Il regista Norio Tsuruta prende il posto di Hideo Nakata sul ponte di comando e nel 2000 realizza ciò che oggi, a posteriori, non esito a definire il punto più alto della serie. Sembra strano che io affermi ciò, visto che solitamente i sequel (o, come in questo caso, i prequel) sono molto lontani dalla grandezza degli originali, ma in questo caso le cose vanno diversamente. Sebbene imprescindibile dal primo Ring di Nakata, Ring 0: Birthday (リング0 バースデイ Ringu Zero: Bāsudei) giunge a mio parere a sfiorare il capolavoro, offrendo agli appassionati della serie ciò che probabilmente nemmeno osavano sperare.
Ed è davvero facile immaginare che, nelle mani sbagliate, Sadako avrebbe potuto essere trasformata in un villain stile Jason o Freddy, capace solo di seminare morte e terrore facendo leva esclusivamente sul body count, o in un'improbabile, macabra femme fatale.
Al contrario, Sadako si rivela essere un personaggio addirittura romantico, e umanissimo nel suo provare vette di desiderio, passione, paura. Una volta esauriti i titoli di coda, i nostri sentimenti verso le sue ragioni sono ancora in bilico tra il terrore e la partecipazione. Il motivo? Vi ricordate di Carrie White, la protagonista dell’omonimo romanzo di Stephen King rappresentata al cinema da Brian De Palma? Ebbene, siamo proprio da quelle parti. Gli ultimi giorni di vita di Sakado Yamamura, così ben descritti, cancellano in un solo colpo tutto il castello di immagini che ci eravamo costruiti su di lei nei film precedenti e le donano una nuova profondità. E chi l’avrebbe mai detto?
In parte bisogna ammettere che è anche grazie al volto angelico di Yukie Nakama, cantante, attrice ed ex gravure idol, se lo spettatore è portato a provare simpatia, se non empatia, per Sadako, ma ciò non toglie che lo stesso sentimento venga infine rivolto anche al padre di lei, il dottor Ikuma (Daisuke Ban), un uomo torturato dal dubbio che ama profondamente Sadako ma non può sfuggire alle sue responsabilità.
In questo prequel riviviamo le giornate di una Sadako diciannovenne trent’anni prima del tragico finale che ormai conosciamo. Nel corso dei primi due lungometraggi avevamo assistito, per grandi linee, alle vicende che avevano portato Sadako, non vista, a scatenare i suoi poteri contro un giornalista che si era scagliato contro la madre, accusandola di essere una falsa medium. In Ring 0: Birthday ci troveremo invece a seguire Akiko Miyaji, ex-fidanzata della vittima e a sua volta reporter, mentre cerca di far luce su quel vecchio episodio del quale sospetta che Sadako, appena una bambina all’epoca, sia stata l’unica responsabile.
Dopo lunghe ricerche, Akiko rintraccia Sadako all’interno di una piccola compagnia teatrale di Tokyo nella quale la ragazza sta cercando di ritrovare se stessa lontano dagli angoscianti ricordi del passato. Le cose ovviamente non vanno come sperato: l’attrice protagonista muore durante le prove dello spettacolo e tutta la compagnia punta il dito verso Sadako, colpevole di essere introversa e riservata, ma soprattutto di essere apparsa in sogno, in veste malefica, a più persone contemporaneamente.
Anche a noi spettatori viene instillato in verità un piccolo dubbio, ma la definitiva chiarezza verrà fatta solo molto più avanti; la Sadako che ammiriamo recitare sembra una persona dolcissima, dolcissima e innocua, il cui potere psichico, seppure esistente, affiora in un paio di occasioni solo per dare sollievo alla sofferenza altrui, ma una forza misteriosa e oscura, indipendente dalla sua volontà, sembra fargli da contraltare.
