venerdì 25 ottobre 2024

Fuori Speciale: tempi moderni

“Fuori speciale” è una serie di articoli che vengono scritti di getto nel periodo di pubblicazione dello speciale “La grande abbuffata”. Pur non essendone parte integrante, ciò che viene qui trattato ruota intorno all’argomento principale senza spezzarne il filo logico. Si tratta, in estrema sintesi, di piccoli approfondimenti che non hanno trovato posto nella struttura principale. “Fuori speciale”, in uscita tutti i venerdì, non è una lettura necessaria alla comprensione degli articoli de “La grande abbuffata” (che usciranno invece il lunedì), è viceversa una lettura che può essere ignorata o rimandata, a vostro piacimento. 

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Dopo l’ultimo post dedicato lunedì scorso al cinema di Švankmajer, che sicuramente migliaia di lettori avranno letto avidamente, e prima dei titoli di coda su questo monumentale Speciale, che andrà in scena dopo il weekend, è il momento di qualcosa di più rilassante. In fondo questo è un “fuori speciale”, e in questi lunghi mesi solo raramente sono stati affrontati argomenti particolarmente complessi. 
Lo spunto per quest’ultimo “intermezzo” l’ho preso da quel post su Charlie Chaplin pubblicato poche settimane fa. Mia moglie, dopo averlo letto, mi dice: “Ehi, ti sei dimenticato di citare quell’altra scena…”. E lì mi si è accesa una lampadina. 
Che cosa voleva dirci davvero Chaplin? Come ogni altra forma d’arte, il cinema mostra l’evoluzione della società, e ciò che vediamo riflesso nella cinematografia americana è una società in cui, dal secondo dopoguerra in avanti, il pasto solitario o di coppia ha rimpiazzato la cena di famiglia o il banchetto (pensiamo solo a titolo di esempio alla glorificazione del cheesburger in “Pulp Fiction” di Quentin Tarantino, anno 1994, di cui ho già parlato in un precedente articolo fuori speciale). La cena di famiglia è sopravvissuta più che altro come pretesto narrativo per il riesumarsi di vecchi rancori o per lo svelamento di qualche scheletro nell’armadio, come in “La guerra dei Roses” (1989) di Danny DeVito o in “The Dinner” (2017) di Over Moverman. La scena su cui mia moglie aveva richiamato la mia attenzione è presente in uno dei più celebri film di Chaplin, “Tempi moderni” (1936), ed è quella nella quale l’attore e regista americano inserisce una macchina automatica da alimentazione che dovrebbe consentire agli operai di mangiare senza interrompere il lavoro, anticipando da un lato la possibile degenerazione di un mondo del lavoro ultra-competitivo, e dall’altra una delle cause delle nevrosi odierne. 

Ecco, quindi, lo spunto per il post odierno: quanto è cambiata la pausa pranzo negli ultimi, diciamo, cinquant’anni? Direi parecchio. È recentissimo un articolo del Corriere Veneto dove vengono portati alla luce i malumori dei dipendenti di una nota Azienda rodigina. Secondo l’Azienda “ogni dipendente dispone di una pausa di 30 minuti […], durante la quale ha a disposizione il tempo necessario per recarsi al bar o alla mensa presenti all’interno del centro di distribuzione, consumare il proprio pasto e ritornare in postazione per la ripresa attività”. Il problema è che dopo aver timbrato il cartellino i dipendenti devono attraversare corridoi lunghissimi (anche 500 metri), trasferirsi da un piano all’altro, attraversare barriere tipo aeroporto, metal detector compresi - e il risultato è 10 minuti per andare, 10 minuti per tonare e 10 soli minuti per mandare giù un boccone. Pensare di potersi anche lavare i denti o rilassarsi davanti alla macchinetta del caffè, neanche a parlarne. 
Per carità, tutto in linea con il contratto collettivo di lavoro nazionale, ma il punto è un altro: è davvero normale arrivare a comprimere in questo modo la vita di un essere umano per quel bene superiore chiamato produttività? Evidentemente sì, se consideriamo l’epoca in cui viviamo. 
Spingere sull’acceleratore a discapito del privato significa essere competitivi in un mondo che vive di competizione. E siamo tutti noi, nessuno escluso, ad aver portato l’asticella della competizione a vette impensabili solo fino a pochi anni fa. 
Quando ordiniamo un qualsiasi oggetto sul web, ci aspettiamo di vederlo in consegna il giorno successivo; quando ordiniamo una pizza, ci aspettiamo di riceverla comodamente a casa dopo un’ora, anche la notte di Natale, tanto c’è sempre uno che salta su una bicicletta e si mette a pedalare in salita sotto la pioggia per quattro euro l’ora. L’aggressività con cui il lavoro penetra nel nostro privato non è quindi altro che l’effetto di ciò che molti di noi (non tutti, per fortuna) si sono abituati a ritenere indispensabile, dimenticando che non sono solo i rider a fare una vita di merda, ma la quasi totalità della popolazione. 

