lunedì 15 aprile 2024

La Grande Abbuffata: verso nuovi orizzonti del reale

Quando ne parlai io, nel lontano 2016,
una traduzione in italiano di questo libro
ancora non esisteva (dannazione!)
Quando e come, ci stavamo chiedendo la volta scorsa, una necessità biologica è entrata a far parte di quell’eterogeneo agglomerato chiamato cultura? Va innanzitutto rilevato che per gli antichi cucinare era ben più che adempiere a un compito necessario a nutrire il proprio corpo, ma era un vero e proprio atto religioso: gli antropologi sono in gran parte concordi che in molti gruppi sociali fosse previsto un sacrificio cruento agli dèi (chiamato ”olocausto”) a cui seguiva un banchetto durante il quale l’animale vittima del sacrificio veniva consumato dai fedeli; è il caso dei riti misterici, come quelli eleusini, la religione dionisiaca o i baccanali, le feste dedicate a Bacco. In qualche momento della storia umana vi furono perfino pasti cannibalici, poiché a essere ucciso era un essere umano. E vi fu perfino chi ipotizzò che la figura di Cristo, il dio sacrificato per eccellenza, sia stato creato per sublimare (e occultare) una o più piante sacre che in tempi remoti erano state venerate come divinità, perché aprivano l’uomo alla conoscenza soprasensibile (Allegro docet). 
Si tratta di speculazioni oziose, naturalmente; nulla che possa essere provato. È però oltremodo curioso (sebbene i funghi ad esempio non si coltivino, ma casomai si colgono) che la parola latina colere significhi sia coltivare che onorare, venerare, a testimonianza del fatto che nell’area mediterranea l’agricoltura avesse un posto preminente tra le attività umane anche perché consentiva all’uomo di elevarsi sopra la condizione animale, piegando la natura ai suoi bisogni e garantendosi di non dover soffrire mai più la fame; in termini economici, aveva permesso di passare da un’economia di sussistenza a un’economia fondata sul processo produttivo. 
L’atto stesso di cuocere il cibo, vegetale o animale che sia, affranca l’uomo dalla natura; ma anche se la cottura potrebbe aver marcato il passaggio da una società naturale a una regolata da convenzioni sociali (non dimentichiamo ad esempio che gli antichi greci consideravano "barbaro" chi consumava il cibo crudo), come era convinzione dell’antropologo francese Claude Lévi- Strauss (*), il cibo a volte viene consumato crudo, oppure preparato senza cuocerlo, essicato, affumicato, fermentato, e non è possibile delineare una corrispondenza precisa tra queste pratiche e l’evoluzione sociale dei gruppi umani di riferimento (**) (piuttosto, è interessante rilevare che ancora oggi la cucina sia il centro della casa in tutte le culture del mondo, e certamente in quella italiana). 
Per farlo può essere più determinante esaminare la ritualità del consumo dei pasti, il modo in cui oltre all’abbondanza del cibo (una ricca mensa era ovviamente indice di uno status sociale elevato) divenne prominente anche la sua presentazione, talora davvero stravagante e a effetto, e la cura legata all’apparecchiare la tavola, scegliere il posto dei commensali, eccetera. 

Un tempo condividere il desco era sinonimo di convivialità e occasione di conversazione, nonché un modo per rafforzare legami e stringere alleanze, nel caso di persone abbienti che volessero sopravvivere e prosperare nell’instabilità sociale e politica, o semplicemente condividere le proprie miserie, nel caso dei poveri; ed è ancora così. 
Né si può dire che di per sé cucinare fosse solo l’atto meccanico di mescolare ingredienti a caso in base al sapore, perché si trattava al contrario di una vera e propria forma di farmacologia, tanto che i pasti e le preparazioni farmaceutiche utilizzavano gli stessi ingredienti (motivo per cui la parola ricetta designa sia la preparazione farmaceutica che quella gastronomica). La cucina popolare si fondava sulla credenza in una sinonimia tra alimentazione e medicina e promulgava la qualità del cibo come elemento chiave della salute (***). 
La medicina greca comincia a interessarsi al cibo più o meno nello stesso periodo di quella cinese. Il filosofo cinese Zou Yan (305-240 a.C.) nel III secolo sviluppa la teoria dei 5 elementi (metallo, legno, acqua, fuoco, terra), che più tardi verrà approfondita dal medico Zhang Zhongjing (150-219 d.C.) in un trattato che evidenzia il legame tra cibo e salute. In Occidente, sulla scia della “teoria umorale” di Ippocrate (460–377 a.C. circa), ripresa da Galeno (129–201 d.C. circa), si era affermata una medicina astrologica per la quale non solo il cibo salutare era quello che meglio aiutava a preservare l’equilibrio di ognuno (cioè il bilanciamento dei quattro elementi acqua, aria, terra e fuoco), ma la costituzione fisica di ciascun individuo era determinata dal suo tema natale (abbiamo già osservato nel corso di Orizzonti del Reale che anticamente il medico era anche un astrologo e spesso un negromante). 

