quantomeno sicuro), mi regalai tutti i libri di Bukowski che non avevo. Tantissimi, come ebbi modo di scoprire. E una volta terminati quelli, su consiglio dello stesso zio Buck passai a Henry Miller, a Céline e a John Fante. Ormai il mio luogo di lettura canonico era diventato il micidiale tram della linea 14, che collegava Cadorna con Certosa, e le due linee di metropolitana che mi occorrevano per raggiungerlo. Un’odissea infinita attraverso il capoluogo lombardo, che tuttavia mi permise di leggere intere catene montuose di libri. E il fine settimana non era da meno. 
Avevo ai tempi questo amico, anche lui irrimediabilmente incagliato con Bukowski, con il quale nel weekend trascorrevo le sere d’estate (e a volte anche i pomeriggi) all’ippodromo di San Siro. Il vecchio Buck lo diceva sempre che “nessuno si è mai realizzato con i cavalli”, ma volevamo verificare questa cosa di persona. Arrivai a conoscere tutti i trucchi del mestiere: leggevo avidamente quotidiani specialistici come “Cavalli e corse”, riconoscevo i cavalli quando li vedevo, sapevo da quali scuderie era consigliabile stare alla larga e conoscevo ormai perfettamente il gergo dello scommettitore (ebbene sì, esiste un gergo con il quale esprimersi). Iniziai ad andarci anche da solo, quando il mio amico non poteva (cosa, la solitudine, che tra l’atro lo zio Buck raccomandava). Un giorno magari potrei approfondire la questione in un post dedicato, raccontando anche di come me ne tirai fuori quando mi accorsi di quanto i cavalli fossero in grado di creare dipendenza. Mi resta però un pizzico di nostalgia per quelle ore solitarie all’ippodromo del trotto, con un libro (non necessariamente di Bukowski) a farmi compagnia tra una corsa e l’altra. Difficile illustrare in parole quei momenti. Quel mio amico invece non lo rimpiango. Non l’ho mai più visto, ma credo abbia continuato su quella strada per molti anni ancora. 
L’uomo si voltò a guardare Katherine. “Ce l’ho fatta”, disse. “100 dollari vincente”. Katherine non rispose. Cominciava a capire. Quelli che vincevano non la menavano tanto. Avevano paura di venire assassinati nel parcheggio. Dopo la quarta corsa, col vincitore che pagò 22 dollari e 80, l’uomo si voltò ancora e disse a Katherine “Ce l’ho fatta un’altra volta…”. Katherine distolse gli occhi. “Ha la faccia gialla, Hank”. Hai visto che occhi? È malato”. “È malato di sogni. Siamo tutti malati di sogni, ecco perché siamo qui”. 
Non c’era nulla di male, credo, a essere malato di sogni. Il fatto era che i miei sogni non corrispondevano a quelli degli altri: il mio sogno era quello di correr dietro a quella “specie di fantasma-amore-felicità” invocato altrove dallo zio Buck, ed era pressoché impossibile che ciò si potesse avverare in un ippodromo. Per Bukowski il sogno rappresentava invece qualcosa di universale, ovvero una promessa non mantenuta, quella del sogno americano, secondo il quale la felicità si può raggiungere attraverso la determinazione. 
Ma nello squallore delle Los Angeles, delle Chicago e delle New York non c’è mai stato spazio per quel sogno, e ciò che Charles Bukowski ha conosciuto (gli angoli più invisibili delle periferie, i bar malfamati, le pensioni da pochi dollari, i volti dei disperati, dei papponi e delle prostitute) sarebbe la prova che milioni di americani hanno abboccato per anni all’amo del capitalismo. E continuano a farlo. 
In questo scenario Bukowski rappresenta però un’eccezione, quella di un uomo che ha raggiunto l’immortalità cercandola ad ogni costo, perseverando, rinunciando a quel posto ormai sicuro alle poste e rimettendosi a scrivere nel momento in cui chiunque altro avrebbe rinunciato per sopraggiunti limiti di età. 
Stroncato dalla leucemia, Henry Charles "Hank" Bukowski muore nella primavera del 1994 lasciandoci un’eredità incredibile. Come ebbe a scrivere Beniamino Placido, uno dei primi ad accorgersi in Italia della potenza narrativa di questo sconosciuto americano, “Bukowski non è soltanto un vagabondo, è un vagabondo che scrive. Non è soltanto un senza-lavoro, è un senza-lavoro che scrive. Non è soltanto un disperato, è un disperato che scrive e che descrive la disperazione sua e quella degli altri. Ma mentre quella degli altri rimane irredenta, la disperazione sua risulta riscattata alla fine della sua scrittura, e oggi anche dal successo”. 
Los Angeles mi veniva incontro, i messicani e gli indios russavano io contemplavo quelle gambe illuminate dalla luna e l’ascoltavo parlare alla sua bambola. Cosa si sarebbe aspettato da me, adesso, il grande redattore? Cos’avrebbe fatto Hemingway al mio posto? E Dos Passos? E Tom Wolfe? Creeley? Ezra? […] Venne il grande momento. Posai la macchina per scrivere sulla scrivania, infilai un foglio e mi misi a battere sui tasti. La macchina funzionava ancora. E c’era un sacco di spazio per il portacenere, la radio e la bottiglia. Se ve la raccontano diversa non credeteci. La vita comincia a 65 anni.

