domenica 2 dicembre 2018

Orizzonti del reale (Pt.18)

Timothy Francis Leary (1920–1996)
LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Nel 1960 le nuove sostanze che permettevano l’espansione della coscienza furono classificate come psicopatomimetiche, perché si riteneva che potessero trasformare degli individui normali in psicopatici, o quantomeno indurli ad agire come tali. Per gli psichiatri sostanze come la mescalina e l’LSD erano degli strumenti tramite i quali era possibile manipolare le persone, aprire un varco tra le loro difese psicologiche e portare alla luce i loro sentimenti più nascosti. 
Leary non concordava affatto con questa visione delle cose, in base alla quale il vero io dell’uomo era fondamentalmente malato e non poteva esistere alcuna visione o rivelazione mistica, e definiva la letteratura psichiatrica “un moderno Inferno freudiano […] austero di angosce e di conflitti”. Fu per questo che, nell’ambito della sua ricerca, si attenne a regole molto particolari. Regole che egli stesso aveva stabilito, ma che qualcuno in seguito giudicò non molto ortodosse.
Punto primo: non c’era alcuna selezione dei candidati. I soggetti, tutti volontari, non erano scelti sulla base di criteri predefiniti o di esami, e venivano informati solo del fatto che gli sarebbe stata somministrata una sostanza che avrebbe potuto causare dei cambiamenti temporanei alla loro percezione della realtà. Secondo, egli non avrebbe mai catalogato i volontari e le loro esperienze con definizioni diagnostiche, cliniche, per non rischiare di sovrapporre i propri schemi mentali ai risultati ottenuti. Terzo, come diretta conseguenza delle prime due regole non ci sarebbe stata alcuna diagnosi, nessun giudizio e nessun esame comportamentale dei soggetti. Lo studio doveva non solo determinare i fattori che originavano reazioni positive alla psilocibina, ma stabilire se queste fossero durature o meno.
Quello che gli interessava di più era proprio quest’ultimo punto: coloro che avevano preso la psilocibina dovevano descrivere agli altri come questa esperienza aveva cambiato le loro vite. Le riunioni avvenivano in ambienti controllati ed erano ammessi degli osservatori, anche parenti o amici del soggetto, che a loro volta avrebbero fornito una testimonianza, riferendo le parole dei soggetti osservati durante e dopo l’esperienza. 
La parte principale del progetto riguardava il trattamento dell'alcolismo e la riabilitazione dei criminali. Leary sentiva che ogni studente di Harvard avrebbe dovuto fare il tirocinio in una prigione, alle prese con persone reali e problemi reali, spesso molto gravi. Alcuni studenti laureati vennero prescelti per prendere le droghe con i detenuti del Penitenziario Concord, la Casa di Correzione del Massachusetts. Anche per questo motivo, che di fatto abbatteva le barriere fra medico e paziente, fra uomo libero e detenuto, nel decimo capitolo (Trip 10) de “Il Gran Sacerdote” Leary descrive gli incontri con i detenuti come vere e proprie “riunioni familiari”. 

L’Esperimento Concord cominciò nel marzo del 1961 e si protrasse per circa due anni: alla sua base c’era l’idea che, nell’ambito di una terapia regolare con uno psicologo, in dosi adeguate e in un ambiente protetto, le sostanze psichedeliche potessero contribuire a modificare dei comportamenti radicati. In effetti, molti dei soggetti della ricerca riferirono di aver avuto profonde esperienze mistiche e spirituali che li portarono a modificare in modo positivo e permanente la propria vita (venivano naturalmente effettuati anche dei test della personalità prima e dopo la terapia, ma la loro importanza era più marginale). 
Leary calcolò che solo il 32 per cento dei prigionieri in libertà vigilata che parteciparono al suo progetto di riabilitazione furono incarcerati nuovamente, contro un tasso di recidività locale che oscillava tra il 50 e il 70 per cento e un tasso medio nazionale del 60. In seguito nemmeno i suoi collaboratori seppero dire con certezza come fosse stata calcolata quella percentuale, e naturalmente questo risultato fu duramente contestato. Qualcuno addirittura lo accusò di aver manipolato i risultati delle sue osservazioni, altri semplicemente di aver calcolato male l’indice di recidività, sia per via delle tempistiche di monitoraggio del gruppo di studio da parte del gruppo di controllo, sia per via del fatto che non tutti gli ex galeotti venivano incriminati nuovamente per lo stesso reato che li aveva portati in prigione la prima volta. Ralph Metzner, che aveva preso parte al progetto, dichiarò poi che probabilmente Leary (come lui stesso, del resto) era caduto vittima del cosiddetto “effetto alone”, un meccanismo inconscio in base al quale i ricercatori tendono a valutare i risultati del proprio lavoro sulla base delle proprie aspettative.