La solitudine di Sadako rivela l'emarginazione che ha segnato la sua vita, mentre il suo talento per la recitazione è un indizio della sensibilità del suo animo. A fare da contorno all'atmosfera di sospetto e diffidenza che circonda Sadako c’è anche la delicata storia d’amore sbocciata fra la giovane e Hiroshi Tôyama, un tecnico di scena che sembra l’unico a giudicare la ragazza senza pregiudizio alcuno: è l'unico in grado di vedere oltre la superficie, ed è lui a incitarla ad accettare la parte della protagonista una volta che il ruolo è rimasto vacante. Gli avvenimenti, come è facile intuire, precipitano rapidamente e…
Quello che il regista Norio Tsuruta propone nel terzo episodio della serie Ring è un approccio completamente nuovo alla vicenda: Sadako è innanzitutto una vittima, la vittima di una sorte che le fu avversa fin dalla nascita, una condanna che l’avrebbe accompagnata nel corso di tutta la sua esistenza fino a raggiungere l’apice il giorno della sua drammatica conclusione. Sadako è una vittima tanto quanto (se non di più) tutti coloro che il destino ha portato sulla sua strada e in Birthday tutto questo è ancora più evidente, perché sin dal principio ci viene suggerito che il vero antagonista (un demone, uno spirito maligno o comunque vogliate chiamarlo) non è assolutamente “dentro” di lei.
Lo spettro che si aggira in questo film, e che a tratti sembra prendere le parti di Sadako, è un’entità esterna e, a conti fatti, è anche la vera causa della sua dannazione.
In questo stravolgimento di prospettiva, quella tragica sorte che si compie in fondo al pozzo acquista un senso ancora più profondo. Ikuma, il degenerato che uccise la propria figlia, non è che la pedina di un destino tragico e ineluttabile: è forse, anzi, la figura più sfortunata, il cui stesso ricordo sarà per sempre maledetto e dannato.
In un finale incredibile i cui momenti di terrore superano di gran lunga quelli del Ring originale, si rivela finalmente la vera natura del male e assistiamo all'origine del “super-demone”, quell’essere che finiremo per identificare in Sadako nei film successivi (ehm… precedenti). Potrei andare avanti per ore nel tentativo di spiegare meglio il senso delle mie parole, ma qualunque cosa possa dire in questa sede finirebbe per trasformarsi in un orrendo spoiler. Non è quindi il caso di proseguire oltre, anche tenendo conto che quanto visto in Birthday non avrà grosse ripercussioni sul proseguimento dello speciale “Ghost in the Well”.
Al termine di questa trilogia restano però diverse domande alle quali manca il conforto di una risposta definitiva. La più importante è sicuramente quella relativa al periodo di incubazione del “virus”, ovvero quei famosi sette giorni che separano la sua manifestazione (la visione del video) dalla sua conclusione (il decesso dell’interessato). Ricordate le regole del gioco, vero? Si guarda il video maledetto, si riceve subito dopo una telefonata e ci viene comunicato che il countdown è partito. Dopo una settimana esatta, non un minuto di più e non uno di meno, si muore (a meno che non sia abbia avuta la premura di infettare qualcun altro).
Ma perché sette giorni? Perché non quattro, oppure dieci o trenta? Il remake americano, come vedremo più avanti, cercherà di spiegare quei sette giorni come il lasso di tempo occorso a Sadako per morire di fame e di consunzione dopo essere finita in fondo al pozzo. Nella versione giapponese questa spiegazione (o qualsiasi altra, se è per quello) è invece completamente assente, sia nel libro che nel film. Tra l’altro, nel secondo film viene enfatizzato il particolare che Sadako sarebbe sopravvissuta in fondo al pozzo addirittura trent’anni, giustificando in questo modo il fatto che lo spettro abbia iniziato la sua “carriera” solo in tempi recenti; senza entrare nello specifico del “come” questo sia potuto avvenire, viene suggerito a più riprese che Sadako non fosse un normale essere umano (ma di questo riparleremo più avanti).
