sabato 19 maggio 2018

La terapia del dolore

Naked Blood
La terapia del dolore

Non vi pare che masochismo sia in sé un termine riduttivo, una di quelle voci del vocabolario che richiederebbero pagine e pagine di approfondimenti che tuttavia potrebbero non arrivare mai a offrirne una definizione davvero esauriente? Non vi pare che masochismo sia un termine imperfetto, un termine di cui facciamo largo uso ma a cui ci riferiamo limitatamente al suo significato più comune, quello universalmente noto della pratica sessuale un po', come dire, particolare? In questo speciale stiamo cercando di trovare nuovi significati: alcuni piuttosto evidenti, come le pratiche di mortificazione del corpo portate avanti da certi attivisti religiosi, altri meno evidenti, come vedremo quando arriverà il momento, alla fine di questo mese, di tirare le somme di tutto quanto è stato detto e fatto. L'articolo di oggi è però ancora una volta incentrato sul dolore fisico e sul piacere che da esso deriva.
Ma la domanda, un po' provocatoria, è: "siamo davvero certi che tutto ciò non ci riguardi in prima persona?". Quando pensiamo a certi casi documentati di perversione sessuale o religiosa, di solito tendiamo a riferirci ad essi come ad avvenimenti lontani al nostro mondo (ed è logico) ma... è davvero sempre così? Davvero non abbiamo mai associato in prima persona alcun piacere al dolore fisico?

Alzi la mano chi non ha mai avvertito un pizzico di libidine lasciandosi cadere su un dito una goccia di cera da una candela accesa. Nessuno? Ne ero certo. La goccia di cera fusa provoca un picco di dolore brevissimo ma intensissimo che, volontariamente o involontariamente, tutti hanno provato almeno una volta nella vita. Non è ovviamente una pratica da perseguire con regolarità, altrimenti diventerebbe una patologia. Alzi la mano invece chi non si è mai divertito a tirarsi via le crosticine, quelle che da bambini popolavano le nostre ginocchia a seguito delle tante quotidiane sbucciature. Faceva male, no? Eppure era divertente, o no?
Secondo Wikipedia il dolore fisico ha "una funzione fondamentale nella sopravvivenza dell'individuo [...] come messaggio della necessità di intraprendere una reazione [...]". In parole povere, i recettori del dolore sono in grado di identificare ciò che essi considerano un pericolo per il nostro organismo e ci inviano un segnale. Ciò non significa però che noi quel segnale siamo per forza tenuti a prenderlo in considerazione. Anzi, esistono delle esperienze sensoriali ancora più spiacevoli che ci fanno preferire il dolore ad esse. Pensate al prurito, a quelle punture di zanzara che nelle notti d'estate ci tormentano al punto che preferiamo grattarci furiosamente fin quasi a scarnificarci le parti interessate. Pur non avendo il sottoscritto alcuna preparazione medica (il prurito, per quel che ne so, potrebbe anche essere una diversa forma di dolore), mi viene da pensare che sia possibile che in ognuno di noi si creino, talvolta, dei meccanismi in grado di alzare la soglia del dolore, rendendolo tutto sommato accettabile o addirittura un'esperienza piacevole, in certi casi perseguibile. Una questione di chimica? Non lo so con certezza, ma è un'ipotesi.

Qualcuno che potrebbe saperlo, e spiegarcelo, è il diciassettenne Eiji (Sadao Abe). Eiji, figlio di due scienziati, di nascosto dalla madre (il padre è morto prima che lui venisse alla luce) crea un siero basato sull'utilizzo di certe secrezioni cerebrali. Un siero che, una volta messo a punto, avrà l’effetto di aumentare la produzione di endorfine nel cervello e dovrebbe quindi diventare l'antidolorifico definitivo, una miracolosa panacea priva di quegli spiacevoli effetti collaterali, più o meno gravi, che tutti i medicinali provocano. La sua intuizione, cercare la soluzione là dove c'è il problema, è a dir poco brillante: come ragionamento direi che non fa una grinza. Ma Eiji è troppo impaziente per aspettare anni e anni e sottoporre il siero ai test di routine, e decide di sperimentarlo direttamente su alcune ignare ragazze. Alla prova dei fatti, il siero funziona anche troppo bene: non solo elimina il dolore, ma lo trasforma nel piacere più sublime… un piacere non solo direttamente proporzionale al dolore che viene inflitto, ma centuplicato come intensità...
Il risultato è una vera apoteosi del masochismo, la forma più elevata di crudeltà rivolta verso la propria persona, con picchi insostenibili di auto-antopofagia e automutilazione. Altro che qualche goccia di cera sulle dita!

