Quello di karma è un concetto nel quale ho creduto a lungo, o in cui ho voluto credere, o che
comunque ho accarezzato abbastanza da citarlo nelle più svariate situazioni, reali e virtuali. Da
tempo non è più così, e il fatto che ancora oggi lo tiri spesso in ballo non è indicativo dei miei
sentimenti a riguardo; insomma, sono come uno di quegli atei che bestemmia perché viene da
un contesto in cui si fa così e lo fa come un automatismo appreso da tempo immemore, che non
ha un vero significato e neppure alcuna implicazione se non quella di renderlo inviso agli altri.
La mia riflessione di oggi non riguarda solo letteratura e cinema, ma soprattutto la realtà di ieri e
di oggi e, vi avverto, è forse tra le cose più controverse che abbia mai scritto.
Nulla meglio di "Le canzoni di Narayama" (楢山節考, Narayama bushikō, letteralmente "La
ballata di Narayama") di Shichirō Fukazawa, un racconto giapponese risalente agli anni ‘50,
potrebbe offrirmi spunto migliore per introdurre il tema di oggi. Ho quindi ripescato dalla libreria
e riletto la mia edizione Einaudi del 1961 (una traduzione dal francese) di questo libro, una
copia così ingiallita e fragile, tra le dita, che ogni volta che la prendo in mano ho paura che la
costa si rompa e le pagine si sparpaglino.