LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI
“Questo infatti ho più che mai odiato, aborrito e maledetto: questa soddisfazione, la salute pacifica, il grasso ottimismo del borghese; la prospera disciplina dell’uomo mediocre, normale, dozzinale.” (Herman Hesse, Il lupo della steppa)
Non potevo parlare così a lungo di Timothy Leary senza menzionare quello che possiamo indicare senza alcun dubbio come il suo più perfetto alter ego letterario e cinematografico: Harry Haller, il protagonista di uno dei più famosi romanzi di Herman Hesse, trasposto al cinema dal regista Fred Haines.
A quanto pare, durante la sua latitanza in Svizzera Leary discusse con il regista Fred Haines di una sua partecipazione a “Il lupo della steppa” (Steppenwolf): Leary avrebbe dovuto interpretare il ruolo principale, quello di Harry Haller, appunto. Ma come già sapete, se avete letto i post precedenti, Leary dovette lasciare la Svizzera su pressione del governo degli Stati Uniti perché persona non gradita, e così Haines dovette “ripiegare” su Max von Sydow; quando il film finalmente uscì, nel 1974, Leary si trovava già in carcere. Da cinefilo ammetto che ci è andata bene, anzi benissimo, tuttavia non mi sarebbe dispiaciuto vedere Leary alle prese con un personaggio uscito dalla penna di uno degli autori che più ammirava.
Hesse non ha certo bisogno di troppe presentazioni. Al grande scrittore è dedicato un intero capitolo del saggio di Leary “The Politics of Ecstasy”, di cui ho già parlato a lungo negli articoli precedenti. Hesse è, a parer suo, lo scrittore che più di ogni altro seppe mostrare il progresso della mente tramite gli stadi della vita, le cui opere sono mappe del viaggio interiore che, benché spesso non vi si menzioni esplicitamente le droghe, proprio da queste è reso possibile.
Ho cercato in lungo e in largo un racconto in prima persona di come fu che Haines pensò a Leary per il suo film, sebbene la risposta, se avete il letto il romanzo, possa apparire scontata. La verità è che se questo aneddoto è giunto fino a me lo devo unicamente alla testimonianza di Michael D. Horowitz, l’archivista di Leary, a lui legato da una lunga amicizia (Leary fu il padrino di sua figlia Winona Ryder).
La trama del romanzo, com’è noto, gira attorno a un uomo di mezz’età colto da una profonda crisi esistenziale. Harry Haller è un poeta e un filosofo cui la vita ha riservato dolori e amarezze e, riflettendo sul passato e sul presente, fatica a trovare un motivo per andare avanti, progettando perfino il suicidio. La sua insoddisfazione deriva dall’essere schiavo di una società chiusa e soffocante, e di una personalità dalla doppia natura fatta di estremi impossibili da conciliare: umanità e bestialità, spirito e istinto. Sull’orlo del baratro, Haller incontra Erminia, una donna che cambierà il corso della sua vita. Erminia gli presenta la bella Maria e il musicista Pablo, lo inizia alle droghe psichedeliche e lo introduce nel “teatro magico”.
Tuttavia, “Il lupo della steppa” termina con l’invito dell’autore a imparare l’ironia: l’umorismo consiste nel non prendere sul serio prima di tutto se stessi, e la grande risata degli immortali (come Mozart e Goethe, due dei miti di Haller) nella cura per il male di vivere.
“I lupi della steppa che sono senza pace, che soffrono continuamente e terribilmente, che non hanno lo slancio necessario per arrivare alla tragedia, per penetrare nello spazio astrale, che sentono la vocazione dell’assoluto eppure non vi possono vivere: quando il loro spirito si è fatto abbastanza forte ed elastico nella sofferenza, trovano la confortante via d’uscita dell’umorismo. Questo rimane sempre, in qualche modo, borghese quantunque il borghese autentico sia incapace di comprenderlo. Nella sua sfera immaginaria si realizza il complicato e multiforme ideale di tutti i lupi della steppa: qui è possibile non solo riconoscere la santità e il godimento, avvicinare per forza i due poli, ma includere in questo riconoscimento anche la borghesia. Chi è posseduto da Dio può benissimo accettare il delinquente e viceversa, ma a tutti e due, come a tutti gli assoluti, è impossibile accettare ancora quel tepore medio e neutro che è la borghesia. Soltanto l’umorismo, la stupenda invenzione di chi si vede troncata la vocazione alle cose più grandi, l’invenzione dei tipi quasi tragici, degl’infelici dotati di massima intelligenza, soltanto l’umorismo (la trovata forse più singolare e più geniale dell’umanità) compie l’impossibile, illumina e unisce tutte le zone della natura umana alle irradiazioni dei suoi prismi. Vivere nel mondo come non fosse il mondo, rispettare la legge e stare tuttavia al di sopra della legge, possedere come se non si possedesse, rinunciare come se non fosse rinuncia: tutte queste esigenze d’un’alta saggezza di vita si possono realizzare unicamente con l’umorismo.”
