Quello che andiamo ad analizzare oggi è un perfetto esempio di "horror analogico", o analog horror, un sottogenere dell'horror di cui ignoravo l'esistenza sino a poco tempo fa, ma che ho scoperto avere una larga schiera di estimatori. No, in realtà non è esatto dire che non lo conoscevo; diciamo piuttosto che ignoravo fosse mai stato classificato come un genere a se stante. Di cosa si tratta? Semplicemente di un'opera che si basa sull'idea che la tecnologia analogica possa essere utilizzata per catturare eventi paranormali o soprannaturali, creando un'atmosfera di mistero e terrore. Nel contempo, e per quanto mi riguarda è la cosa più interessante, nonostante il mistero e il richiamo alla metafisica si tratta di una tecnica cinematografica che fa leva su timori fin troppo reali e concreti, come quello di essere osservati senza saperlo oppure di poter perdere la percezione di cosa è reale e cosa non lo è.
Sebbene il formato più comune dell'horror analogico sia quello del cortometraggio (e quindi pensato per un pubblico di nicchia), non mancano esempi in cui i media analogici possono ritagliarsi, in una sorta di metacinema, uno spazio all'interno di film veri e propri, spesso riuscendo a diventare l'elemento centrale della trama. È il caso della videocassetta maledetta di "The Ring", che è un perfetto esempio di come la tecnologia analogica possa essere utilizzata per creare un'atmosfera ansiogena, o di quei lungometraggi che utilizzano la forma del "found footage", quali "The Blair Witch Project" (1999), "V/H/S" (2012), "Paranormal Activity" (2007), "The Last Broadcast" (1998) o "Grave Encounters" (2011).
Al di fuori del cinema, in forme come registrazioni audio e video, troviamo un ottimo esempio di horror analogico nel celebre caso "Max Headroom" del 1987 (ignoti avevano hackerato una trasmissione televisiva di Chicago sostituendo la programmazione regolare con un video distorto e inquietante) o nel caso dei "Kentucky Fried Radio" (simile al precedente, ma attraverso il mezzo radiofonico). Esistono poi, come accennato in precedenza, una moltitudine di cortometraggi, la maggior parte dei quali realizzati a costo zero utilizzando tecnologie casalinghe, aspetto quanto mai vincente se il risultato desiderato è proprio l'apparenza di scarso livello. Mai come in questo caso la grafica scadente e l'effetto rétro non solo sono intenzionali, ma sono elementi indispensabili della messa in scena, perché solo l'ambiguità della scarsa definizione può creare un autentico senso di dubbio e paranoia nello spettatore.
In questa moltitudine difficilmente catalogabile ho scelto un lavoro datato 1983 che è comunemente considerato un classico del genere horror analogico: "Possibly in Michigan" della statunitense Cecelia Condit, insegnante al Dipartimento di Cinema dell'Università del Wisconsin e, a tempo perso, video-artista con una particolare inclinazione a rappresentare il lato sovversivo e femminista delle fiabe.
"Mi considero una narratrice il cui lavoro oscilla tra bellezza e grottesco, umorismo e macabro, innocenza e crudeltà. I miei video esplorano il lato oscuro della soggettività femminile e affrontano la paura, l'aggressività e lo sradicamento che esistono tra noi e la società, tra noi e il mondo naturale. Nel panorama psicologico delle fiabe contemporanee, ho cercato di tracciare un percorso libero da stereotipi, affrontando le ambiguità tra l'identità personale e le aspettative esterne che si celano appena sotto la superficie della vita quotidiana." (fonte: https://cueartfoundation.org/cecelia-condit).
L'analisi psicologica del binomio sessualità-violenza è un altro dei temi ricorrenti delle sue opere, di cui "Possibly in Michigan" è l'esempio più rappresentativo. Dal #metoo in poi, la prevaricazione sessuale è un tema di certo popolare (anche giustamente) e persino, direi, alla moda. Tuttavia, in questo caso le ragioni dietro questa scelta paiono niente affatto pretestuose e molto personali. Tale inclinazione artistica deriverebbe infatti da un'esperienza che, a quanto si dice, la Condit visse in prima persona nel periodo in cui frequentava regolarmente un uomo di nome Ira Einhorn, attivista dei movimenti ambientalisti della contro-cultura degli anni '60 e '70 e successivamente salito agli onori della cronaca con il nome di "The Unicorn Killer" (appellativo che egli diede a se stesso parafrasando apertamente il proprio cognome).
Secondo Reddit, pare che un'inconsapevole Cecelia Condit frequentasse l'abitazione di Einhorn proprio nel periodo in cui egli conservava allegramente, in un baule al piano di sopra, il cadavere mummificato della fidanzata precedente. Il risultato non poteva che essere "Possibly in Michigan", un cortometraggio della durata di 12 minuti dove assistiamo alla vicenda di due donne, Sharon e Janice, che si ritrovano ad aver a che fare con uno stalker, un uomo vestito di nero e con il volto coperto da un'inquietante maschera con la bocca spalancata.
Il sipario si alza in un centro commerciale dove le sue donne sono prese da una strana conversazione dietro il banco di una profumeria. Le battute che si scambiano sono confuse e surreali, come confusa e surreale è la maschera in lattice indossata da un individuo che le osserva da una distanza di pochi passi. Le due donne non sono affatto spaventate, nemmeno si accorgono di lui quando gli passano accanto, quasi come se egli non fosse reale. Eppure lui è lì, sullo sfondo, in ogni dannata inquadratura.
Certamente è un maniaco, la cosa mi pare sia abbastanza ovvia, ma è la sua capacità di evolversi che lascia sgomenti. La sua stessa maschera sembra cambiare continuamente forma, come se egli stesso fosse vittima di una mutazione interiore (o di un'evoluzione) che si riflette nella sua immagine. Ma sarà reale?
Diciamo che, nonostante l'aspetto tipicamente creepypasta del personaggio, la sua realtà non è mai messa in dubbio. C'è una chiara allusione all'orrore della vita reale ed è simbolico della violenza sulle donne, uno sguardo rivolto a quello che la Condit suggerisce essere il pericolo di finire nelle mani dell'uomo sbagliato (ovvio riferimento autobiografico) e un invito a sforzarsi di capovolgere a proprio favore le situazioni più sfavorevoli, anche se magari in maniera meno eccessiva di quella scelta per il finale di questo film.
La colonna sonora è quanto di più fuori contesto si possa immaginare, ma è chiaro che la scelta di far apparire il corto, perlomeno a tratti, una specie di musical, abbia contribuito non poco al successo di questa opera surreale che, a conti fatti, è una vera sfida per lo spettatore. La canzoncina che accompagna la visione, le cui note si insinuano nel cervello come la punta di un trapano, è qualcosa di tremendo e non mi stupisce che, a quanto ho letto, sia diventata virale su TikTok quale anno fa, subito dopo che il lavoro della Condit aveva ricevuto rinnovata attenzione sul web.
Se ve lo consiglio? Se apprezzate l'estetica anni Ottanta, "Possibly in Michigan" è certamente per voi. Per tutti gli altri, beh, sono solo dodici miseri minuti.
Nessun commento:
Posta un commento