Si tratta forse di un particolare noto a pochi, ma in Giappone le fondamenta dell’estetica horror contemporaneo vennero gettate da
Chiaki J. Konaka, scrittore e sceneggiatore giapponese noto per essere il creatore di
Digimon Tamers e
Ultraman Gaia, nonché per le sue opere ricche di elementi lovecraftiani (vedi anche il
post del film recensito qualche tempo fa). Lo fece nel suo libro “
Horā Eiga no miryoku: fondamentaru horā sengen” (
The fascination of horror films: manifesto of fundamental horror), scritto con l'aiuto di
Kiyoshi Kurosawa (il regista di "Kairo", 2001) e dell’animatore
Akira Takahashi (padre degli anime
City Hunter,
Death Note,
Inuyasha, ecc.). In quel testo, di cui parleremo in maniera più approfondita in un prossimo futuro, si sarebbe rivisto
Takashi Shimizu, uno dei registi più iconici del cinema giapponese moderno. Cosa potrebbe saltare fuori da un incontro tra Shimizu e Konaka? E cosa potrebbe aggiungere a questo mix, già sufficientemente esplosivo, un nome leggendario come quello di
Shin'ya Tsukamoto, padre del manifesto cyberpunk
Tetsuo? La risposta ha otto lettere:
Marebito.
L'anno è il 2004, anno in cui Takashi Shimizu stava vivendo il momento più alto della sua carriera. La sua Kayako aveva attraversato l'oceano, e proprio in quei giorni aveva iniziato a seminare il panico nelle sale americane con il primo remake del franchise "The Grudge", diretto per l'occasione dallo stesso Shimizu. Ma il regista aveva già voltato pagina e cercava di rifarsi una verginità in patria, dopo aver abbandonato la sua creatura in mani che, nel giro di pochi anni, l'avrebbero completamente sventrata. Grazie quindi a Chiaki J. Konaka, che gli aveva servito su un piatto d'argento un soggetto che prelevava a piene mani elementi occidentali per inserirli in un anomalo contesto giapponese, ed al "body hammer" Shin'ya Tsukamoto, che aveva offerto il suo volto eclettico al suo protagonista, Takashi Shimizu realizzò quello che a conti fatti si può oggi definire il suo lavoro più claustrofobico.
Masuoka (Shinya Tsukamoto) è un uomo completamente distaccato dal mondo, un uomo che rifugge la Tokyo moderna ed ipertecnologica in cui vive, un uomo che si rifiuta di vedere il mondo con i suoi occhi e si affida a chi può farlo al posto suo: una telecamera, la sua ossessione, che porta sempre con sé e con la quale riprende tutto ciò che lo circonda. Un giorno Masuoka riprende accidentalmente il suicidio di un uomo di nome Arei Furoki (Kazuhiro Nakahara) in una stazione della metropolitana. Lo sguardo di terrore negli occhi del suicida seduce Masuoka e risveglia in lui una nuova ossessione: vuole disperatamente comprendere le origini di quel terrore assoluto che l'uomo sembra aver provato prima di piantarsi il coltello negli occhi. Così, un giorno, con la telecamera al seguito, partendo proprio da quella stazione della metropolitana si avventura nelle profondità di Tokyo. Inizia qui la follia completa di questo film. Come in una specie di visione lovecraftiana, dove l'autore di Providence viene addirittura evocato con un riferimento diretto alle "
Montagne della follia", Masuoka incontra lo spettro di Furoki, che lo mette in guardia della presenza dei Deros, una razza di esseri degenerati, discendenti di un'antica razza estremamente avanzata che si era rifugiata nel sottosuolo sin dalla notte dei tempi. La citazione qui è un po' meno ovvia, ma gli appassionati di vecchi racconti pulp non avranno potuto fare a meno di riconoscere i Deros narrati dallo scrittore statunitense
Richard Sharpe Shaver, che ebbe modo di approfondire la sua personale versione del mito di Agarthi nel controverso "
A Warning to Future Men".
Naturalmente, la questione lovecraftiana non è sollevata per puro spirito citazionistico: così come i racconti di Lovecraft spesso mescolano follia e orrore, mettendo in discussione l'una a spese dell'altro, allo stesso modo Marebito è un viaggio nei meandri della mente umana e noi spettatori ci chiediamo se quello a cui stiamo assistendo è semplicemente la fantasia di un pazzo, o di qualcuno che non prende più le sue medicine, o se in realtà è tutto reale e una civiltà "ombra" realmente vive accanto a noi. L'incertezza dell'intero film è il vero orrore. Se in Ju-On Shimizu aveva materializzato l'horror nello spettro vendicativo di Kayako Saeki, in Marebito l'orrore è da ricercarsi nelle profondità della mente di Masuoka. È l'orrore della psiche, di cui ogni tentativo di analisi crolla a livello subatomico (cit.) e dal quale non v'è via d'uscita. Nello Shintoismo, Marebito (letteralmente "spirito raro") è un essere divino che porta in dono saggezza, conoscenza spirituale e felicità. E proprio seguendo tale concetto Furoki rivela a Masuoka come la paura sia un'antica forma di saggezza, forse la più alta, una saggezza che gli umani avrebbero perso molto tempo fa.
