Ho fatto un sogno ieri notte. Protagonista era la versione quattordicenne di me alle prese con una delle lezioni più assurde mai uscite dall'immaginazione dei più sadici istitutori. Sto parlando delle temibili lezioni di "aggiustaggio", termine che alla maggior parte di voi non dirà nulla ma che è stata per lungo tempo una spina nel fianco di tutti i maschietti (non è corretto: una microscopica quota rosa, in realtà, c'era anche tra noi) che frequentavano il biennio dell''istituto tecnico industriale, altrimenti conosciuto come ITIS. Svegliandomi di soprassalto in un mare di sudore ho ritenuto opportuno fissare quei ricordi, inaspettatamente riaffiorati, in un nuovo episodio della serie “Confessioni di una Maschera”, piccola collezione di ricordi sparsi buttati lì senza un filo logico.
Erano i primissimi anni Ottanta, anni in cui l'Italia, sopravvissuta a un decennio tra i più dibattuti del secolo breve, spostava candidamente la sua attenzione dalle stragi mafiose ai fasti sportivi della nazionale di calcio. In quell'edificio scolastico della periferia milanese, che in precedenza fu teatro di occupazioni leggendarie, facevo il mio ingresso con tutto il bagaglio di ingenuità che mi portavo dietro dalle scuole medie. Passando in rassegna il programma settimanale, in mezzo ai prevedibili appuntamenti con le materie canoniche, faceva capolino un termine che sul momento mi diceva poco, ma che gli studenti più grandi ci dipingevano come qualcosa di orribile: l'aggiustaggio, appunto. Non ricordo, per essere sincero, se settimanalmente fossero previste due o quattro ore di aggiustaggio, ma se dovessi provare a indovinare direi due, anche se a conti fatti sembravano venti.
In pratica l'aggiustaggio (cito wikipedia per comodità) "è una lavorazione dei metalli che si svolge a freddo al banco in officina. Si compone di varie fasi, non sempre tutte necessarie, di cui la principale è la limatura. Il posto di aggiustaggio è tra i più importanti dell'officina ed oltre al banco con la morsa dispone di numerosi utensili e attrezzi, di solito replicati per comodità ed efficienza su ogni eventuale altro banco." Detto in altre parole, il corso di aggiustaggio era una sorta di avviamento al lavoro in fabbrica, ideato per mettere in condizione gli studenti di una scuola senza troppe pretese di levarsi alla svelta dalle palle e andare a trovarsi un lavoro. Iscrivere i propri figli all'ITIS era infatti una scelta quasi obbligata per le famiglie a basso reddito, famiglie che puntavano su un tipo di istruzione rapida, che poteva concludersi nel giro di pochi anni e che escludeva a priori l'ipotesi di un figlio accozzato in un'università fino ai trent'anni. Per quanto mi riguarda la scelta era anche stata pilotata dalla vicinanza della scuola e dalla possibilità del triennio di specializzazione elettronica, che mi attirava non poco.
Non avevo però fatto i conti con l'aggiustaggio, ore da incubo che psicologicamente non ho mai superato. Per farla breve ad ogni studente veniva affidato all'inizio dell'anno un parallelepipedo di ferro grande come un pacchetto di sigarette e suo compito era quello di mettere in piano tutte le facce armato di lima. Sembra facile? Nella pratica è impossibile. Al termine del biennio non avevo messo in piano nemmeno una faccia, mentre le dimensioni di quel dannato parallelepipedo si erano ridotte del cinquanta per cento. Una frustrazione assoluta. E i miei compagni, ve lo assicuro, non erano messi meglio.
L'insegnante era un personaggio da commedia amara, e sospetto che molti dei suoi colleghi di aggiustaggio fossero uguali a lui. Di origini calabresi, si esprimeva in uno strano mix di italiano e dialetto che nemmeno i compagni suoi conterranei comprendevano pienamente. Grossi baffi ingialliti dalle troppe sigarette e un carattere scontroso che, solo alla fine del biennio, rivelò essere una maschera che si era costruito addosso solo per essere più credibile come educatore. Persona a conti fatti straordinaria, in grado di insegnarci la tenacia, a non abbandonare mai la lotta, nemmeno quando i calli sulle mani proliferano e le speranze di successo sembrano svanire.
