Torniamo da oggi a parlare di Yellow Mythos, con un articolo che cerca di essere il naturale prolungamento di quello, vecchio ormai più di un anno, che avevamo dedicato al racconto “Haïta the Shepherd” di Ambrose Bierce.
"Haïta il pastore", lo ricorderete, narrava le vicende di un ingenuo pastorello devoto al culto di Hastur, dio dei pastori. Quando l'ira di quest'ultimo, offeso dall'umanità, promise di affogare le città con grandi tempeste, egli lo minacciò di abbandonare la fede. Identificare Hastur con un essere (umano o divino che sia) non era affatto una novità: ce ne eravamo già accorti il giorno in cui affrontammo il racconto "The Demoiselle d'Ys", facente parte del canone chambersiano. Ci eravamo anche posti la questione di far convivere l'idea che Hastur potesse essere allo stesso tempo un individuo (nella fattispecie, una divinità) e un luogo (nel racconto “Il riparatore di reputazioni”). L'impresa si era rivelata subito complicata. Nell’articolo già menzionato, che dava preferenza alla soluzione divina, ci eravamo inoltre chiesti se Hastur, colui che non deve essere nominato, fosse un epiteto realistico o se al contrario si trattasse di un escamotage equiparabile a quello di Yahweh (o Yehovah a seconda delle culture) per far riferimento al famoso tetragramma con cui il Dio degli israeliti si rivelò a Mosè.