In una stanza disperatamente vuota una donna culla su una sedia a dondolo una bambina di pochi mesi. Ha l’impressione di avere commesso qualcosa di terribile, ma non ne è certa, tutti i suoi ricordi sono sfocati. Contempla la piccola quasi si aspettasse da lei una risposta, una rivelazione. Poi, un bagliore: ha quarantadue anni, ha abbandonato il bel marito che l’ha lasciata per un’altra e si è rintanata lì, in un appartamento spoglio, in un quartiere dov’è una straniera. Il giorno prima ha ucciso a coltellate il suo analista, incapace di alleviare le crisi di terrore di cui soffre, in segreto, da tre anni. Di quel che è stata – ambiziosa direttrice della comunicazione, moglie e figlia devota – non le resta che un nome, Viviane Élisabeth Fauville, regale e fragile relitto di un’esistenza inappuntabile, della scrupolosa obbedienza alle leggi dell’abitudine e della necessità. Certa solo del delitto che ha commesso, e del colpo di grazia che non potrà tardare, Viviane esce dai binari che guidavano il suo destino, si addentra in una Parigi oscura e parallela, affonda in un gorgo di insostenibile angoscia – sino all’esplosivo epilogo.
La sinossi, che ho riportato fedelmente in apertura, mi ha chiamato dallo scaffale più alto della libreria. Molto più del titolo che, fosse solo per quello, sarei probabilmente passato oltre. In quella sinossi c'è aria di solitudine, di una solitudine di quelle terribili che fanno parte del normale ma necessario bagaglio di esperienze della giovinezza, ma che ci si augura di non riprovare quando la vita ha preso da tempo la sua strada e i giochi sembrano fatti. Viviane, la protagonista del romanzo di Julia Deck, il cui nome è banalmente lo stesso utilizzato per il titolo del libro, è una donna di mezza età, con una figlia di pochi mesi e un marito che dopo nemmeno un anno dalle nozze decide di mandare tutto in vacca e scappare con la baby sitter.
Di storie così probabilmente ce ne sono tante nel mondo reale, e forse qualcuna di queste l'ho pure sentita io stesso raccontare, ma sono storie sulle quali difficilmente ci si ferma a riflettere, a meno che non capitino a qualcuno di veramente vicino, un'amica o una sorella. Eppure sono storie che varrebbe la pena ascoltare, perché per quanto si possa dire di aver sperimentato la sofferenza per la fine di un rapporto, è certamente paragonabile a ben poche altre tragedie della vita.
Cosa farei se mi trovassi improvvisamente solo e con sulle spalle una responsabilità impossibile come quella di un figlio? Non ho una risposta. Innanzitutto perché non ho figli, ma anche perché non sono una donna che, per il suo stesso essere tale, può vantare con un figlio (in questo caso con a una figlia) un legame atavico che un padre può giusto immaginare.
Viviane sceglie la strada forse più banale, quella dell'analista, perché chissà mai che uno specialista possa essere in grado di arginare quelle sensazioni dirompenti con le quali le tocca aver a che fare da mane a sera. Qui si apre automaticamente un nuovo interrogativo. Perché una persona con delle difficoltà oggettive dovrebbe sentirsi rincuorata dalle parole di uno sconosciuto? Certo, le difficoltà oggettive vengono dopo quelle emotive conseguenti alla rottura di una relazione, ma se per le prime un analista non può farci nulla, per le seconde può solo attendere che una molla scatti, e che il paziente se ne faccia una ragione e si lasci tutto alle spalle.
Orde di analisti là fuori potrebbero leggere questo post e venire a bussare alla mia porta, ma non è colpa mia se credo che l'analisi sia un lavoro che serve solo a riempire di appunti quaderni o di byte cartelle del computer. La stessa autrice del romanzo, avendo studiato sia letteratura che psicologia, potrebbe avere molto a che ridire a proposito di quanto sto per dire, ma spesso mi chiedo se a un analista importi davvero qualcosa dei drammi di una paziente (l'ennesima) che soffre pene d'amore, e che invece di provare ad andare avanti rivive ogni giorno il suo dramma raccontandolo ancora, e ancora, e ancora, dal lettino di un tizio in camice bianco, che magari non è nemmeno bianco e magari nemmeno un camice.
Se lo chiede probabilmente anche Viviane, che un giorno si reca dal suo analista con un coltello, un coltello che era parte della sua lista nozze, il regalo di sua madre per gli sposi, e che assieme a tanti altri coltelli era rimasto abbandonato in quella che avrebbe dovuto essere l'abitazione della coppia per il resto della vita, e che ora è chiusa, abbandonata a raccogliere la polvere di un'esistenza interrotta.
