domenica 11 settembre 2022

Punti di rottura (Pt.1)

La volta scorsa abbiamo visto come odio e aggressività abbiano origine in aree distinte del cervello; ciò ci consente di saltare alla conclusione che il risentimento abbia bisogno di una molla razionale per trasformarsi in un’azione tesa a nuocere all’oggetto del nostro odio. Ma è proprio vero? Senza la pretesa di fare un lavoro che non è affatto il mio, quello dello psicopatologo, mi limiterò a giocare nel campo dell’ipotetico, andando ad analizzare alcuni casi emblematici di pura fantasia: quelli che ci ha regalato il cinema, in generale, e il genere horror in particolare. 
A proposito di quest’ultimo, prima di entrare nel dettaglio occorre prima di tutto apportare un’ampia selezione agli archetipi del genere: gli “scherzi” della natura, se mi concedete il termine, come l’uomo lupo o il mostro della laguna nera non possono evidentemente ricadere in quest’analisi (stesso dicasi per bambole assassine e kaijū giapponesi), così come devono necessariamente rimanere alla porta le creature che hanno il male come caratteristica intrinseca del loro essere (Pazuzu e tutti gli altri diavoletti cinematografici odiano il genere umano solo perché è il loro mestiere). Altra esclusione ovvia dovrebbe essere quella dei mostri che sono frutto della perversione del loro creatore, come Frankenstein o l’Uomo Invisibile, con una sola piccola riserva sul dottor Henry Jekyll, il chimico della Londra Vittoriana che riuscì a concretizzare l’aggressività attraverso la somministrazione autoindotta di un siero. 
Ma quali esempi possono rientrare nel campione che ci siamo prefigurati? Nel cercarli ho deciso di identificare alcune diverse categorie (e/o sottocategorie), entro le quali ho inserito alcuni esempi.

Categoria 1: Episodio scatenante → Rancore → Elemento razionale → Violenza vendicatrice 

Questa è la categoria che sembrerebbe sposare pienamente la nostra tesi. In essa rientrano più o meno tutti i cosiddetti “Revenge Movie”, ovvero quel particolare genere che, senza eccezioni, vede una fanciulla sopravvivere a un’aggressione iniziale e, dopo una serie di avvenimenti di importanza trascurabile, sterminare nel finale i propri aguzzini (l’ho riassunto in dieci parole, ma non ne occorrevano davvero di più). 
Un elenco esaustivo sarebbe fuori luogo, per cui mi limito a citare uno dei più celebri, ovvero il mitologico “Non violentate Jennifer”, opinabile traduzione italiana di “I spit on your grave” (Meir Zarchi, 1978): la scrittrice Jennifer Hills si reca in una villetta di campagna per scrivere il suo primo romanzo. La sua tranquillità viene turbata quando dei giovani sfaccendati irrompono nell’abitazione, la immobilizzano e la violentano ripetutamente (fase 1: episodio scatenante). Pian piano Jennifer si riprende dalle ferite subite, rimette insieme le parti del suo romanzo che sono state strappate e comincia a meditare vendetta (fase 2: rancore). La ragazza inizia a compiere il proprio piano di vendetta partendo da quello che del gruppo appare essere il più idiota (fase 3: elemento razionale). Non avendo più notizie dell'amico, i complici si recano a loro volta presso la villetta e la vendetta si compie (fase 4: violenza vendicatrice). 
Rientrano in questa prima categoria: “Il giustiziere della notte” (Michael Winner, 1974), “Il cittadino si ribella” (Enzo G. Castellari, 1974), “The Dentist” (Brian Yuzna, 1986), “Man on Fire” (Tony Scott, 2004), “Il buio nell’anima” (Neil Jordan, 2007), “Irréversible” (Gaspar Noé, 2002), “Oldboy” (Park Chan-wook, 2003) e chissà quanti altri ancora.

Categoria 2: Episodio scatenante → Dolore → Elemento razionale → Violenza vendicatrice 