Chiudo questo articolo odierno per ringraziare gli amici Cassidy e Lucius Etruscus per avermi dato supportato oggi con questa mia piccola iniziativa. I loro contributi alla perpetuazione della memoria bukowskiana sono naturalmente preziosissimi e, senza trattenervi oltre, non posso far altro che invitarvi a cliccare sena indugio sui link ai loro rispettivi blog, rispettivamente, come immagino ormai sappiate fin troppo bene, Bara Volante e Zinefilo

24 commenti:

  1. Ti ringrazio per avermi coinvolto nell'iniziativa, ma certo il povero Hank oggi si è visto festeggiare da uno come me, che non ha mai letto nulla di suo e che non ama i film da lui ispirati! :-D

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    1. C'è sempre un tempo in cui si può iniziare a leggere Bukowski, nel senso che non c'è una regola che dice "se l'hai fatto quando potevi farlo allora non farlo mai più". E poi ho una mezza idea che potrebbe piacerti: a mio parere l'ironia dei suoi personaggi è molto simile a quella di Philip Marlowe...
      PS: Lascia perdere i film. Non sono indicativi.

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  2. Devo ammettere di non conoscere l'opera di Bukowski, mentre della sua vita conosco soprattutto il suo rapporto con l'alcool.

    Ho vissuto negli Stati Uniti, però, e mi sono fatta una mia idea del sogno americano. Tanto per incominciare non vivevo nei quartieri bene di una grande città, bensì in un posto dimenticato da Dio e dall'uomo in mezzo al deserto dove i disperati non mancavano. Ebbene, io non ho mai creduto nella felicità, quindi per me il sogno americano non è mai esistito. Riconosco, però, l'importanza di inculcare il senso della determinazione nelle persone perché è un'arma che può davvero aiutarti a migliorare la tua esistenza. E ho conosciuto persone che sono riuscite a sollevarsi dalla disperazione attraverso la determinazione.

    Certo non dovrebbe essere l'unica arma a tua disposizione, ma è quella che ti permette di andare avanti anche dopo che le cose sono cambiate, quando cambiano, che ti permette di non ricadere.

