venerdì 5 aprile 2024

Fuori speciale: il ruolo degli spaghetti tra miseria e nobiltà

“Fuori speciale” è una serie di articoli che vengono scritti di getto nel periodo di pubblicazione dello speciale “La grande abbuffata”. Pur non essendone parte integrante, ciò che viene qui trattato ruota intorno all’argomento principale senza spezzarne il filo logico. Si tratta, in estrema sintesi, di piccoli approfondimenti che non hanno trovato posto nella struttura principale. “Fuori speciale”, in uscita tutti i venerdì, non è una lettura necessaria alla comprensione degli articoli de “La grande abbuffata” (che usciranno invece il lunedì), è viceversa una lettura che può essere ignorata o rimandata, a vostro piacimento. 

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Mentre inizio a scrivere questo articolo, non posso fare a mano di chiedermi se per caso non stia sopravvalutando le mie forze. L’idea malsana di scrivere praticamente in diretta un articolo è qualcosa che nemmeno nei momenti di maggior produttività del blog avrei potuto sostenere. Purtroppo, quando mi metto in testa un’idea è difficile scacciala via, e così eccomi qui a inaugurare questa serie di articoli extra-speciale che, come scritto nell’introduzione, è un side-project che vive contemporaneamente a “La grande abbuffata” senza sovrapporsi a esso. Mi sono dato però un limite: un’ora di tempo davanti al computer e non un secondo di più. E venga come viene. Non posso permettermi certo di fare il perfezionista e andare a cercare termini ricercati per produrre materiale che per sua stessa definizione è materiale “di scarto”, ovvero scartato dallo Speciale in fase di redazione. 
Ne “La grande abbuffata” stiamo parlando di cibo e cinema, come sapete, e quando penso all’unione di questi due concetti la prima immagine che mi viene in mente è quella di Totò nella famosa scena degli spaghetti, mangiati in piedi sul tavolo e perfino infilati nelle tasche. Sì, lo so, forse sono io a essere sbagliato: potrebbero esserci milioni di immagini più rappresentative, ma è un dato di fatto che il cinema di Totò mi accompagna fin da quando ero cucciolo, e mi ha scortato attraverso tutte le fasi della mia vita, dall’adolescenza alla maturità, fino agli anni della prima decadenza, che sento si sta ormai approssimando. 

Siamo nel 1954 e il regista marchigiano Mario Mattioli sta presentando nelle sale cinematografiche il suo personale adattamento della celebre commedia di Eduardo ScarpettaMiseria e Nobiltà”. Il cast è come sempre di tutto rispetto: si va da Carlo Croccolo a Sofia Loren passando per Franca Faldini, Valeria Moriconi, Franco Sportelli, Enzo Turco e Dolores Palumbo. Il mattatore però è uno solo e il suo nome, quando pronunciato, inevitabilmente evoca sorrisi e risate in almeno tre generazioni di italiani. 
Se Eduardo Scarpetta fu infatti capace di creare quel meraviglioso personaggio di nome Felice Sciosciammocca, una sorta di moderno Pulcinella, già interpretato al cinema dal figlio Vincenzo nel 1940, fu senza dubbio l’interpretazione che ne diede il principe Antonio de Curtis, meglio conosciuto come Totò, che rese la commedia immortale; un Totò qui già all’apice della notorietà e della sua maturità artistica. 
Infatti, se la commedia di Scarpetta aveva riscontrato un clamoroso successo sin dalla sua prima rappresentazione, datata addirittura 1888, la versione di Mattioli aggiunge alcune tra le gag più divertenti del cinema neorealista, quali la già citata scena degli spaghetti, l'equivoco della macchina fotografica, e infine la scena della scrittura della lettera per un paesano, scena che abbozza, anticipandola di fatto di un paio d’anni, le celebre lettera scritta a quattro mani con Peppino De Filippo nella “malafemmina” di Camillo Mastrocinque