Con una piccola variazione, anche la serie di film “Saw” (2004-2017) segue questo stesso schema, ma sostituisce il rancore con il dolore emotivo. In apparenza stiamo parlando di emozioni diametralmente opposte, ma se ci pensiamo bene entrambe derivano da una situazione avversa che non è stata affrontata apertamente e/o che non si è risolta. Riallacciandoci al post precedente, è interessante notare che il dolore emotivo non attiva le stesse aree cerebrali dell’odio (o dell’amore), bensì quelle del dolore fisico. E ciò è abbastanza sorprendente. In particolare, le aree cerebrali coinvolte sono la corteccia cingolata anteriore, nella quale vengono elaborati sentimenti quali l’angoscia ma anche la paura del vuoto emotivo derivante da una perdita, da un inganno o da un rifiuto, e la corteccia prefrontale, che si incarica al contrario di bilanciare tali emozioni attraverso il rilascio di endorfine, contribuendo in altre parole a lenire il dolore emotivo. Se il nostro organismo non è in grado di produrre endorfine in modo naturale, allora si ricorre all’utilizzo di farmaci antidepressivi e, in ultima istanza, di sostanze alcaloidi. È stato verificato sperimentalmente che addirittura la morfina, generalmente utilizzata negli stadi finali della terapia del dolore, se usata in basse dosi può attenuare anche il dolore emotivo. Ma prima di dare via libera ai farmaci, il nostro organismo fa un ultimo tentativo, cercando di trasformare il dolore in rabbia e rancore. In uno scenario come questo il rancore si presenta come una sorta di protezione, consentendoci di allontanare il dolore che un determinato gesto o comportamento ci ha provocato. In altre parole, ciò che inconsciamente facciamo è trasformare la tristezza in rancore, per sentirci più forti.
Ma torniamo alla serie di film “Saw”, franchise creato da James Wan e Leigh Whannell una quindicina di anni fa e sviluppatasi per oltre un decennio. Nel corso dei vari capitoli, un po’ per volta, ricostruiamo le origini di colui che, nel bene o nel male (soprattutto nel male), tiene le redini del gioco, ovvero il famigerato “Jigsaw Killer”. John Kramer è un ingegnere con una vita felice e spensierata: un buon lavoro, una bella moglie e l'attesa di un figlio. Tutto viene stravolto quando un drogato in fuga schiaccia il ventre della moglie di Kramer, uccidendo il bambino (fase 1: elemento scatenante). Inizialmente John tenta il suicidio al volante della sua auto (fase 2: dolore), ma sopravvive miracolosamente: ciò lo porta a capire l'incalcolabile valore della vita e a decidere di sottoporre altre persone come lui, che buttano la vita (aspiranti suicidi, tossicodipendenti, prostitute eccetera), a una serie di test per trasmettere loro il valore della vita (fase 3: elemento razionale). Si trasforma nel già citato “Jigsaw Killer” (l’enigmista, in italiano) e il resto è un bagno di sangue senza precedenti (fase 4: violenza vendicatrice). L’avvicendamento rancore-dolore appare in questo caso ben definito: entrambe le emozioni si autoalimentano per un tempo più o meno lungo, finendo per prendere il sopravvento sull’individuo. Nella maggior parte dei casi l’epilogo è l’autodistruzione, ma sul grande schermo funziona decisamente meglio il suo contrario, ed è per questo che lo troviamo un po’ più spesso. 

Categoria 3: Episodio scatenante → Rancore → Cortocircuito → Violenza vendicatrice 

Simili ai precedenti, i protagonisti di questa terza categoria hanno bisogno di un punto di rottura per superare il difficile ostacolo che li trattiene dal compiere l’ultima fase. È il caso di “Carrie, lo sguardo di Satana” (Brian De Palma, 1976). Carrie White è una ragazza timida che frequenta l'ultimo anno delle superiori: ha difficoltà a fare amicizia a causa della madre Margaret, un'integralista cristiana. L'imbarazzo di quel tipo di educazione esplode in tutta la sua forza quando, nelle docce della scuola, Jennifer non riesce a capire il perché del fiotto di sangue dovuto al menarca. Le compagne di classe, anziché supportala, la deridono lanciandole assorbenti (fase 1: elemento scatenante). Carrie scopre di essere in grado di muovere gli oggetti con il pensiero: fa cadere il posacenere dell'ufficio del preside dopo essersi sentita chiamare "Cassie" anziché "Carrie" e fa cadere giù dalla bicicletta un ragazzino che la stava deridendo (fase 2: rancore). Durante la serata del ballo studentesco, mentre Carrie il suo partner stanno per essere incoronati come coppia più bella del ballo, una compagna, nascosta sotto al palco, tirando una corda fa cadere addosso a Carrie un secchio ricolmo di sangue (fase 3: cortocircuito). Carrie, vedendo riaccendersi il bullismo a lungo patito, si infuria e decide di uccidere tutti (fase 4: violenza vendicatrice). 
Anche se a prima vista non si direbbe, considerato che qua e là ci sono anche dei fantasmi, anche il leggendario “Shining” (Stanley Kubrick, 1980) segue in parte questo stesso schema. Lo scrittore Jack Torrance, ex insegnante disoccupato e con problemi di alcolismo, accetta un impiego come guardiano invernale dell'Overlook Hotel, un grande albergo sperduto tra le montagne del Colorado, distante chilometri da un qualsiasi centro abitato. Impiego non dispendioso, ma che gli lascia un sacco di tempo libero per dedicarsi al suo romanzo. Jack, sua moglie Wendy e il piccolo Danny si trasferiscono nell'Overlook Hotel. Qui Jack inizia a diventare scontroso e irascibile a causa della mancanza di ispirazione per il proprio romanzo (fase 1: elemento scatenante). La mente di Jack vacilla al punto che lui non è in grado di distinguere le visioni dal reale e si convince di essere bersaglio della sua famiglia, ritenendola causa dei suoi fallimenti (fase 2: rancore). La verità viene a galla nel momento in cui Wendy scopre che i dattiloscritti del romanzo non sono altro che pagine e pagine di una frase ripetuta all'infinito. In quel momento viene sorpresa dal marito (fase 3: cortocircuito). Jack si impossessa di un'ascia e sfonda la porta del proprio appartamento (fase 4: violenza vendicativa). Il resto è storia nota e il particolare che solo il capocuoco Dick Hallorann, che nel frattempo aveva raggiunto l'albergo con un proprio mezzo, rimane vittima della furia di Jack è secondario. 
Rientrano a mio parere in questa categoria: “L’ultima casa a sinistra” (Wes Craven, 1972), “L’ultimo treno della notte” (Aldo Lado, 1975), “La guerra dei Roses” (Danny De Vito, 1989), “Venerdì 13” (serie di film iniziata nel 1980), “Full Metal Jacket” (Stanley Kubrick, 1987). “Halloween” (serie di film iniziata nel 1978 da John Carpenter), “Cane di paglia” (Sam Peckinpah, 1971), “Sweeney Todd” (Tim Burton, 2007), “Un giorno di ordinaria follia” (Joel Schumacher, 1993) e chissà quanti altri ancora. 
Si potrebbe suddividere ulteriormente le precedenti categorie in due diverse sottocategorie: quella dove la vendetta è mirata (rivolta quindi a individui specifici, colpevoli di qualcosa) e quella in cui la vendetta si abbatte a cazzo sul primo poveraccio che passa per strada. Torneremo però più avanti su questo tema. 
Nel prossimo articolo ci concentreremo invece su una quarta categoria, identica alla precedente se non per il fatto che l’elemento scatenante si risolve con la morte del soggetto. È la categoria in cui rientrano praticamente tutte le sceneggiature che includono un elemento soprannaturale.

Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di  tale progetto,  esso rappresenta la parte 41 in un totale di 100.
Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte del progetto "Ju-On, speciale rancore" che è iniziato qui lo scorso 7 settembre. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 41° candela...

8 commenti:

  1. I film con questa genere di dinamiche sono talmente tanti che un elenco esaustivo è praticamente impossibile. Uno che non hai citato, che mi colpì anche se ha le sue pecche (soprattutto sul piano del messaggio) è "Giustizia privata" in cui a tratti sembra assecondare il desiderio di (appunto) giustizia privata del cittadino medio dipingendo gli organi di giustizia come organi burocratici privi di empatia per la sofferenza della vittima. Sono d'accordo nel far rientrare nel genere anche "Un giorno di ordinaria follia" dove viene messo in scena un uomo che va fuori di testa con desiderio di capovolgere le sorti della sua vita, anche a costo di calpestare altri esseri umani... In questo caso l'elemento scatenante non è il singolo episodio traumatico ma tante gocce che hanno fatto traboccare il vaso.

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    1. Hai ragione: "Un giorno di ordinaria follia" è leggermente anomalo rispetto agli altri, della categoria nella quale l'ho inserito, ma non potevo non citarlo. Possiamo dire (forzando un pelino le cose) che tutte le "gocce" prima del cortocircuito rientrano nella fase "rancore" che lo precede.
      Là più grande difficoltà, nel produrre questo articolo. è stata quella di far rientrare decine di film in un numero limitato di categorie.
      Non conosco "Giustizia privata" ma, da come me ne parli, potrebbe rientrare nella stessa categoria dei "rape and revenge". MI sbaglio?

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    2. Sì, in questo caso la vendetta è del marito / padre che ha dovuto assistere impotente allo scempio della propria famiglia, e non si limita a coloro che hanno commesso la violenza, ma anche ai giudici che gli hanno inflitto delle condanne blande. Magari sbaglio, ma ho come avuto l'impressione che lo sceneggiatore voti per i repubblicani...

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    3. ...nell'ipotesi che ci sia differenza tra repubblicani e democratici.

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    4. A livello di "messaggio ideologico di facciata" intendo.

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  2. Pover Dick Hallorann! Elemento secondario che sia l'unica vittima, ma ricordo che mi dispiacque pure quando vidi il film.

    Saltando di palo in frasca, non mi aspettavo che cambiassi il banner del blog. Da dove viene l'idea del giapponese Hiaku monogatari kaidan kai? In realtà non sono certa che l'ideogramma 会 si legga "kai" dopo kaidan, però dovrebbe essere così.

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    1. E' una mia vecchia abitudine quella di cambiare temporaneamente l'header del blog nel periodo degli speciali. Poi tornerà tutto alla normalità. L'idea del termine "Hiaku monogatari kaidan kai" non è mia ma, come spiegato meglio nella pagina statica dedicata, deriva da una vecchia tradizione giapponese. Quello che ho fatto è solo trasformare le cento storie narrate verbalmente in cento post qui sul blog.
      Non sono espertissimo di Kanji: quello che faccio al limite è verificare in rete e vedere se non sto scrivendo boiate. Nella fattispecie 会, che in hiragana dovrebbe essere かい (kai) mi è sembrato corretto. Se poi associato ad altri kanji si trasforma un'altra cosa, allora mi arrendo...

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