Stiamo parlando ovviamente di un film che, come concetto, è stato più volte paragonato alla famigerata serie giapponese dei "Guinea Pig", nella quale venivano mostrate senza tregua una serie indicibile di nefandezze.
Non c'è affatto da stupirsi per un simile paragone, considerato che “Naked blood” (Megyaku, 1996) è stato girato da un... ehm... "eccentrico" regista che in precedenza aveva fatto recitare, nel ruolo a lui più congeniale, Issei Sagawa, un assassino cannibale e necrofilo noto per aver ucciso, fatto a pezzi e mangiato una studentessa olandese (The Bedroom, 1992).
Regista di numerosi mediometraggi annoverabili nel filone pinku eigaHisayasu Satô è anche l’autore di “The Caterpillar”, forse il più controverso fra gli episodi di “Rampo Noir” (Ranpo jigoku, 2005), il film antologico espirato alle storie di Ranpo Edogawa (qui avevo parlato del racconto di Edogawa e dell'omonima graphic novel e qui della trasposizione cinematografica che ne fece il leggendario Koji Wakamatsu).
Se da una parte si fa effettivamente fatica a sostenere la visione di alcune scene, dall'altra queste non sono così lunghe e insistite da costituire la sola e intera ossatura del film, rendendo di fatto "Naked Blood" una pellicola ben lontana dagli osceni vertici dei vari "Guinea Pig". Vale comunque la pena, per i deboli di stomaco, iniziare a pensare a una scusa per potersi allontanare dallo schermo in quei fatidici minuti.

Questa mia ennesima incursione in terra nipponica, qualcuno di voi potrebbe pensare, si scontra con i propositi di "occidentalizzazione" annunciati nel post introduttivo, ma, diciamolo, ben pochi paesi oltre al Giappone hanno saputo fare della fascinazione per le varie forme di perversione, e in particolare quelle “passive”, una forma d’arte. Un’arte che spesso raggiunge vertici sublimi – con le stampe erotiche famose e meno famose, in letteratura con Tanizaki (per esempio) e in qualche caso pure al cinema, sebbene ahimè non sia questo il caso.
"Naked Blood" infatti, per colpa di un plot confuso e di  personaggi stereotipati (la studentessa ossessionata dal cibo e obesa, quella che invece è magra e ossessionata dalla forma fisica) o al contrario irrealistici (la terza ragazza-cavia, insonne e ipersensibile ai rumori, e lo stesso Eiji, scienziato in erba che per far pace con l’ingombrante e idealizzata figura paterna chiama il suo siero “My Son”, il mio bambino), è un prodotto incompleto che lascia insoddisfatti sia gli amanti del cinema autoriale, sia gli amanti del gore più becero.

Mi stuzzicava però (per rimanere in tema di cultura popolare)  l’idea di parlare di questo piccolo film che, senza prendersi troppo sul serio, crea un’atmosfera da festino carnevalesco e osceno dove, per una strana legge del contrappasso, quella che dovrebbe essere una meravigliosa invenzione per l’umanità si trasforma invece in qualcosa di molto, molto pericoloso: in un delirio di autoannientamento  la ragazza grassa finirà vittima della sua stessa ingordigia, quella fighetta del suo maniacale desiderio di adornarsi il corpo, mentre la terza che dapprima sembra immune a qualunque effetto del farmaco… no, non voglio anticipare troppo, nel caso vi venisse la malsana idea di recuperare questo film, ma sappiate che la storia d’amore appena accennata tra Eiji e Rika è improbabile e il finale dal sapore apocalittico è tra i più inutili e incomprensibili della storia del cinema.

