In the tradition of Italian cured meats, we dry, age, and spice our product into fine charcuterie.”
(Seguendo la tradizione salumiera italiana, essicchiamo, stagioniamo e speziamo il nostro prodotto fino a trasformarlo in un salume pregiato.)
Come si evince dalla citazione qui sopra, proveniente dal sito ufficiale dell’azienda americana BITE LABS, la gastronomia italiana ha il dubbio privilegio di essere servita da modello per la produzione di un tipo del tutto particolare di insaccato.
Infatti, il motto dell’azienda è "Eat celebrity meat". Avete capito bene: gli ingredienti principali di questi “salami di lusso” sono tessuti muscolari provenienti dalle celebrità preferite, mioblasti cellulari ottenuti tramite biopsia, coltivati in laboratorio, macinati e mescolati a carne animale, spezie, grassi e oli, e infine insaccati in un budello per la stagionatura di rito. Facciamo che vi risparmio ulteriori dettagli, va bene? Se vi interessa, potete sempre saziare (ehm...) la vostra curiosità approfondendo il processo di produzione di questa carne in vitro nell’apposita sezione del sito.
Che dite, vi solletica l’idea? Che ne direste di assaggiare un pezzo di Jennifer Lawrence ("A different type of Hunger Game") o di James Franco ("He's sexy. He's artsy. Let's make him salami")? Li menziono perché è l’azienda stessa a indicarli come possibili sponsor sul proprio sito, e a chiedere agli utenti di twittarli per convincerli a diventare “donatori” di tessuto, ma già mi immagino il consumatore italiano sbavare all’idea di poter consumare un salame a base di Chiara Ferragni o Fedez, magari in combo, tanto per fare due nomi a caso.
Scherzavo, naturalmente. Nonostante gli avvenimenti che hanno “distinto” l’Italia nell’ultimo anno e mezzo, mi rifiuto di pensare che gli italiani si siano rincoglioniti fino a questo punto, e soprattutto sono abbastanza certo che tra i miei quattro lettori non ci sia nessuno così malato da desiderare di assaggiare una roba del genere.
Piuttosto, incappare in questo progetto mi ha fatto pensare a quanto spesso il cinema anticipa la vita reale, e che quando questo avviene non si tratta mai, mai di qualcosa di positivo. Da fan incallito di fantascienza e di horror, questo pensiero mi balena alla mente piuttosto spesso, ma nel caso di “Antiviral” (2012) il parallelo tra finzione e realtà è particolarmente inquietante, ed ecco perché ho deciso di rispolverare questo film solo oggi, a quasi dieci anni dalla sua uscita.
Se il regista non fosse figlio d’arte, “Antiviral” (2012) sarebbe un film sorprendente. Sapere che invece si tratta di Brandon Cronenberg, figlio di David, ci fa intuire subito dove si vuole andare a parare.
“Antiviral” è la storia di Syd March (Caleb Landry Jones), dipendente della Clinic lncorporated, una clinica privata che vende a caro prezzo ai fan i virus prelevati dalle loro celebrità preferite: dal comune raffreddore all'herpes simplex fino alle malattie più gravi. Syd piazza i virus sul mercato nero utilizzando il suo stesso corpo per trafugarli, il che lo rende allo stesso tempo spacciatore e drogato e lo espone a conseguenze non sempre prevedibili. Succede, infatti, che un giorno la celeb Hannah Geist (Sarah Gadon), un'”esclusiva” della clinica, muore nel giro di pochi giorni di una malattia sconosciuta e Syd, che se l'è iniettata in vena, ingaggia una lotta contro il tempo per trovare una cura, cercando nel contempo di dipanare il mistero di quanto avvenuto alla ragazza. Scopre così che Hannah è stata infettata di proposito con un virus modificato, e che è in atto una lotta senza esclusione di colpi tra i leader del business dei virus, la Clinic lncorporated e la Vole & Tesser.
Il racconto è molto cinico. Cinico è il protagonista e cinico è il finale, che finisce per rassomigliare alla realizzazione di uno degli incubi di H.R. Giger: la perfetta fusione tra carne e macchina. Quello che gli ingegneri attuano sul corpo della povera Hannah Geist è nello stesso tempo un sistema di controllo del corpo effettuato dal suo stesso corpo. Una scena interessante, questa, perché può essere interpretata in vari modi, giacché (oltretutto) non è ben chiaro quali siano le reali motivazioni e le intenzioni di Syd nel trovarsi con la carne di Hannah totalmente alla sua mercé, gettando un’ennesima ombra sulla sua figura.
Non è un film per tutti, “Antiviral”, che nel finale mi ha ricordato “eXistenz” (1999), anche, diciamolo, per la firma di questo secondo film; comunque, onore a Brandon Cronenberg per il coraggio dimostrato nel mettersi a confronto fin dal suo esordio con una figura (paterna e filmologica) tanto ingombrante. L’azione è scarsa o nulla, le riprese effettuate in ambienti di un bianco abbacinante che rende tanto più tremendo il deperimento fisico di Syd, e sul quale spicca il rosso del sangue. E a proposito di sangue, tra questo e altri umori corporali la visione si fa a tratti quasi insostenibile e richiede una certa dose di stomaco, ma non potrebbe essere altrimenti per un'opera che sceglie come argomento la malattia con le sue trasformazioni fisiche (dalle più semplici alle più devastanti), e infine la morte. In un’epoca come la nostra in cui l'imperativo è essere giovani, sani e perennemente abbronzati, la malattia fa repulsione come forse mai prima d'ora, fino al punto da rifiutarla a priori e da illudersi di poterla scongiurare imbottendosi di medicine quando si è ancora sani. La triste realtà è che siamo in un mondo dominato dalle lobby farmaceutiche, e dove tuttavia si continua a morire come mosche.