Se guardate un po’ di fotografie di Leary vedrete che, anche nel periodo della latitanza e dell’arresto, il nostro aveva spesso sulle labbra un largo sorriso. Sì, a Leary piaceva ridere. Molti avranno pensato, e continueranno a pensare, che il suo sia un riso di scherno, canzonatorio, o magari strafottente, quello di un uomo che sfida le regole fiducioso o certo di farla franca. A me pare invece quello di un individuo che affronta sereno le tempeste della vita, ovvero quello di un inguaribile ottimista.
L’autore afferma chiaramente che Haller si sbaglia. La grossolana, primitiva divisione che egli fa della sua anima tra uomo e lupo, spirito e istinto, è ben lontana dal definire la sua umana complessità, che è in realtà una molteplicità. Per superare questa visuale ristretta egli dovrà trovarsi “di fronte a se stesso”, dovrà “vedere il caos nella propria anima e arrivare finalmente a una perfetta conoscenza di sé”: “Uomo e lupo sarebbero costretti a riconoscersi a vicenda senza false maschere sentimentali, a guardarsi apertamente negli occhi. Allora o esploderebbero e si staccherebbero per sempre, sicché non ci sarebbe più il lupo della steppa, o concluderebbero alla luce dell’umorismo nascente un connubio di convenienza.”
Comprendere la propria vera natura comporta la disgregazione dell’io, un processo doloroso che sia Haller nella finzione che Leary nella realtà dovettero affrontare e che fu reso possibile, in primis, dalle droghe.
Il climax di quest’esperienza arriva dopo che Haller, prima di esplorare gli infiniti corridoi del teatro magico e le porte che su questo si affacciano, viene esortato dall’amico Pablo a guardarsi allo specchio e lì vede il suo viso frammentarsi in un’infinità di immagini che si accavallano e si confondono, sicché lo specchio è pieno di Harry, di pezzi di Harry. Come dite? Anche voi state pensando a Woody Allen? Chissà se il titolista che scelse “Harry a pezzi” (1997) come traduzione di “Deconstructing Harry” (film che, guardacaso, parla di uno scrittore in crisi) aveva in mente questo libro (poi, vabbè, la storia va da tutt’altra parte, lo so bene; e un certo gusto per il surreale è tipico del cinema di Allen, senza bisogno di andare a scomodare Hesse o chissà chi altro).
Dopo aver visto la scissione del proprio io, Haller apprende che può ricomporre i pezzi di sé in qualunque momento e come più gli aggrada: si chiama “costruzione della personalità”. In seguito, nelle stanze del teatro magico rivede molte persone del suo passato, vive e giovani com’erano allora, e si accorge di poter vivere fantasie, sogni e desideri che in precedenza erano rimasti solo delle potenzialità inespresse.
Ma lasciamo da parte il romanzo, di cui ho già detto abbastanza; parlando invece del film, nonostante l’assenza di un personaggio scomodo come Leary non mi stupisce che in Italia sia ben presto sparito dai radar (wikipedia riporta che alla sua uscita non ebbe buoni esiti e neanche una successiva versione italiana curata da Cesare Ferrario nel 1983 gli procurò una maggiore fortuna).
