Se c'è un luogo dove la paura sta di casa, quello è quasi certamente un hotel. Ne sono la prova i numerosi film e romanzi ambientati nelle stanze di grandi alberghi pluristellati, nei lunghi e stranianti corridoi tutti uguali, nelle ampie hall che fungono da disimpegno tra il mondo reale e un mondo "asettico", pieno di comodità e servizi assolutamente inutili e buono solo per trascorrevi poche ore la notte, spesso quando si è talmente stanchi da non aver la forza di leggere nemmeno due pagine di un libro prima di spegnere la luce.
A causa del mio lavoro giro abbastanza spesso per quel tipo di alberghi. O almeno lo facevo prima che viaggiare diventasse, come lo è ultimamente, un problema. Non che mi stia lamentando, anzi: non ho mai amato più di tanto trascinare queste mie quattro vecchie ossa in giro per il mondo, specialmente da solo. Non mi piacciono le lunghe attese negli aeroporti, non mi piace essere costretto a correre per non perdere una coincidenza, e non mi piace dormire negli alberghi. Ammetto di non essermi mai trovato veramente a mio agio in quei luoghi, tutti così noiosamente identici a prescindere dal paese in cui ci si trova. Luoghi che paiono anticamere dell'Inferno, in cui regna indisturbata la solitudine.
Quello che da un bel po' non posso fare a meno di notare è lo stacco improvviso tra due realtà diametralmente opposte, quella del vociare inarrestabile dei clienti e quella del silenzio più totale. La soglia, o lo stargate come mi pare più opportuno definirlo, è l’ascensore.
Non è importante quanta gente ci sia nella hall o al bar dell'albergo: quando la sera si decide di averne abbastanza di chiacchere e di birre ci si infila in quel contenitore metallico, si preme un pulsante ed ecco che, con la chiusura delle porte, tutto il mondo di fuori si cancella come una lavagna. Lo sbarco al piano è altrettanto angosciante: corridoi infiniti sia a destra che a sinistra, lunghi tappeti dai disegni romboidali da affrontare fino alla propria camera, inevitabilmente quella più lontana, raggiungibile dopo una serie infinita di svolte su altri corridoi. Mai una volta che si riesca a incrociare qualcuno, né di giorno né di notte, e tutto sommato questo particolare potrebbe non essere del tutto negativo.
Parlavo di film e romanzi all'inizio, e di sicuro vi sarà venuto in mente Shining, ma il mio grande avversario ha tutta un'altra origine. Non è un caso se queste mie paure hanno cominciato a manifestarsi ancora più prepotentemente dopo aver scritto i due speciali su Elisa Lam e su Kenneka Jenkins, due esempi perfetti di come la realtà sia in grado di travalicare abbondantemente ogni fantasia.
Non dimentichiamo inoltre che i grandi alberghi, per quanto moderni e lussuosi siano, convivono con l’oscuro mondo delle superstizioni. È ormai noto il particolare dell’assenza del pulsante numero tredici all’interno degli ascensori americani (corrispondente al numero quattro negli alberghi orientali), originato da una paura irragionevole del numero 13 (tecnicamente si chiama “triscaidecafobia”), il numero maledetto che corrisponde al numero dei commensali durante l’ultima cena.
C’è una superstizione, meno nota ma altrettanto inquietante, anche all’origine di “The Elvis Room”, l’avvincente racconto di Stephen Graham Jones (“This Is Horror,” 2014) che mi ha fornito lo spunto per questo articolo. La “Elvis Room”, come è facile intuire, deve il suo nome al re del rock, e sarebbe praticamente la stanza che tutti gli alberghi lasciano sfitta in vista della remota possibilità che una celebrity si presenti in reception all’ultimo momento senza prenotazione.
Non è chiaro se Elvis Presley fosse davvero uno che non prenotava mai, ma è evidente che per un albergatore l’ipotesi di dover allontanare per mancanza di camere un personaggio importante, dalla piccola star del momento fino al presidente degli Stati Uniti, possa essere davvero un’esperienza spiacevole. Per inciso mi piacerebbe sapere, nel caso ci fosse un albergatore fra i miei lettori, se una simile consuetudine esiste veramente o se sia esclusivamente frutto della fantasia dell’autore.
La tradizione legata alla “Elvis Room” non è inquietante in sé: ciò che è inquietante è il vero motivo che nessun albergatore verrà mai a raccontarvi, e cioè che esiste una superstizione secondo la quale, nell’ipotesi che anche l’ultima stanza dovesse venire malauguratamente assegnata, in quell’hotel qualcuno, la mattina successiva, verrà trovato cadavere. Non necessariamente, è opportuno precisare, sarà l’occupante della “Elvis Room” a uscire coi piedi in avanti: la maledizione, o qualunque nome vogliate dargli, colpisce assolutamente caso, e a farne le spese potrebbe essere davvero chiunque (anche voi, se avete la sfiga di essere ignari ospiti della struttura in quella stessa famigerata notte).
Non posso davvero raccontare altro, perché il racconto (o il chapbook, come viene definito sul sito dell’editore) di Stephen Graham Jones, secondo il metodo di conteggio di Amazon, non è più lungo di una quarantina di pagine. Quaranta pagine che per certi versi portano la mente a quelle classiche storie vittoriane di fantasmi, sebbene qui l’ambientazione sia del tutto diversa. Mi sentirei di consigliarvi di investire 3 euro per l’ebook, anche se l’ostacolo dell’inglese potrebbe sembrarvi insormontabile; il linguaggio di Stephen Graham Jones è particolarmente ricercato, e ciò evidentemente per sottolineare il background accademico del protagonista.
Stephen Graham Jones è un nativo americano, autore di narrativa horror con all’attivo quindici romanzi e numerose raccolte di racconti. Vincitore del Bram Stoker Award con il romanzo “Mapping the interior” (2017), trofeo che ha sfiorato per un soffio in altre tre occasioni, Graham Jones è stato tre volte finalista dello Shirley Jackson Award, finalista del Black Quill Award, finalista dell'International Horror Guild, finalista del Colorado Book Award, Texas Monthly Book Selection, e ha vinto il Texas Institute of Letters Award, nella categoria Fiction, e l'Independent Publishers Award for Multicultural Fiction. L’ultima sua fatica è “The Only Good Indians”, pubblicata per la Saga Press l’estate scorsa.
Le immagini che vedete a corredo di questo articolo sono estratte da “The Elvis Room”, trasposizione cinematografica datata 2016 con Bailey Noble (Martyrs, True Blood), Spencer Lock (Insidious: the last key), Keir Gilchrist |(It follows) e Corbin Bernsen (The Dentist). La regia è affidata a Andrew Schwarz, noto per essere stato assistente di produzione nel remake de “L’ultima casa a sinistra” (2009). Se siete curiosi, potete gustarvi il cortometraggio integralmente (“The Elvis Room” dura solo 22 minuti) a questo link. Naturalmente ve lo beccate in inglese e senza sottotitoli. Ciò che vedete qui in basso è solo il trailer. Buona visione e buona lettura!
Considerato che in vacanza ho l'abitudine di soggiornare in albergo, proprio nei periodi più gettonati e quindi con tutte le stanze occupate... meglio che io non lo legga :-D
RispondiEliminaRicordo una volta che, sacramentando, sono riuscito a farmi consegnare una stanza in un fetentissimo tre stelle di Riccione che fino a pochi minuti prima non esisteva. Evidentemente ero riuscito ad ottenere la Elvis Room...
EliminaIL giorno successivo non mi pare però di aver visto movimenti sospetti di ambulanze nei paraggi.