Nel suo dantesco percorso attraverso il sottosuolo di Tokyo, Masuoka si imbatte in una giovane ragazza (Tomomi Miyashita) completamente nuda e incatenata a un muro per le caviglie. È una creatura bellissima, la pelle di un pallore incantevole, e Masuoka non esita a liberarla e a portarla a casa con sé. La ragazza però non parla, non mangia, non beve. Si limita si dormire, e nei rari momenti di veglia osserva Masuoka con uno sguardo interrogativo. Un'apatia formalmente infinita, la sua, che si interrompe nel momento in cui il protagonista si ferisce un dito con un pezzo di vetro, un piccolo quanto insignificante episodio che rivela la seduzione del sangue e genera, in Masuoka, una nuova follia, questa volta omicida, tesa a rifornire del nettare scarlatto la sua misteriosa e assetata ospite. Se questa creatura svogliata e autistica è un vampiro, allora, credetemi, è uno dei più strani mai visti al cinema.
Shimizu inebria lo spettatore, quasi come un voyeur, lo intriga tanto quanto lo disgusta. Marebito non è il solito J-horror, Marebito è il lato più oscuro dell'horror giapponese, un horror che trascina negli abissi della terra e della mente umana. Cupo, plumbeo e disperato, Marebito è l'opera di Shimizu più matura, e se si considera il budget ridicolo col quale è stato realizzato ci si può facilmente rendere conto della grandezza di questo regista. La narrazione è volutamente disorientante, in un chiaro tentativo di indurre un disagio persistente, uno stato di sogno paranoico nel pubblico, che non può far altro che decodificare questo come un film sul vuoto e sulla follia che deriva dalla contemplazione di quel vuoto. Senza dubbio il migliore omaggio che il cinema abbia mai fatto a Howard Phillips Lovecraft, un film che è riuscito a restituire, come mai nessun altro prima, la dimensione più autentica della sua poetica. Ma oltre a questo Marebito è un prodotto assolutamente unico, caratterizzato da un proprio mondo surreale e da una propria mitologia. È un mondo in cui antiche civiltà si nascondono sotto le strade di Tokyo, dove i morti entrano in comunione con i vivi e dove la comprensione della realtà da parte di un uomo è stata così indebolita che egli può ottenere una visione obiettiva di quel mondo solo attraverso l'occhio della sua telecamera. Non è sicuramente un film che può soddisfare chi è alla ricerca di risposte facili, ma che sarà profondamente amato da chi non ha paura di addentrarsi nei meandri più imperscrutabili della mente umana.
Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto, esso rappresenta la parte 38 in un totale di 100.
P.S.: Possiamo spegnere la 38° candela...
Come hai detto tu fa parte di un tentativo da parte di Shimizu San di non lasciarsi inglobare e cancellare dalla fama della sua creazione più famosa. Tentativo non so dire quanto riuscito visto che, perlomeno da noi in Occidente, il regista viene ricordato quasi esclusivamente ( ho messo il quasi per prudenza) per Ju-On e per le sue creature "rancorose".
RispondiEliminaHai detto bene: Shimizu da noi è conosciuto praticamente solo per Ju-On, così come Hideo Nakata è conosciuto per Ring (e, un po' meno, per Dark Water). Il problema è che noi preferiamo continuare a guardare e riguardare sempre le stesse cose (e non facciamo che produrre remake dei remake) perché ciò ci consente di rimanere nella nostra zona di comfort. Marebito in tutto questo ne ha fatto un po' le spese, ma peggio è andata ad altri suoi lavori che sarebbero da recuperare a piene mani.
EliminaNon so se sia un caso, ma leggendo il libro di Murakami "La fine del mondo e il paese delle ultime cose", il concetto di sottosuolo e abitanti ripugnanti è presente. Chissà che non sia tra le fonti di ispirazione. O magari si tratta solo di un'ambientazione ricorrente.
RispondiEliminaTutto è possibile (certi temi, come la teoria della terra cava, in fondo sono universali) ma in questo caso Shimizu cita espressamente quei vecchi racconti pulp di Shaver. Viene invece da chiedersi a chi si sia ispirato Murakami, il cui romanzo precede Marebito di una decina d'anni.
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