mercoledì 15 settembre 2021

White: Melody of Death

Il tema della melodia maledetta non è affatto una novità, e mi viene quasi da dire che è vecchio quanto la musica stessa. Nonostante ciò il lato oscuro della musica è sempre affascinante e non sorprende che, a cadenze regolari, ritorni a entusiasmare tutti gli appassionati del bizzarro e dell’inspiegabile. 
Proviamo a fare un po’ di storia: capostipite di una lunga serie di melodie maledette è stata indiscutibilmente la celebre ballata "Gloomy Sunday" (Szomoru Vasarnap) che il compositore ungherese Rezso Seress scrisse in un momento di grande depressione. Il suo lavoro era in gran parte ignorato dall'industria musicale, la sua carriera era destinata al fallimento e la donna che amava lo aveva abbandonato. E così, seduto al pianoforte, perso nella disperazione, iniziò a pigiare oziosamente sui tasti e inciampò nella melodia che sarebbe diventata il suo capolavoro. Ma poi iniziarono i suicidi. A centinaia. I corpi di molti di essi furono trovati che ancora stringevano lo spartito della canzone, altri furono trovati con la melodia che saltava all'infinito su un giradischi. Tutti, in poche parole, si tolsero la vita lamentando di non riuscire a togliersi la canzone dalla testa. Leggenda metropolitana? Forse. 
Secondo, in quanto a fama, è il caso del musicista blues Robert Johnson, sul quale abbondano le voci circa il fatto che la sua popolarità fosse dovuta a un patto con il Diavolo (ne aveva anche parlato lo zio Nick qui tanto tempo fa). Il suo pezzo "Cross Road Blues", anche dopo la morte del suo autore, sembra continuare a lasciare dietro di sé una scia di sfiga inarrestabile, finendo per colpire, direttamente o indirettamente, tutti gli artisti che l’hanno suonato: Eric Clapton, Robert Plant, Kurt Cobain, la Allman Brothers Band e i Lynyrd Skynyrd sarebbero tra questi. 
Meno noto, perlomeno qui da noi in Occidente, è il caso del cantante pakistano Amanat Ali Khan, che all’inizio degli anni Settanta adattò una poesia del poeta Ibne Insha, canzone che portò a una rapida morte lui e la sua discendenza (e, per non lasciare nulla in sospeso, anche il poeta). 
Numerosi sono poi i casi di canzoni che avrebbero, in linea del tutto teorica, trascinato i giovani al suicidio (“Suicide solution” di Ozzy Osborne, per esempio), o di canzoni definite maledette perché in qualche modo avrebbero ispirato le azioni dei serial killer più disparati (il caso più celebre è “Helter Skelter” dei Beatles, ma anche “Exit” degli U2 e “Night Prowler” degli AC/DC), ma se ci mettiamo ad elencare anche tutti questi casi stiamo qui per due settimane. 

In tutto questo poteva il cinema rimanere a guardare? Certo che no, anche perché, è bene ricordarlo, il binomio musica-immagini è spesso alla base del successo di un film. E ciò è specialmente vero nel caso dell’horror, dove le melodie, abbinate alle immagini ma anche solo ascoltate, suggeriscono all’istante in tutti noi un terrore primordiale. Il motivo per cui soundtrack particolarmente ispirati, come quello dei Pink Floyd per “Zabrieskie Point” di Antonioni, portino con sé una fama sinistra è parte di questo meccanismo il più delle volte ingiustificato. 
Ma vediamo al punto, ovvero al cinema horror, che racconta storie dove la musica riveste un ruolo chiave. È il caso del nipponico “The suicide song” di Harada Masado (2007), dove un giornalista indaga su una leggenda metropolitana secondo la quale una misteriosa canzone porterebbe al suicidio tutti coloro che provano ad intonarla. È il caso del recente “The Sonata” di Andrew Desmond (2018), dove la figlia di un compositore misteriosamente scomparso (Rutger Hauer) si reca nella tenebrosa villa del padre e porta alla luce gli spartiti di una sonata per violino nella quale sono visibili delle strane annotazioni in inchiostro scarlatto. Si discosta un po’ dal genere, anche se non di molto, il coreano “Cello” (recensito qui), dove il suono aspro di un violoncello fa da sfondo a una storia tragica di invidia e morte o “Ring: Saishūshō” di Nao Matzusaki (un adattamento televisivo di Ring, recensito qui, dove il media maledetto è una clip musicale). Probabilmente gli esempi che potrei portare a supporto della mia tesi sono molti di più, ma mi fermo qui. 
Lasciatemi giusto citare il caso de “La canzone di Lisa”, un episodio della prima serie di Saranno Famosi nel quale Doris Schwartz (Valerie Lindsburg) viene posseduta dallo spirito di un'ex studentessa morta alla vigilia della prima di uno spettacolo musicale (tecnicamente “La canzone di Lisa” non è un horror ma, vi giuro, quando lo vidi da ragazzo ne fui terrorizzato a morte). 
L’episodio in questione è particolarmente interessante perché, spogliato delle coreografie e dei drammi personali, familiari e sentimentali tipici della serie, è perfettamente sovrapponibile a “White: the melody of death”, il film oggetto del post odierno. 