Felice Sciosciammocca è un napoletano squattrinato, già separato dalla moglie Bettina per via di certi suoi comportamenti “briosi” nei confronti del gentil sesso, che vive alla giornata lavorando come scrivano sotto i portici del Teatro San Carlo. Felice condivide una piccola abitazione con il figlio Peppeniello, la nuova compagna Luisella, l'amico Pasquale, di professione fotografo ambulante, la moglie di quest'ultimo Concetta e la loro figlia Pupella. La vita delle due famiglie è scandita dalla cronica mancanza di cibo e denaro, che le espone alle pressanti richieste del padrone di casa, don Gioacchino, in credito di cinque pigioni mensili arretrate, e le costringe a dover dare in pegno indumenti e oggetti di vario genere per ottenere denaro in prestito. Il ruolo di Felice è ovviamente fatto su misura per Totò, che è immerso nella tradizione della Commedia dell'Arte: essendo nato in una signorile povertà, l’attore partenopeo è ugualmente in grado di ritrarre perfettamente un povero scribacchino e di impersonare un principe. 

Il motivo della fame è ovviamente centrale, così come in tutto il cinema di quel movimento culturale che, durante il secondo conflitto mondiale e nell'immediato dopoguerra, si è diffuso in Italia con il nome di Neorealismo, un genere di cinematografia che si ripromette di narrare, spesso in chiave politico-sociale, le condizioni di vita dei diseredati, di una classe lavoratrice che giorno dopo giorno, tra mille espedienti, sopravvive nella speranza di un riscatto, nel desiderio di lasciarsi il passato alle spalle e di cominciare una nuova vita. Non a caso, molte sono le riflessioni sulla fame che nei film di questo periodo diventano occasioni per animare il dibattito politico sulle disparità di classe, e il grande Totò, che amava dire «La mia è una fame atavica: vengo da una dinastia di morti di fame», è stato in grado di evocare il fantasma della fame più di ogni altro. 
Ma gli spaghetti catturati da quelle inquadrature in “Miseria e Nobiltà”, che per Felice Sciosciammocca rappresentano una smodata quanto inaspettata quantità di cibo, rivelano un cambiamento radicale che è ormai alle porte. Seppur sia innegabile che la fame nel 1954 è un ricordo ancora ben vivo, è anche vero che comincia a intravedersi all’orizzonte un periodo di maggior serenità alimentare, una stagione in cui, anche per il proletariato, il pane in tavola non sarà più un lusso. E in questo contesto la famosa scena della lista della spesa, che inserisco qui in fondo all’articolo, potrà solo strappare sonore risate. 



4 commenti:

  1. Sicuramente una delle scene più iconiche del nostro cinema nazionalpopolare, quello che all'estero è completamente sconosciuto ma che ogni italiano ha certamente visto.

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    1. All'estero gente come Totò, ma si può tranquillamente estendere il concetto a Sordi, Verdone e molti altri, sono assolutamente intraducibili. E sono certo di non sbagliarmi se dico che non esiste un altro paese al mondo con le stesse caratteristiche di "inesportabilità".

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  2. Che meraviglia. Mi hai come si dice adesso "sbloccato" un ricordo carissimo. Avrò visto questo film almeno 5/6 volte, fin da ragazzina. Poi ne vidi una versione teatrale molto buona (che oltretutto mi fece conoscere la mia attrice ormai di punta Daniela Rosci). Amo questa storia e tutti i suoi momenti più iconici. In questo dialogo della spesa si vede tutto il talento del tempo, oggi pressoché inesistente. Testi chiari, una narrazione purissima e soprattutto caratteristi eccellenti.

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    1. Il "quasi" monologo di Enzo Turco in quella scena, oltre ad essere un pezzo di storia del nostro paese, ha enormemente influenzato la nostra formazione. A chi di noi non capita mai di premere una mozzarella con le dita per vedere se esce il latte? Non ce ne chiediamo ormai più il motivo, ma è certamente da ricercarsi in un condizionamento nato da lì.

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