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    1. Non ci ho vissuto, ma negli Stati Uniti ci sono andato abbastanza spesso, per svago o per lavoro. La mia impressione è che il sogno americano sia appunto solo un sogno a cui pare credano ancora in molti, non accorgendosi del burattinaio che gli racconta la solita storiella dai tempi della guerra di'indipendenza.
      I disperati non mancano, specie nelle grandi città (ho ricordi di NY, SF e LA da non dormirci la notte), ma il vero problema sono quelli che sono disperati ma non se ne rendono conto, quelli che nemmeno si accorgono che c'è qualcosa oltre il vialetto del proprio giardino. Ma è anche vero che pure noi siano così. La determinazione consente la felicità? Forse si, ma si potrebbe dire lo stesso del denaro che genera potere che genera altro denaro... e che alla fine genera una specie di fantasma-amore-felicità...

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  3. Come ben sai di quel tipo di lavoretti dei quali parla Bukowski e dei quali parli anche tu, ho avuto esperienza in anni recenti e come ti dissi in una delle nostre conversazioni telefoniche non augurerei nemmeno al mio peggior nemico.... però ti voglio raccontare un fatto, chemagari non c'entrerà niente col post odierno ma che permetterà anche a modo mio di ricordare Mr. Henry Charles "Hank" Bukowski. Una decina di anni fa un blogger (non so dirti se sia ancora in attività) che però faceva anche lo scrittore stanco dei continui rifiuti da parte degli editor delle grosse case editrici tentò un esperimento del quale poi parlò anche sul suo sito. Prese un romanzo di Bukowski, gli cambiò solo il titolo, copio -incollò il testo e lo mandò in giro alle varie CE. Dopo un poco cominciarono ad arrivargli alcune lettere di rifiuto, una più velenosa dell'altra. la cosa più gentile che gli fu detta è che scriveva malissimo, che erano tutte schifezze. Ovviamente a quel punto il blogger gli mandò il testo di Bukowski col suo vero titolo chiedendogli che tipo di esperienze avessero mai fatto per non essersene resi conto della provenienza e della paternità dello scritto. Da quello che so io (ma potrei non esserne completamente informato) non nessuno gli rispose.

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    1. Non mi stupisce l'aneddoto che hai riportato. La scrittura di Bukowski fa a molti questo effetto. A differenza dei vari Henry Miller, Céline e John Fante (mi ricollego a quegli esempi citati nel post) le cui opere sono molto descrittive, i testi di Bukowski sono prevalentemente dialoghi, scambi rapidi di battute tra individui della stessa risma. Non perde tempo con le introspezioni, non ti racconta com'è fatto il boccale di birra che ha davanti. Ed è chiaro come sia possibile recepire tutto questo come i deliri di un ubriaco, cosa che in effetti Bukowski il più delle volte era. La sua grandezza è stata però proprio quella: riuscire a coltivare il sogno scrivere nonostante un'esistenza tutt'altro che agiata.

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  4. Mi hai fatto venire voglia di recuperare le sue opere.
    In verità ho letto una sua raccolta di racconti, ed all'epoca non mi ha lasciato molto, ma secondo me, non ho avuto il giusto approccio alle sue tematiche.

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    1. Si, è possibile che sia stata anche una questione di approccio. Non saprei, i motivi possono essere tanti. I titoli che suggerisco in genere sono quei tre le cui copertine ho postato nell'articolo. Quelli sono i giusti punti di partenza. Non occorre leggerli tutti... basterebbe anche leggere una ventina di pagine da uno qualunque di quelli e si capisce subito se amarlo o se odiarlo.

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    2. Come scrivevo poco fa, non serve leggere tutto, e non è nemmeno possibile dire quali siano le cose "giuste" da leggere. Basta un assaggio per farsi un'idea. Non è nemmeno necessario iniziare un libro dall'inizio: basta aprire una pagina a caso e iniziare a leggere da lì. Io ho iniziato da "Storie di ordinaria follia" solo perché era il titolo più famoso, non per una particolare ragione. Grazie per aver partecipato a questa piccola ma intensa iniiativa!

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  5. Complimenti davvero per questo articolo così appassionato e intimo. Conosco abbastanza Bukowski e mi è sempre stato simpatico, grazie per averlo ricordato, complimenti ancora!