Questa versione è perfettamente coerente con lo sviluppo del personaggio immaginato da Hideo Nakata prima e da Norio Tsuruta poi: una Sadako resa folle dall'interminabile agonia nel pozzo, una Sadako la cui maledizione è frutto di una furia cieca e distruttrice e però totalmente priva di calcolo e pianificazione, come invece altre versioni della storia sembrano suggerire.
Una cosa evidentemente esclude l’altra e, proprio come un lenzuolo troppo corto, se si cerca di sistemare una questione se ne scombina un’altra. Se a tutto questo aggiungiamo che in una terza versione della storia, anch’essa Made in Japan, quel periodo viene stabilito in 13 giorni…
Probabilmente la risposta è da ricercarsi, ancora una volta, nel significato simbolico del numero sette in correlazione alla morte (lo stesso numero sette, shichi, contiene al suo interno la parola “morte”): nella tradizione giapponese si ritiene che l’anima del defunto, per sette giorni dopo il trapasso, debba sostare in una specie di limbo prima di poter attraversare il fiume Sanzu (三途の川 Sanzu-no-kawa) e raggiungere in questo modo l’Aldilà. Una credenza, questa, molto simile a quella greca che immagina un altro fiume, lo Stige, fare da confine tra il mondo terreno e quello ultraterreno.
Si dice anche che esistano tre diversi modi per attraversare il Sanzu: tramite un comodo ponte, attraverso un guado o nuotando in acque infestate da serpenti. La strada che si finirà per prendere dipende ovviamente da come ci si è comportati nel corso della vita. Personalmente ritengo che sia proprio questa la strada giusta per spiegare la scelta dei sette giorni, e la presenza dell’acqua non può che avvalorare la mia ipotesi. Sarebbe proprio questa credenza, di chiara matrice buddista, a far sì che nel settimo giorno dal lutto venga organizzata la cerimonia più importante in memoria del defunto e che successivamente tale cerimonia venga ripetuta per un periodo di sette settimane, in virtù del fatto che l’anima del defunto sarà sottoposta al giudizio di sette diversi “guardiani della soglia” a intervalli di sette giorni l’uno dall’altro (ricordiamo che, in base al Libro Tibetano dei Morti, si rimane in uno stato di esistenza intermedia, o bardo, finché non siano trascorsi quarantanove giorni: sette volte sette, ovvero sette settimane esatte). Nel corso di questi sette gradi di giudizio l’anima del defunto potrà essere “bocciata”, e quindi costretta a reinserirsi nel temuto ciclo di morte-rinascita, oppure promossa allo stadio successivo verso il traguardo ultimo, il Nirvana, che rappresenta la liberazione definitiva dalle sofferenze e dal dolore. Chi muore in preda al terrore e alla rabbia difficilmente riuscirà a recidere ogni legame con questo mondo. Mi pare evidente che proprio questo sia stato lo sfortunato destino di Sadako…
Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto, esso rappresenta la parte 13 in un totale di 100. Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. L'articolo è inoltre parte dello Speciale Ghost in the Well che è iniziato il primo del mese. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 13° candela...
Non ricordo nulla, ma la visione di Ring Zero all'epoca non mi piacque, ma magari l'ho visto frettolosamente: non confermo il giudizio!
RispondiEliminaInvece ho adorato ogni tua parola: complimenti ;-)
Ammetto che anch'io all'epoca lo sottovalutai. Credo sia normale quando si guardano film di una stessa serie a buona distanza l'uno dall'altro. Rivederli oggi in rapida sequenza mi ha permesso di capire cose che ai tempi mi erano sfuggite.
EliminaStai facendo un lavoro egregio e le tue descrizioni sono talmente complete e interessanti che temo sarebbe una delusione vedere il film per chi, come me, non ama molto il genere.
RispondiEliminaCristiana
Una risposta astuta, la tua.. ^_^
EliminaHo visto che non è ancora finita: scartabellando IMDB mi sono imbatturo in un certo "Rasen" del 1998... il "Rosemary's Baby" giapponese (cito).
RispondiEliminaA Rasen è dedicato proprio l'ultimo post di questo mese. Ma anche allora saremo ben lontani dal poter dire "è finita"!