Viviane sa che gli occhi indagatori del mondo lo stanno osservando. Un analista morto nel proprio studio non è un fatto che può passare inosservato, e nemmeno qualcosa che può smaterializzarsi con qualche battito di ciglia, ma un analista morto è una realtà scomoda che dovrà in qualche modo farsi da parte perché Viviane possa rimettere a posto i cocci della sua esistenza. Si fa strada la perdita di memoria, con quale troviamo alle prese la nostra protagonista nelle prime righe del romanzo. Lei stessa non sa chi è, cos'ha fatto. Non ne è certa, perlomeno, ma sente l'oppressione di qualcosa che non è solo un matrimonio frantumato o una bambina che deve mangiare ogni due ore.
Julia Deck è bravissima a renderci partecipi di questo disagio, giocando, narrativamente parlando, con un continuo cambio di pronomi: la prima persona singolare, che ci avvicina emotivamente alla protagonista, la seconda persona, che ci allontana, la terza persona, che complica ulteriormente le cose. Senza contare che dialoghi e monologhi non sono mai esplicitamente distinguibili, il che contribuisce anche a farci confondere la realtà oggettiva da quella soggettiva che ci presenta la protagonista, la quale, e lo capiamo ben presto, è una narratrice completamente inaffidabile. Inaffidabile soprattutto quando la sorprendiamo a indagare sul suo stesso crimine. Viviane in altre parole è sia un'assassina che una detective alla ricerca del movente della propria violenza. Ma noi lettori, quanto possiamo fidarci? Come in un romanzo giallo in cui si seminano falsi indizi, o in cui si approfitta di un momento di debolezza, o di una sbornia, o di un sogno, per raccontare eventi che non sono mai accaduti, Julia Deck approfitta di un personaggio mentalmente squilibrato per confondere le acque e trascinarci prepotentemente a un finale tutt'altro che ovvio.
Sono molti gli scrittori, classici e moderni, che hanno saputo creare narrazioni ansiogene e una genuina atmosfera di suspense sfruttando la tecnica del narratore inaffidabile, ovvero i cui personaggi sono a vario titolo mentalmente instabili, ma inevitabilmente quello che per primo viene alla mente è il Dostoevskij di "Delitto e Castigo"; un altro accostamento che si potrebbe fare (forse meno azzardato, dato che sono entrambi autori contemporanei) è con l’inglese Patrick McGrath. Parlo ovviamente di suggestioni personali, da lettore: Julia Deck come autrice si ispira al romanzo poliziesco e cita come sue forti influenze il conterraneo Jean Echenoz e il belga Jean-Philippe Toussaint, autori diversi che però (più focalizzato sulle dinamiche sociali il primo, più minimalista e introspettivo il secondo) giocano entrambi con la percezione della realtà per mostrarne gli aspetti più reconditi e svelare al contempo la complessità della natura umana.
Julia Deck (Parigi, 1974) è una scrittrice francese laureata
alla Sorbona e con esperienze nel settore editoriale. “Viviane
Élisabeth Fauville”, pubblicato nel 2012, è il suo primo romanzo
e ha riscosso grande successo sia di critica che di pubblico,
vendendo alla sua uscita circa 40.000 copie. Da questo libro è stata
tratta nel 2022 un’opera teatrale curata da Mélanie Leray e
interpretata da Marie Denarnaud. Le immagini a corredo di questo post provengono proprio da lì.
L'analisi può servire a far vedere al paziente l'irrazionalità del proprio comportamento (il sintomo nevrotico) e quindi permettergli di superare il malessere o l'agire inadeguato.
RispondiEliminaNon può fare moltissimo per un problema "oggettivo". Se il marito se ne è scappato e questo ha scombussolato il mondo di una donna, l'analista potrà cercare il modo di incoraggiarla ad attivare le sue proprie risorse perché affronti la situazione, riesca a tirarci una riga e ricominciare. Certo però il problema che può risolvere è sempre "di testa" e non pratico.
In effetti, una persona che si trova in condizioni oggettivamente fortemente svantaggiate può essere al massimo adatta per una terapia di sostegno ma non per la psicanalisi classica.
Condivido la tua analisi. Chiaramente se non si riesce a far scattare la molla che porta a oltrepassare una situazione complessa occorre che qualcuno sia in grado di porgere una mano. Gli amici a volte possono essere d'aiuto ma tutto sta nella disponibilità del soggetto a voler/saper ascoltare. E l'analista, a differenza di un amico, in genere sa quali pedine muovere.
EliminaCiao Severinoo! Forse torno in linea anche io e ho cambiato l'url del blog quindi non so se dovrò ricontattarvi uno per uno! Appena ho un po' mi tempo mi spulcio gli ultimi post!
RispondiEliminaOttimo, e il nuovo url è decisamente più in linea con i contenuti. ^_^
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