Ore e ore trascorse a muovere inutilmente una lima avanti e indietro, intervallando talvolta (non ricordo nemmeno il perché) con qualche più soddisfacente attività di foratura tramite trapano a colonna. Ho il netto ricordo anche di due sostanze diversamente colorate: un inchiostro blu di Prussia disciolto in olio, che consentiva di verificare la planarità del pezzo (e che ci condannava sistematicamente), e un liquido bianco simile a liquido seminale (usavamo in realtà un termine meno ricercato, come vi sarà facile immaginare) che aveva funzioni di raffreddamento e di cui conservo ancora il ricordo del terribile odore. Ho respirato, in buona sostanza, tonnellate di limatura di ferro senza uno scopo, vestito con una tuta blu di tre taglie più grande che mio papà, tracciatore meccanico di quarantennale esperienza, mi aveva prestato con un moto di orgoglio che non ho saputo onorare.
I miei studi sono stati completamente diversi proprio perché la mia "manualità" è molto limitata (non so neppure scrivere con una calligrafia decente, viene sempre fuori una sfilza di scarabocchi che io soltanto sono in grado di decifrare). Penso che sarei collassato in pochi giorni con una materia del genere.
RispondiEliminaA quell'età si sopravvive a tutto, anche a due ore di lima ogni settimana. Il vero problema è lo sconforto di non riuscire a combinare nulla con quel dannato cubotto metallico. Ho provato una sensazione simile con il cubo di Rubik, che casualmente sbarcò in Italia negli stessi anni, ma almeno lì completare una faccia era piuttosto semplice (una sola però, due era troppo, figuriamoci sei).
EliminaNoi facevamo le basette elettroniche. Che pessimi ricordi che mi porto dietro.
RispondiEliminaQuelle si facevano nel laboratorio di impianti. Si iniziava da un progettino semplice, con resistenze, condensatori e diodi (spesso con il mitologico integrato 555) e si costruiva un prototipo sulla basetta provacircuiti (che tra l'altro ancora conservo). Dopodiché si realizzava il layout della basetta vera e propria, armati di trasferibili, pezzi di vetronite e vaschette di acido, e su di essa si assemblavano i componenti.
EliminaMI divertivo come un matto! In tal modo mi ero costruito tanti piccoli oggetti interessanti, tra cui ricordo un piccolo circuitino che faceva funzionare le quattro frecce sulla mia scassatissima 127 (la mia prima auto, che ovviamente non ne era dotata)
Ho fatto studi più acculturati, niente prove di laboratorio. Ma ricordo i primi anni del ginnasio, la matematica impenetrabile, l'alfabeto greco da imparare per il giorno dopo, le impossibili versioni di latino. Che tempi...
RispondiEliminaLa matematica è stata per anni un mistero impenetrabile anche per me, ma non potevo tirarmi indietro e così, alla fine, due conti ho imparato anche a farli. Latino e greco erano problemi di quei miei coetanei che avevano scelto il classico e, a furia di sentire i loro discorsi, un giorno decisi che mi conveniva tenermi stretta la matematica.
EliminaRicordo. Perfettamente. Ogni. Cosa. Quella lima di merda e quel liquido spermiforme di merda. Se mi concentro ricordo l'odore alla perfezione. Per fortuna a noi facevano anche fare un po' di tornio, per cambiare un po'. L'ITIS! Ma perché diavolo ho fatto quella scuola, perchè?!?
RispondiEliminaDi solito ci si iscrive all'ITIS per ragioni molto basiche: la vicinanza, gli amici, la luce in fondo al tunnel (diploma e via a lavorare), le maggiori possibilità di far casino (almeno sulla carta)...
EliminaIo ho studiato come odontotecnico e devo dire che le lezioni di "Laboratorio" (il corrispondente della vostra officina) presentavano cose simili all'aggiustaggio.
RispondiEliminaBeh, non mi stupisce. Anche l'odontotecnico in fondo usa un trapano. O no?
Elimina