In questo senso, tra le invenzioni più interessanti del film c'è senza dubbio la console Ready Face, in grado di tradurre un virus in un grafico facciale che rappresenta la struttura della malattia: il volto del virus. Conosci il tuo nemico, recita un vecchio adagio…
Un po' horror e un po' fantascienza, “Antiviral” finisce per essere anche un film antropologico e dal profondo senso morale e filosofico, che opera a più livelli ma in primis come invito alla meditazione e come monito sull'ossessione di massa. Infatti non è chiaro chi sia più deprecabile, se i fan talmente ossessionati da voler fagocitare i propri idoli, le persone che su questa passione/infezione hanno costruito un business, legale (e protetto da tanto di sigilli antipirateria) e illegale, oppure le celebrità che si vendono un tanto al chilo. Esemplare in tal senso è la scena dei fan in coda in macelleria per acquistare bistecche fatte con la carne “coltivata” dalle cellule dei divi preferiti, con la scusa che mangiarle li fa sentire più vicini a coloro che ammirano. In chiave psicologica, forse desiderano inconsciamente acquisire le qualità dei divi che venerano, inclusa la loro immortalità virtuale. Cannibalismo allo stato puro. Se è vero che siamo quello che mangiamo, questo cosa ci dice di questa umanità?
Per dirla con il film “le celebrità non sono persone, sono allucinazioni di gruppo”, esistono cioè nella mente delle persone e in tal senso non importa se sono vivi o se la loro immagine digitalizzata o un vuoto involucro è tutto ciò che rimane di loro (infatti, Hannah viene data per morta ancora prima di morire per davvero). L’importante, in fondo, è un bel funerale ricco di immagini e di dettagli strappalacrime per continuare a “saziare” i fan a oltranza.
Dapprima furono i giornali scandalistici regno dei paparazzi, poi la tv con trasmissioni dedicate al gossip, e poi più di recente i reality show, con le loro telecamere fisse sui divi 24 ore su 24: ecco come nel corso del tempo il culto della personalità si è evoluto, fino ad arrivare al paradosso del mezzo che crea la celebrità (Grande Fratello docet).
Tuttavia c'è qualcosa di più profondo, atavico, a cui si attinge qui, un richiamo alle antiche religioni antropofaghe degli albori della storia dell'umanità. I divi di “Antiviral” sono i moderni dèi e il loro culto una nuova forma di spiritualità. L'ossessione per le celebrità è una malattia culturale che viene ventilata come uno dei distopici futuri possibili (o forse, chissà, è già una realtà e sono io il solo a non arrendermi all’evidenza).
Tornando alla Bite Labs, che mi ha dato lo spunto per questo articolo, so bene che il processo della carne coltivata in laboratorio non è cosa nuova, dal momento che il business della carne sintetica animale è già ben avviato. Questo progetto viene definito dai promotori etico (perché abbatte il consumo di carne animale), sostenibile (perché consuma meno risorse), perfino salutare (perché la carne sintetica non contiene antibiotici o pesticidi, e i nutrienti possono essere bilanciati). Possibile che basti questo per legalizzare il cannibalismo? Perché di questo si tratta. Dove sono le istituzioni e la Chiesa davanti a questo scempio? Davvero basta l’etichetta green per travalicare i limiti dell’etica, della legge e del buon gusto?
"L'ossessione per le celebrità è una malattia culturale che viene ventilata come uno dei distopici futuri possibili (o forse, chissà, è già una realtà)"
RispondiEliminaTogli pure il "forse, chissà".
Non so come possa essere il film se lo si vede per tutta la durata, ma da come lo descrivi sembra proprio cronenberghiano (sia pure di seconda generazione). E gli spunti sono interessanti, anche se davvero inquietanti.
Ma infatti le tematiche sono più disturbanti del modo in cui vengono rappresentate, poi ovviamente tutto dipende, come sempre, dalla propria sensibilità. Ma ormai la realtà ha superato la finzione, come dimostra l'esistenza della Bite Labs...
EliminaPer certi aspetti mi ricorda un vecchio film di fantascienza 2022: i sopravvissuti (1973), in un pianeta sovrappopolato, l'unica risorsa alimentare rimasta è il Soylent, gallette nutritive di vari colori, spacciato come plancton si scopre essere fatto da carne umana presa da cadaveri.
RispondiEliminaRicordo bene quel vecchio film, e direi che per certi versi il tuo paragone è proprio calzante. Sebbene il film di Cronenberg mostri anche quelle che potremmo definire derive (o orrori) della modernità...
EliminaA casa Cronenberg deve girare roba molto buona, mi sa 😅
RispondiEliminaBisognerebbe farsi invitare! ^_^
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