E il momento in cui tale aggressività raggiunge i suoi vertici espressivi è proprio la pausa pranzo, quando il lavoratore dovrebbe staccare ma, già che si trova in ufficio, chiunque si sente libero di rivolgersi a lui come se non avesse staccato affatto. Nel secolo scorso, al contrario, la pausa pranzo è stata nelle fabbriche la cartina di tornasole delle conquiste operaie, praticamente un fatto politico, come ben spiega questo reportage di qualche anno fa che ben affrontava il tema partendo dagli anni in cui gli operai erano soliti consumare il cibo portato da casa a fianco dei macchinari, fino all’introduzione della mensa interna, con le vivande fornite direttamente, e spesso gratuitamente, dall’azienda. 

Nel mezzo c’era stato il grande successo della cosiddetta “schiscetta”, termine milanese (*) che stava a indicare un contenitore ermetico d’alluminio con due vaschette, di forma ovale, una dentro l’altra: quella più alta per la minestra o la pasta, quella più bassa per il secondo e il contorno. Tutti i lavoratori in quegli anni se ne mettevano una in borsa prima di uscire la mattina presto. Al suo interno trovavano posto vivande preparate amorevolmente dalle mogli la sera precedente, o più spesso gli avanzi della cena prima. 
Ricordo con affetto la “schiscetta” di mio papà, che aveva conservato dopo la pensione e che ancora dovrei avere da qualche parte, nonostante i tanti traslochi. 
Da parte mia, nell’aprile del 1988, quando iniziai, tutto era ovviamente già piuttosto diverso. Nei primi anni trascorsi in quel seminterrato di Cinisello Balsamo dove stava quella mia vecchia ditta, non avevo bisogno di alcuna “schiscetta”: un’ora mi bastava per andare e tornare da casa in bicicletta, dove mi aspettava un piatto di pasta preparato da mamma. Negli anni successivi, quando per lavorare dovevo attraversare Milano, la mia pausa pranzo la trascorrevo in un barettino là accanto, in compagnia dei colleghi, e un buono pasto da 5000 lire era più che sufficiente per un panino, un bicchier d’acqua e un caffè. 
Col trascorrere degli anni il valore del buono pasto è però rimasto nominalmente invariato e, con l’inflazione, oggi basta appena per acqua e caffè (senza panino). Il che significa che negli anni sono stato costretto a trovare soluzioni alternative: la prima di queste è stata la versione moderna della “schiscetta”, che nel tempo si è trasformata in un contenitore in plastica (oggi lo chiamiamo lunch box, perché così sembra figo) da consumare in una sala comune o preferibilmente alla scrivania; la soluzione successiva mi vedeva approvvigionarmi di robe pronte nel frigo al supermercato; la soluzione finale, quella del non ritorno, è l’abolizione definitiva del pranzo, vuoi per un motivo, vuoi per l’altro. Non ci sono ancora arrivato, ma sono a buon punto. 
Quello che mi trattiene è il pensiero che se lavorerò fino ad ammalarmi a nessuno gliene fregherà un ca##o, per l’azienda non cambierà niente, e io non potrò più pagarmi le bollette. In pratica, come ben aveva interpretato, forse in chiave profetica, Charlie Chaplin, se la modernità ci ha ridotto tutti quanti come pecore che si muovono in una metropoli simile a quella immaginata da Fritz Lang, l'immagine finale di "Tempi moderni" lascia un filo di speranza, dimostrando che il singolo individuo non può essere vinto e che potrebbe ancora trovare la sua strada in un mondo in continua (d)evoluzione. 

(*) Italo Calvino, nella sua raccolta di novelle “Marcovaldo” (1963), definì l’oggetto, con un termine molto meno dialettale, “pietanziera”.



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