Ciò che a noi può sembrare una deviazione dal pensiero ordinario si spiega col fatto che processi come la fermentazione e la lievitazione apparivano abbastanza misteriosi da fa pensare che fossero opera di folletti o spiriti del sottosuolo, che potevano infuriarsi e influenzarne il decorso (facendo marcire i cibi, inacidire il vino e così via); una forma di pensiero che può aver dato forma anche alle creature del folclore protagoniste di numerose leggende agresti o montane (per esempio l'Uomo Selvatico, che insegnò all’uomo come fare il formaggio o i segreti dell’apicoltura, o le Anguane, anch’esse esperte nella caseificazione e in grado di favorire i pescatori). 
Religiosità, magia, cosmogonia si intrecciavano in uno sfondo estatico (pensiamo alle trance associate allo sciamanismo) agevolato da fenomeni di intossicazione volontaria (dati dall’ingestione di uva, latte o cereali fermentati) e involontaria (per esempio tramite il consumo di pane fatto con la segale cornuta, che tra le altre cose contiene l'acido lisergico, la base dell’LSD, di cui abbiamo anche già parlato qui sul blog). L’uso di questi cibi intossicanti, vere e proprie droghe, diventava anche, per le classi meno abbienti, una maniera di sopportare una fame atavica che per loro costituiva la normalità, e alimentava un immaginario collettivo di mostri ed esseri soprannaturali le cui gesta sono narrate in fiabe, leggende popolari, poemi e canzoni, in una spirale senza soluzione di continuità la cui manifestazione più compiuta sono i riti del Carnevale (e qui si dovrebbe aprire un capitolo a parte legato alle maschere del Carnevale, ma questo speciale non offre né il tempo né lo spazio per farlo). 

Ciò che rimane oggi di questa ritualità è fondamentalmente il consumo tradizionale di determinati cibi durante la celebrazione di feste religiose. Ancora oggi c’è una stretta correlazione tra il cibo e i riti e le varie religioni, basti pensare ai precetti ḥalāl dei musulmani, alla cucina kosher degli ebrei o alle tradizioni (se non proprio precetti) dei cattolici osservanti riguardo l’agnello pasquale o il non mangiare carne nei "giorni di magro", cioè il venerdì e gli altri giorni proibiti. E questo solo per citare le tre grandi religioni monoteistiche, essendomi oggettivamente impossibile (quand’anche ne fossi in grado) entrare nel merito di tutte le tradizioni legate alle varie religioni del mondo. 

Se oggi il cibo è parte integrante della cultura, tuttavia, non è solo perché i pasti devono essere preparati in modo rispettoso della religione, anzi oserei dire che nelle società laiche in varie parti del mondo questo aspetto non è più così essenziale. È invece emersa nel tempo la tendenza a identificare un cibo tradizionale come qualcosa di preparato utilizzando ingredienti tradizionali, provenienti dal territorio e non sostituibili, per ottenere un gusto e una consistenza specifici. Questo è stato reso possibile, con la morte dell’Illuminismo, che definiva cultura solo le attività specificamente intellettuali, dalla nascita della scienza antropologica, che rigettò l’idea di oggettività della cultura sostituendole quella di patrimonio intellettuale appartenete non più al singolo, ma a una collettività, sia essa un dato popolo o l’umanità intera, e in seguito quella della summa delle abitudini e delle capacità acquisite e trasmesse socialmente in qualunque tempo e luogo. 

Com’è comprensibile, finché c’era scarsità di cibo la priorità era procurarselo, e fu solo con la diffusione del benessere e dell’abbondanza delle risorse presso gran parte della popolazione che la consistenza e il sapore del cibo, e perfino la sua storia, divennero davvero rilevanti, oltre che materia del contendere di infinite diatribe sull’origine storica e geografica di questa o quella pietanza, dell’autenticità di questa o quella ricetta. Resta un mistero come una tale mentalità abbia potuto attecchire in Italia, un paese che non era unito da nessun punto di vista, neppure, a causa delle differenti caratteristiche geografiche, sotto il profilo gastronomico, tanto più che le regioni che furono riunite sotto la bandiera nazionale erano state soggette nel corso del tempo a diverse e numerose dominazioni straniere. L’Italia, come la sua tanto magnificata cucina, è un costrutto risorgimentale, una morfologia di tradizioni culinarie diverse con in comune solo l’esser, di base, delle cucine popolari, povere (è un fatto che molti piatti del sud somiglino più ai piatti degli altri paesi mediterranei che a quelli del nord Italia). Ciononostante, gli italiani si azzuffano ogni giorno sulle virtù della dieta mediterranea, sulla paternità della pizza o della carbonara o su quanto sia gourmet riscoprire i cereali antichi, anche grazie alla cassa di risonanza dei social media. Per non parlare della contrapposizione, non solo nostrana, tra onnivori e vegetariani e vegani, che meriterà una trattazione a parte. 
Partirei dunque da qui, esaminando una serie di pellicole che indagano il rapporto del cibo con la tradizione, tenendo sempre bene a mente che il commercio e in ultima istanza la sua degenerazione, la globalizzazione, hanno potenzialmente livellato le abitudini delle persone a tavola (slegando l'alimentazione dal territorio, ma anche dai cicli delle stagioni, tanto che oggi è possibile reperire qualunque tipo di cibo in ogni periodo dell'anno); il che si ricollega, in primis, al legame tra il cibo e l’infanzia. 