Per fortuna il minutaggio del film è ridotto (caratteristica tipica dei pinku ega) e ci sono numerose questioni etiche e filosofiche che, sebbene sollevate e poi lasciate cadere senza ritegno, lo rendono degno di una visione, almeno per chi scrive. Non solo: questo film, per sciatto che sia, è l’essenza stessa del cinema. Se l’atto stesso di farsi spettatore di un film è un atto voyeuristico, qui il voyeurismo mostra la sua duplice faccia e non solo perché bisogna sforzarsi, consapevolmente, di guardare la crudezza di certe immagini, ma perché i due personaggi principali, Eiji e Rika, non fanno altro che osservarsi e spiarsi a vicenda per tutto il tempo.
Eiji fin dall’inizio riprende, non visto, i soggetti del suo esperimento con una videocamera, ma accade l’impensabile: Rika, sdraiata sul lettino e ignara di aver assunto il siero, lo nota mentre è appostato sul tetto di fronte, ma anziché inquietarsi sembra poco più che curiosa. Solo dopo, riguardando il filmato, lui si accorgerà che lei, guarda caso la più misteriosa e sfuggente delle tre ragazze (il perché lo scopriremo man mano che la storia si dipana), lo ha visto mentre la riprendeva, e a quel punto (e dopo un fallito pedinamento in un centro commerciale, a seguito del quale la ragazza lo affronta direttamente) chi dei due osserva e chi viene osservato davvero non è più tanto chiaro. Che tutto questo c’entri con il fatto che la vista è il nostro senso principale, quello generalmente più utilizzato e apprezzato anche nell’intimità del talamo, non pare in discussione. Guardare non è solo una necessità ma è anche un piacere e, nel bene e nel male, questo film sembra ribadirlo. In questo senso, “Naked blood” è un film profondamente, genuinamente voyeuristico.

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Non dite che non vi avevo avvisato. Quando ho creato l'header di questo speciale e l'ho posizionato là in cima alla pagina, avevo già in mente la recensione che avete appena letto e, assieme ad essa, avevo già ben presente le immagini che vi avrei inserito a corredo. È per questo che ho ritenuto infatti appropriato, per limitare i vostri giustificatissimi conati di vomito, inserire il mio solito "Parental Advisory: Obsidian Content". Non che serva a molto, questo è pacifico, ma perlomeno dal punto di vista del mio (scarso) senso di colpa è un ottimo ammortizzatore.
Non so quanti di voi si diletteranno, nei prossimi giorni, con il giochino della goccia di cera o della crosticina sotto le unghie. Se decidete di farlo vi consiglio tuttavia di limitarvi a quello, senza sperimentare nuove sensazioni come quelle che potrebbe avervi suggerito la fantasia di Hisayasu Satô.
Lo speciale "Pleasure of Pain" riprenderà subito dopo il weekend con l'ultimo contributo dedicato al cinema e proseguirà nei giorni successivi portando la prua verso arti diametralmente diverse. In attesa del gran finale, previsto per l'ultimo giorno di maggio, mi congedo da voi.

15 commenti:

  1. Credo che salterò la visione, anche se la trama qualche spunto interessante sembra offrirlo. Non mi considero certo un debole di stomaco, visto che l'horror è uno dei generi che amo di più, sia a livello di letteratura che di cinematografia. Ma, a proposito di auto-cannibalismo, ho già dichiarato la resa davanti al pur buono "Dans ma peau" di Marina de Van, dopo circa mezz'ora di visione.

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    1. Quando si parla di auto-cannibalismo a me viene sempre in mente quella scena orribile di Antropophagus di Joe D'Amato.
      Non che fosse orribile nel senso buono del termine... anzi... Antropophagus è un film orribile in tutti i sensi

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    2. Anche quello evitato accuratamente, nonostante a me il D'Amato pre-porno in realtà piaccia.

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  2. Io anche eviterò la visione, quantunque immagino che - come spesso accade in questi film giapponesi - gli effetti speciali siano talmente artigianali da rendere alcune scene involontariamente comiche.
    Riguardo l'argomento, credo che in realtà la sopportazione del dolore sia strettamente legata alla sensazione di "controllo" che ne possiamo avere. Per dire: ricordo quando da bimbo mi finì una scheggia di legno sotto un'unghia e mia madre dovette sfilarmela con le forbici. Urlavo dal dolore, ma a animare quelle urla era soprattutto la paura perché le mie carni venivano "manovrate" da una mano altrui, sia pure fidata come quella di mia madre. Quando anni dopo, a mare, centrai un riccio con una gamba e dovetti estrarmi gli aculei con un ago, il livello di dolore mentre "scandagliavo" sottopelle con l'ago era probabilmente analogo all'esperienza di anni prima. Però non urlavo, anzi, neppure stringevo i denti. Ero tranquillo, forse perché consapevole che, essendo io a "manovrare" sulla mia carne ero in grado di dosare la sensazione di dolore senza forzarla in modo sbagliato.