Qualcuno potrebbe giustamente obiettare che coreografie e drammi sono presenti anche in "White", ma qui va fatto un distinguo: se “Saranno famosi” era una scusa per parlare dei problemi reali della Generazione X (discriminazione razziale, consumo di stupefacenti ecc.), in “White” affrontiamo temi più attuali quali invidia, egocentrismo e, più in generale, desiderio sfrenato di un’affermazione sociale basata sul nulla cosmico. 
Vi sono ovviamente delle differenze: ne “La canzone di Lisa” la scuola decide di mettere in scena una produzione di "The Gypsy Queen", uno spettacolo teatrale scivolato nell’oblio per via di una vecchia quanto sinistra reputazione. Iniziano ovviamente a succedere cose strane a Doris, che è chiamata a interpretare la protagonista della commedia, ma la cosa si risolve felicemente: lo spettro della studentessa che anni prima non poté salire sul palcoscenico trova in Doris quella controparte terrena che l’aiuta a portare il suo sogno a compimento. In "White" alcune componenti di una band K-pop trovano una videocassetta con inciso una misterioso clip musicale libera da diritti di sorta e decidono di sfruttarla a fini commerciali. Lo spettro della vera autrice del brano non prenderà l’indebita sottrazione con umorismo. 

Spiegata così, la vicenda narrata da “White” appare un po’ misera, per cui forse è meglio partire dall’inizio: le Pink Dolls sono un gruppo pop femminile che non è mai arrivato alla ribalta nella scena musicale coreana. Sistematicamente altri gruppi finiscono sempre davanti a loro in tutte le classifiche, mentre pubblico e critica fanno a gara a chi riesce a mortificarle con maggior crudeltà. Il loro agente, palesando preoccupazione, propone al gruppo di trasferirsi in un alloggio più scrauso nell’ottica di tagliare le spese. Le ragazze traslocano quindi in un edificio ottenuto a buon mercato per via di un incendio occorso anni prima, e nel corso delle opere di ristrutturazione una delle ragazze trova dietro un pannello una vecchia VHS in cui un gruppo sconosciuto esegue “White”, un pezzo piacevole ed estremamente orecchiabile. Da una accurata ricerca il brano si rivela essere privo di diritti di sorta e, cogliendo la palla al balzo, le ragazze lo fanno proprio e lo lanciano sul mercato. Il successo è prevedibilmente immediato e “White” raggiunge in un attimo la cima delle classifiche. Ovviamente, poiché si tratta di un film dell'orrore, le ragazze non vivranno felici per sempre e presto, parallelamente alla forte pressione di un successo inaspettato, si scatenano gelosie e invidie, finendo per trascendere in un odio viscerale le une nei confronti delle altre. Contestualmente la maledizione inizia a colpirle una alla volta. 
I paragoni con Ring a questo punto già si sprecano, dal fantasma stesso (che neanche a dirlo, è il solito fantasma asiatico dalle lunghe chiome) fino al fatto che la canzone viene scoperta su una videocassetta. In realtà l'elemento horror è presente per quasi tutto il film solo marginalmente, passando gradualmente da una lieve tensione a quella un po’ più sostenuta man mano che la storia procede. Veri e propri momenti di terrore quasi non ce ne sono, ma quei pochi sono piuttosto efficaci, anche se per forza di cose non molto originali. 