* Claude Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto (Le cru et le cuit, 1966). Il saggio esamina i miti di alcune tribù sudamericane dell’area amazzonica sull’origine del fuoco, che lo fanno provenire da un animale (il giaguaro o altro predatore, ovvero un consumatore di carne cruda), che lo cede all'uomo oppure al quale viene sottratto; in seguito, l’uomo diventa quindi "signore del fuoco". Per esempio, nella seconda parte (cap. II. Sinfonia breve, pag. 191) l’Autore scrive: "Abbiamo così la conferma che i miti gé sull'origine del fuoco, come i miti tupi-guaraní sullo stesso tema, operano per mezzo di una doppia opposizione: fra crudo e cotto da una parte, fra fresco e corrotto dall'altra. L'asse che unisce il crudo e il cotto è caratteristico della cultura, quello che unisce il crudo e il putrido lo è della natura, giacché la cottura compie la trasformazione culturale del crudo, come la putrefazione ne è la trasformazione naturale.” E prosegue: “Nell'insieme globale così ricostruito, i miti tupi-guaraní testimoniano maggior radicalità rispetto ai miti gé: per il pensiero tupi-guaraní l'opposizione pertinente è fra la cottura (di cui gli avvoltoi possedevano il segreto) e la putrefazione (che oggi definisce il loro regime alimentare); mentre per i Gé l'opposizione pertinente è fra la cottura degli alimenti e il loro consumo allo stato crudo, come fa ormai il giaguaro. Il mito bororo potrebbe allora tradurre un rifiuto, o una incapacità, di scegliere fra le due formule, rifiuto di cui si dovrà cercare la ragione. Il tema della putrefazione è qui maggiormente evidenziato rispetto ai Gé, quello del carnivoro predatore è invece quasi completamente assente. D'altra parte, il mito bororo adotta il punto di vista dell'uomo conquistatore, ossia della cultura (l'eroe di M1 inventa da sé l'arco e le frecce, come la scimmia di M65 - contropartita naturale dell'uomo - inventa il fuoco che il giaguaro ignora). I miti gé e tupi-guaraní (che sotto questo profilo sono più vicini) si situano piuttosto nella prospettiva degli animali depredati, che è quella della natura. Ma il confine fra natura e cultura si trova comunque spostato, a seconda che consideriamo i Gé o i Tupi. Per i primi esso passa tra il crudo e il cotto; per i secondi fra il crudo e il putrido. I Gé fanno quindi dell'insieme (crudo + putrido) una categoria naturale ; i Tupi fanno dell'insieme (crudo + cotto) una categoria culturale.” 

** Ciò che probabilmente avvenne dopo la scoperta del fuoco è che l’uomo cominciò a ritualizzare il suo rapporto con il cibo e con la morte, rendendo di fatto i due concetti inscindibili, ovvero da un lato pregava gli dèi per ottenere del cibo e dall’altra chiedeva perdono per l'uccisione delle prede.

*** Questo approccio al cibo non è variato molto col tempo, in effetti. Mia mamma, per esempio, ha glorificato per tutta la vita le virtù ricostituenti e guaritrici del brodo di pollo e del bollito, che a casa mia si chiamava lesso.

2 commenti:

  1. Ovviamente l'Unità d'Italia doveva giocoforza passare anche attraverso un' unificazione alimentare, anche se curiosamente il contributo più grande in tal senso lo ha dato un privato cittadino come Pellegrino Artusi. Devo peraltro ammettere che la lettura del suo ricettario "italo-unificato" ha un suo fascino (non so se ti è mai capitato di leggerlo).

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    1. No, in effetti non l'ho mai letto, ma Artusi mi è sempre parso un personaggio bizzarro: chissà cosa lo spinse a occuparsi di cucina dopo aver scritto due saggi di critica letteraria. Ma forse aveva ragione lui, dato che è proprio per il suo manuale culinario che oggi viene ricordato, come giustamente hai fatto anche tu.

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