La mia opinione è che Haines abbia fatto un buon lavoro nell’adattare un testo non semplice e immediato, riuscendo a permeare tutta la scena di un’aura di irrealtà quasi palpabile. Notevoli le scene di animazione in cui il protagonista si trova nel teatro magico: a voler essere pignoli la resa non è perfetta, ma i fondali appaiono dechirichiani quanto basta, e piccoli dettagli rimandano non troppo velatamente all’immaginario di Bosch e rendono tutto un po’ inquietante.
Il risultato, un miscuglio di surreale e psichedelico, deve essere stato alquanto indigesto per un pubblico generalista, anche se il film a mio parere non è né lento né noioso. Il valore di un film come questo, però, va oltre la sua riuscita, perché è allo stesso tempo un pezzo di cinema, letteratura per immagini e un documento storico di cui il tempo, spero, sarà un custode prezioso.
Ho letto il libro e visto il film (al cinema) più o meno nello stesso periodo, nella seconda metà dei '70. Mi entusiasmò il primo e mi piacque il secondo. Ma non mi sono ancora cimentato né in una rilettura né in una ri-visione. Non sapevo in ogni caso nulla della connessione con Leary.
RispondiEliminaAnche a me sono piaciuti sia il libro che il film. Leary era un ammiratore di Hesse e a posteriori il suo legame con la figura di Harry Haller è abbastanza evidente, ma neppure io sapevo nulla di tutto ciò fino a che non sono incappato in un'intervista con Horowitz, questa: https://boingboing.net/2017/08/30/interview-with-timothy-leary-a.html
EliminaIn realtà non so dirti se fu proprio Haines a pensare a Leary per la parte (Horowitz dice che furono due produttori a contattarlo, e io non sono riuscito a trovare alcuna testimonianza di Haines), ma mi piace pensarlo. Di chiunque fosse, comunque, era un'idea geniale!! Peccato non sia sia concretizzataa.
Ahimé, mi costringi a mettere in mostra ulteriormente la mia crassa ignoranza poiché ammetto di non aver visto il film, ma soprattutto di non aver letto il romanzo di Hesse, ammissione grave, lo so. Dovrò in qualche modo provvedere...
RispondiEliminaNon ti crucciare, Ariano. Sapessi quante lacune ho io... per esempio, pur interessandomi al Giappone non posso dire di avere la tua conoscenza enciclopedica in merito. Purtroppo non c'è tempo per approfondire tutto. ;-( Per questo leggo molti libri... e molti blog, o almeno ci provo. ^__^
RispondiEliminaAmmetto che mi mancano sia il romanzo che il film...come Ariano ammetot la mia crassa ignoranza.
RispondiEliminaNulla di grave... puoi sempre rimediare. ^__^
EliminaHo sempre considerato Hesse un po' troppo filosofico per i miei gusti, soprattutto perché era sovraesposto in certi ambienti culturali di sinistra negli anni '90, però con questo post mi hai aperto una breccia tale che l'ho messo subito in lista.
RispondiEliminaCapisco cosa vuoi dire, la passione per certi autori in certi ambienti sfiora quasi il fanatismo. Credo però che almeno un Hesse nella vita vada letto, spero che lo apprezzerai come l'ho apprezzato io.
EliminaPer i contenuti dell'opera Leary sarebbe stato in effetti un perfetto Haller. Proprio questo viaggio nel "teatro magico", una sorta di percorso onirico - che fascino questa invenzione - in cui Leary sarebbe come stato se stesso... ne sarebbe scaturita la perfezione.
RispondiEliminaMa quanto è bella e vera quella definizione di ironia?
Più avanti nel testo ho trovato somiglianze con le teorie pirandelliane sull'uomo moderno e il suo straniamento rispetto al reale.
Il teatro magico è, in effetti, proprio la messa in scena di ciò che potenzialmente può accadere con l'uso degli psicotropi. Sapevo che qualcuno avrebbe colto il parallelismo con Pirandello, anche se io non l'ho citato. Quel qualcuno non potevi essere che tu.
EliminaCiao come stai?
RispondiEliminaPasso per segnalarti qualcosa che ho scritto sul libro di Ivano.
Se ti fa piacere passa a leggere.
Un abbraccio
http://ilbuioinsala.blogspot.com/2021/05/recensione-del-libro-di-ivano-landi.html?m=1
Sì, ho visto il post di Ivano. Appena possibile corro a leggere. :-)
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