I gemelli Kim Gok e Kim Sun, già celebri in patria per due thriller di notevole impatto (Gogal, 2008, e Bangdokpi, 2010), hanno scritto e diretto “White” con grande perizia, offrendo al pubblico, con la complicità del direttore della fotografia Sang-joon Kwon, un prodotto visivamente ineccepibile e con una magnifica caratterizzazione dei personaggi. I temi dell’invidia e dell’egocentrismo, citati in precedenza, unitamente a una precisa accusa nei confronti del problema sociale del cyberbullismo sono altresì ben sviluppati: all’inizio del film viene mostrata una serie incredibile di commenti offensivi lasciati da degli hater sul sito ufficiale delle Pink Dolls

Si tratta di un fenomeno che sta effettivamente comparendo ovunque, nella società in generale e nell’industria dell'intrattenimento in particolare, ma che è particolarmente energico in Corea del Sud, un paese afflitto da una serie di suicidi che da quindici anni a questa parte sta decimando lo star system; immagini controverse di star adolescenti, pubblicate sulla stampa ufficiale e sui social media ed esposte a commenti feroci, sono la parte visibile dell’iceberg, ma dietro le quinte vi è una collaudata struttura giornalistica che punta a distogliere l’attenzione del pubblico da altri temi, anche se ciò significa vomitare falsità e speculazioni addosso a dei ragazzini. Senza contare le pressioni imposte dalle case di produzione sui giovani talenti, molti dei quali sono stati addestrati fin da piccoli a diventare pop-idols (per molti il loro tempo sotto i riflettori è limitato e, se mai riescono a raggiungere lo status di star, al compimento dei vent'anni vengono considerati troppo anziani e sostituiti). “White: the melody of death” va interpretato soprattutto in questo senso. 



12 commenti:

  1. Quando si parla di musica maledetta al cinema a me viene in mente Paganini Horror. Tenterò di procurarmi questo White così da avere dei ricordi migliori in futuro.

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    1. Paganini horror è il fondo del barile. Qualunque altra cosa non può che essere una risalita!

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  2. Interessante, mi hai fatto venire voglia di vederlo ^_^ lo cercherò, la storia di gloomy sunday la conosco perché ne hanno parlato in molti e su youtube ci sono parecchi filmati che la raccontano

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    1. La leggenda di Gloomy Sunday è certamente la più famosa. Il pezzo in sé non è niente di speciale, piatto e noioso e non ha nulla che possa scatenare una qualsiasi reazione.

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  3. Il vero orrore è proprio nella conclusione del tuo post, che purtroppo è tremendamente vero. Negli ultimi mesi ho letto di due suicidi fra starlettes del k-pop (nonché di una protagonista di un reality giapponese, contesto purtroppo molto simile).
    Riguardo le canzoni maledette, credo che sia un'ottima idea per scrivere una fiction inquietante, ma dubito della sua possibilità reale.
    Però ammetto che probabilmente eviterei di cantarla ;-)

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    1. Il tema della canzone maledetta è ottimo è tutto sommato ancora non molto sfruttato. Varrebbe davvero la pena iniziare a scrivere fiction e vedere come reagisce il pubblico. Anche l'idea di scrivere una canzone e farla etichettare come maledetta potrebbe essere una buona strada per il successo (vedi l'esempio di certi film horror, più o meno recenti).

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  4. Avevo letto di alcuni suicidi nell'ambito degli artisti K- pop ignoravo però che si trattasse di un fenomeno così esteso.
    P.s
    Grazie per la citazione.

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    1. Ho scoperto questo fenomeno solo di recente, mentre mi documentavo per scrivere questo post. Nemmeno io pensavo fosse una tale piaga...

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  5. Un'amica mi ha "illuminato" sul dietro le quinte del k-pop ed è allucinante...
    Il film invece non lo conoscevo, ma i coreani li sto un po' perdendo di vista, ultimamente...

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    1. La cosa più allucinante è vedere migliaia di ragazzine che si affannano per un briciolo di celebrità che dura lo spazio di una stagione...

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  6. Aggiungerei come melodie maledette cinematografiche anche quella de "Le cinque chiavi del terrore" 1965, un prodotto Hammer, nell'episodio Vodoo un musicista riorchestra la musica ascoltata durante un rito vodoo e poi una entità oscura lo perseguiterà.

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    1. L'ho visto sicuramente (c'era anche Peter Cushing, no?), ma quell'episodio non lo ricordo proprio. Grazie per la precisazione. Ero sicuro che quelli da me citati non fossero gli unici ma una ricerca scrupolosa, per scrivere questo post, sarebbe stata troppo "time-consuming"...

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