EliminaLibera la scimmia che c'è in te! E' tempo do rigaurdarlo!
RispondiEliminaSi, decisamente è il capitolo più sottovalutato ma anche il più coerente di tutta la saga
RispondiEliminaProbabilmente lo hanno anche visto in pochi... Ho infatti la sensazione che il pubblico abbia abbandonato la nave dopo il secondo capitolo...
EliminaSi procede alla grande :O Il pozzo inquieta sempre, anche al solo vederlo nell'immagine XD
RispondiEliminaInteressante la questione del significato simbolico del numero sette: avevo intuito ci potesse essere una spiegazione per la scelta di detto numero, ma non sapevo il resto.
Certo che l'introduzione del demone-entità esterna pone tutto sotto altra luce...
Ciò che ho scritto a proposito del numero sette è naturalmente una mia ipotesi: bisognerebbe entrare nella testa di Hideo Nakata per comprenderne l'esatta origine. Il bello di questo prequel è proprio, come tu stessa dici, il totale ribaltamento dei punti di vista. Non sempre il male viene da dove ce lo aspettiamo.
EliminaNon l'ho visto ma il tuo post è perfettamente esplicativo sulla trama. Quindi anche qui abbiamo una genesi del "mostro" in cui il mostro non era affatto tale.
RispondiEliminaMi chiedo se questa operazione di umanizzare i mostri non nasconda una necessità inconscia dell'uomo di non poter accettare che esista malvagità gratuita, che, insomma, ogni comportamento malevolo abbia comunque un suo significato e non sia dettato dal solo piacere di fare del male...
Quello che dici è perfettamente possibile. Accettiamo molto più volentieri il male quando esso viene da fuori, nel senso che è più facile farsene una ragione.
EliminaPerò ammettiamolo: trent'anni viva nel pozzo non è proprio credibile. Meglio a questo punto la versione americana che parlava di sette giorni.
RispondiEliminaSe ci metti in mezzo il sovrannaturale, allora tutto è possibile. Anche i trent'anni.
EliminaInteressantissimo il significato simbolico del numero sette nella tradizione giapponese. Avevo letto anni fa anche Il Libro Tibetano dei Morti, mi rimasero impressi i capitoli sulle preghiere necessarie da recitare dopo la morte e agevolare il distacco definitivo. Pare comunque che in tutte le religioni sia riconosciuto questa sorta di interregno dove lo spirito deve sostare dopo il trapasso, prima di avviarsi al suo piano spirituale a seconda di come ha vissuto.
RispondiEliminaSe "trapassare" significa "attraversare" è inevitabile che vi sia un concetto intermedio come un guado o un più agevole ponte (e di ponti mi pare che nei giorni scorsi si sia parlato parecchio anche altrove)...
EliminaIl Libro Tibetano dei Morti è per me quello che per altri è la Bibbia o il Vangelo: ogni tanto sento il bisogno di aprirlo e di leggerne qualche brano. Ricordo però che la prima lettura fu abbastanza scioccante: pensare che la morte sia altrettanto importante della vita, se non di più, che come si muore è più importante di come si è vissuto, al punto che questo può portare a un’involuzione perfino dopo una vita virtuosa, e viceversa… non trovai nessuno di questi concetti molto confortante, ecco. Anche perché, come non scegliamo in che circostanze nascere, non possiamo scegliere neanche in quali morire e non tutti hanno la fortuna di farlo serenamente nel proprio letto (come la nostra Sadako nella finzione). Il discorso sarebbe lungo e complesso e per qualcuno anche triste da affrontare, perciò la chiudo qui ;) Diciamo che, per fortuna, ci sono delle meditazioni che aiutano a prepararsi al proprio futuro (e si spera il più lontano possibile nel tempo) trapasso. O a illudersi di farlo.
EliminaIl tuo è proprio un bel blog, Cristina. Credo che verrò a visitarti più spesso in futuro :D