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    1. Ciao e benvenuta sul blog. Fa piacere sapere che c'è qualcuno a cui Bukowski non risulti ostico. Simpatico forse è eccessivo, visto che lui non ha fatto mai niente per cercare di esserlo. ^_^

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  6. Ho molto apprezzato le confessioni personali racchiuse in questo post.
    Di Bukowski devo dire che non ho mai letto nulla, la scintilla non è mai scattata. Il mio autore "maledetto" al quale un giorno dedicherò un post celebrativo è Michel Houellebecq.

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    1. Houellebecq è uno di quei nomi che mi incuriosiscono ma non abbastanza. Dovrei anche aver comprato (la mia lei, in realtà, non io) il suo romanzo più famoso ma, non so perché, non riesco a trovare la forza dal prelevare il libro dallo scaffale in cui riposa. Attendo di leggere il tuo post nella speranza di cambiare idea!

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  7. Mitico, grande omaggio.
    Bukowski ha davvero saputo descrivere una vita quotidiana, forse torbida, forse anche sporca, ma miseramente e semplicemente umana.
    Aveva questo sguardo. E sì, anche io mi chiedevo come fosse possibile fottersene di tutto e tutti, dei pilastri stessi della società (il post fisso e il resto che citi). E vivere comunque, e bene, e osannato.
    Perché forse aveva capito tutto. Filosofo metropolitano.

    Moz-

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    1. Quel "fottersene di tutto" era evidentemente figlio di un'adolescenza difficile, di quelle come ce ne sono tante, centinaia, milioni che rimangono nell'anonimato, che si perdono nel "mondezzaio della sconfitta". Bukowski aveva un sogno e lo ha inseguito sino all'ultimo con una fermezza inumana.

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  8. Bellissimo il tuo ultimo post...mi dispiace per quanto successo..ma sono felice che abbiate deciso di dare a Pierina dei mesi in più di vita...
    Un abbraccio ❤

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  9. Questo tuo post mi è molto piaciuto, mi ha incuriosito e mi piacerebbe saperne pure di più sui tuoi trascorsi similbukowsiani!

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    1. Verrai senz'altro accontentata. Prima o poi. Magari non subito. Quei vecchi episodi sono spunti perfetti per la rubrica Confessioni di una maschera.

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  10. Bellissimo questo post, soprattutto per l'intreccio tra riflessione letteraria e autobiografica che a me manda sempre in visibilio. Anch'io ho avuto una brevissima fase Bukowski, alla fine dei '70, condensata in un paio di volumi, "Storie di ordinaria follia" e forse "Taccuino di un vecchio sporcaccione" (ma potrebbe essere stato invece "Factotum"). E anch'io ho poi incontrato Henry Miller, che ho subito trovato più nelle mie corde.
    P.S. Personalmente amo anche il film con Gazzara e la Muti, che ho messo una volta, in un post del mio blog, nella lista dei miei preferiti degli anni '80. Almeno quanto detesto, sul lato Miller, "Giorni Felici a Clichy" di Chabrol, che conservo in filmoteca solo per la presenza, per me sempre magnetica, di Giuditta Del Vecchio.

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    1. Credo ci fosse, di "Taccuino di un vecchio sporcaccione", una primissima traduzione italiana tradotta come "Diario di un vecchio porco". Mi sono sempre chiesto 1) se me la sono sognata e 2) perché non hanno utilizzato quel titolo che, oltre a essere una traduzione più fedele dell'originale, mi pare più impattante.
      Però si, sono quelli i titoli da cui uno di solito inizia. La trasposizione filmica a cui fai riferimento è una quelle di cui si dimentica facilmente. Peccato.
      Quel Chabrol non l'ho visto ma cercherò di recuperarlo, giusto per provare a capire le ragioni del tuo odio! ^_^

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    2. Probabilmente il film di Ferreri a me piace perché non sono un Bukowskiano stretto, mentre il film di Chabrol lo detesto perché sono invece un Milleriano stretto.

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    3. Il ragionamento non fa una grinza...

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