Comunque sia andata, c’è un fatto che non si può negare: è possibile che molti di questi uomini fossero davvero cambiati con la terapia, ma una volta liberati non riuscissero a rifarsi una vita e finissero per ricadere nell’illegalità per poter sopravvivere. Alcuni, forse, speravano inconsciamente di essere arrestati di nuovo per poter tornare a far parte dell’unica comunità che poteva accettarli, l’unica nella quale si sarebbero mai sentiti a proprio agio: quella del carcere. Perché molti di questi, fuori di lì, non avevano famiglia né amici. Non era neppure necessario commettere un nuovo reato per tornare in galera: bastava farsi trovare a bere alcolici durante il controllo del sorvegliante, o dimostrare di non essere stati molto solerti nel cercarsi un lavoro. 
L'Esperimento Concord prevedeva un piano post-scarcerazione per fornire agli ex detenuti in libertà vigilata non solo un punto di ascolto, ovvero dell’assistenza morale, ma anche un aiuto pratico per trovare un lavoro, affrontare la burocrazia, eccetera, tuttavia le speranze che questo potesse essere retto da ex internati svanirono subito. “Avevamo troppo pochi uomini nell’area di Boston e questi erano troppo presi dalla lotta disperata per la sopravvivenza per avere tempo disponibile per aiutare gli altri” ricordò Leary più tardi. Nacque allora il Progetto Contatto, che avrebbe dovuto garantire rapporti regolari fra tutti i membri del gruppo. Si sperava che col tempo questo progetto estemporaneo potesse trasformarsi in un progetto ufficiale sulla falsariga delle riunioni degli Alcolisti Anonimi, un gruppo tipo famiglia o clan che potesse creare una “rete di protezione” attorno agli ex detenuti per tenerli fuori dai guai.

Michael Hollingshead  (????–????)
Per un po’ la cosa funzionò. Leary (come gli altri professori e studenti) incontrava questi uomini per un caffè a casa loro o una puntata al pub, e nel frattempo cercava di mantenere buoni rapporti con i funzionari pubblici che avevano in mano le sorti del progetto. 
Dal punto di vista burocratico, finché il lavoro ebbe risultati positivi non ci furono intoppi, anche se molti si mostravano scettici sulle sue possibilità di successo a lungo termine. Ma l’idea di creare un centro per gli ex detenuti dovette essere abbandonata, e né Leary né gli altri se la sentivano di vivere con loro, perciò per quanto le loro intenzioni fossero lodevoli, la realtà è che permaneva fra tutti loro una distanza incolmabile, la stessa che c’è fra gli abitanti dei quartieri-bene e quelli dei quartieri più poveri e degradati.
Nel frattempo, alla fine del 1961, Leary conobbe “il divino furfante” che lo iniziò all‘LSD, e che in seguito tornò in patria con la missione di diffondere l’LSD in Inghilterra: Michael Hollingshead. Hollingshead, un inglese che aveva lavorato per l’Istituto di Scambi Culturali Angloamericani di New York, era in possesso di un grammo di LDS che diceva di aver ottenuto dalla Sandoz tramite un dottore suo amico, e gli diede la possibilità di fare il suo primo trip (anche a questo ho già accennato, qui). 
La storia dell’LSD-25 è arcinota. Questa sostanza, uno dei 25 composti ricavabili dalla segale cornuta, era nota già dal 1938, ma le sue qualità psicoattive furono scoperte solo qualche anno dopo, nel 1943, quando il dottor Albert Hofman ne assunse per sbaglio una grande quantità; in seguito, Hoffman lo avrebbe definito “il mio bambino difficile” e gli avrebbe dedicato l’omonimo libro, il primo di alcuni saggi a tema LSD. Dieci anni dopo, la casa farmaceutica Eli Lilly produsse la sua sintesi, e da allora gli Stati Uniti ebbero una fonte di approvvigionamento interna, con tutte le conseguenze del caso.

10 commenti:

  1. Non conoscevo questa storia del tentativo di utilizzare farmaci allucinogeni nel contesto di una possibile riabilitazione di detenuti. Erano proprio gli anni '60.

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    1. Sì, erano proprio gli anni Sessanta. In nessun'altra epoca, in seguito, ci si permise più di essere così ottimisti. Non in un simile ambito, almeno. ;-)

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  2. Splendido trip....ops, volevo dire viaggio per territori a me ignoti, con un accompagnatore d'eccezione ^_^

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  3. Anch'io ero all'oscuro di tutto ciò. O meglio, come ricordo di averti scritto all'inizio di questa tua avventura, so poco di tutta l'esperienza learyana. Mi farà quindi piacere esserne edotto e confrontarla con l'esperienza castanediana per cogliere similitudini e differenze.

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    1. Anch'io trarrò giovamento da questo confronto, Ivano. A mia volta, come ben sai, so poco o nulla di Castaneda, ad eccezione di quanto ho appreso da te. Di Leary posso dire che ci sono aspetti della sua storia e della sua personalità che ben pochi conoscono.

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  4. Mi pare di capire che prima ancora di una terapia, il problema è che bisognerebbe costruire delle basi pratiche e poi eventualmente adottare delle terapie.
    Molto interessante questo articolo.

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    1. Grazie, Kuku. ^_^

      Le scuole psicoanalitiche sono tante e tali che non ho mai avuto il coraggio di approfondire davvero, ma se vuoi la mia opinione, credo che la terapia andrebbe scelta in base al paziente e non imposta o comunque vista come unica scelta possibile. E' difficile generalizzare, ma conosco persone che sono state in terapia e molte di queste hanno smesso di vedere l'analista non perché avessero risolto i propri problemi, ma perché a un certo punto si erano accorte che il percorso che avevano intrapreso non li stava aiutando.

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    2. Infatti mi sono sempre chiesta come una persona che vuole fare una terapia scelga il tipo di percorso e un terapeuta. E' un modo di procedere a tentativi?

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    3. Temo di sì, sai. Non so neanche fino a che punto un profano (come posso essere io) possa comprendere la differenza tra un tipo di approccio terapico e un altro. Sempre che non si abbiano problemi di soldi, e allora mi sa che tutte queste considerazioni perdono di valore davanti alle eventuali differenze nella parcella... Comunque, ho visto persone cambiare terapista dopo mesi o anni e altre abbandonare la terapia per sempre, e il tutto mi è sempre sembrato più il frutto di un impulso o forse dell'esasperazione che di un vero ragionamento.

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