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    1. Gli effetti speciali non sono affatto male invece. Nel senso che, pur essendo chiaro che è solo cinema, si fa un po' di fatica a sostenere lo sguardo senza cedimenti. Ci sono però anche un paio di scene splatter divertentissime, con schizzi di sangue tipo idrante, che sostengono ampiamente la tua tesi.
      Capisco benissimo la questione del "controllo". Diciamo che è un po' come guidare l'auto anziché limitarsi a fare il passeggero... che poi è la stessa ragione per cui molti di noi hanno paura di prendere l'aereo.

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  3. Già solo la tua descrizione del film è ipnotica, come farò a resistere ad una visione di questa storia incredibile? Solo i giapponesi potevano inventarsi un soggetto simile! :-D
    Non mi hai convinto con la cera, ma per il resto mi hai messo a nudo: anche uno come me che rifugge qualsiasi dolore fisico ha passato infinite ore ad infliggersi dolore provando piacere. Crosticine, pellicine, e quegli scorticamenti vari che la mamma ti dice di smettere di fare, e che quindi fai di nascosto con ancora più piacere... Oggi mi hai rivelato me stesso: sono un piccolo Suppliziante! :-D
    Una piccola aggiunta che mi è tornata alla mente leggendo il tuo incipit. Quando nel 1920 Karel Chapek scrisse la prima storia di robot col senso moderno del termine, ideò una loro conformazione genialmente crudele.
    Alla protagonista viene raccontato che ai robot sono stati impiantati sensori per provare dolore, perché il dolore serve ad evitare di autodistruggersi con comportamenti lesivi. Al che la ragazza chiede se abbiano impiantato anche sensori per il piacere, e le viene risposto di no: il piacere è inutile...

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    1. Pensavo che la pratica della goccia di cera fusa fosse molto più diffusa. Solo io quando entro in un locale e mi siedo ad un tavolo dove c'è una candela, finisce che me ne vado lasciando la tovaglia uno schifo?
      Comunque è vero che il piacere è inutile... se lo fosse probabilmente non sarebbe nemmeno piacevole.

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  4. Finalmente posso leggere un tuo nuovo post.
    Ciao

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  5. Non so se sia corretto parlare di masochismo dopo aver visto questo film.
    L’effetto della droga è quello di far sparire il dolore trasformandolo nel massimo del piacere.
    Quando la ragazza se la mangia dopo aversela affettata ha solo espressioni di piacere dall’inizio fino alla fine dell’assurda operazione.
    È na schifezza di film nel suo insieme e non solo per le scene più disgustevoli è proprio brutto.
    È un offesa alla serie dei Guinea pig.
    Poi quel cactus che richiama falliche visioni ...assurdo!
    Un film del cactus!
    Ciao

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    1. Mi pare di capire che tu questo film l'abbia visto (e spero non sia successo per causa mia). Concordo sulla tua opinione che non si possa parlare di masochismo in senso stretto, ma il tema del dolore trasformato chimicamente in piacere mi è parso centrato. La domanda da porsi è se sono di origine altrettanto chimica (non so, il rilascio di un particolare ormone, per esempio) certi comportamenti autolesionisti che appaiono normalmente ingiustificati.

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  6. Mamma santa! Meno male che ieri sera ho letto di questo film prima di cena... :(

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    1. Sarebbe interessante capire come mai in Giappone riescono a esprimere questi eccelsi livelli di perversione, come scrivi tu stesso. Chissà se anche nelle altre culture orientali accade...

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    2. In un certo senso, come verrebbe facile dire, i giapponesi sono effettivamente dei "pervertiti", ma c'è da tenere in conto che è un paese storicamente isolato (e non solo territorialmente) e che le regole sociali stimolano nettamente certi atteggiamenti. Non è un caso se il fenomeno degli hikikomori nasce in Giappone, così come non è un caso che in Giappone sia ampiamente diffuso il fenomeno delle Joshi Kosei, ovvero quell'insana passione per le studentesse che si prostituiscono in uniforme scolastica.
      Molti altri paesi orientali stanno seguendo a ruota la "lezione" giapponese e in molti casi viene addirittura superati: la serie di film tailandesi Art of the Devil, che abbiamo visto nello speciale dello scorso anno, ha un livello di perversione se vogliamo ancora più estremo, con l’aggravante del marciume che è normalmente assente in Giappone. Il film descritto in questo articolo, anche se non sembra, è caricaturale: prende in giro se setesso e concede spazio per qualche sorriso. In Art of the Devil, al contrario, non c’è un ca##o da ridere.

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