“Fuori speciale” è una serie di articoli che vengono scritti di getto nel periodo di pubblicazione dello
speciale “La grande abbuffata”. Pur non essendone parte integrante, ciò che viene qui trattato
ruota intorno all’argomento principale senza spezzarne il filo logico. Si tratta, in estrema sintesi, di
piccoli approfondimenti che non hanno trovato posto nella struttura principale. “Fuori speciale”, in
uscita tutti i venerdì, non è una lettura necessaria alla comprensione degli articoli de “La grande abbuffata” (che usciranno invece il lunedì), è viceversa una lettura che può essere ignorata o
rimandata, a vostro piacimento.
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Nei giorni più caldi dello scorso mese di agosto ho fatto uscire su questo blog un breve articolo “True Crime”, passato quasi inosservato per via della stagione.
Sto parlando del cosiddetto massacro degli “Otto Immortali”, dal nome del ristorante di Macao in cui erano avvenuti i fatti. Sintetizzando, per chi avesse già
letto l’articolo o per chi non avesse voglia di farlo adesso, si tratta di uno dei casi più controversi della storia della penisola cinese che ancora oggi, dopo quasi
mezzo secolo, fa discutere e rabbrividire i locali. La storia che vi ho raccontato è quella di tale Huang Zhiheng, un individuo poco raccomandabile con alle
spalle numerosi episodi di violenza generati (o per meglio dire degenerati) nel losco mondo del gioco d’azzardo, che egli frequentava con una certa assiduità.
Nell’ultimo di questi episodi pare (il condizionale è d’obbligo) che abbia ucciso e fatto a pezzi un suo debitore e con esso nove membri della sua famiglia, per
poi occultarne i resti e prendere stabilmente il loro posto nell’abitazione e nella gestione del ristorante di proprietà della sua vittima.
Proprio quest’ultimo
particolare, rivelato al pubblico attraverso televisione e giornali, aveva dato origine a quella che ancora oggi è la leggenda metropolitana più famosa della
regione, se non dell’intera Cina, una leggenda secondo la quale il killer avrebbe cucinato le sue vittime e ne avrebbe fatto hot-dog da servire agli ignari clienti.
Non è quindi un caso se Danny Lee, all'anagrafe Li Xiuxian, produttore cinematografico, nonché sceneggiatore, regista, presentatore, talent-scout e attore di primo piano nell’industria
cinematografica di Hong Kong, ebbe la brillante idea di trasformare la vicenda in un’operazione commerciale. Dall’alto della sua posizione di leader, acquisita
negli anni del boom del cinema di Hong Kong degli anni '90, Danny Lee, il 13 maggio 1993, fece uscire nelle sale “The Eight Immortals Restaurant: the Untold
Story” (anche distribuito con il titolo alternativo di “Human Pork Chop”), affidando la regia a un emergente Herman Yau ma riservando per sé un ruolo di
primo piano.
Il successo fu ovviamente strepitoso, al punto che segnò l’inizio di una nuova era nel cinema di genere hongkonghese, senza contare che oggi "The
Untold Story” è uno dei rari casi di pellicola prodotta a Hong Kong che sia mai giunta in Occidente, nonché uno dei film più noti della cosiddetta classificazione
CAT III, introdotta dal governo del paese per far fronte a quell’inarrestabile ondata di squallore e depravazione che si era abbattuta sul cinema di Hong Kong di
quegli anni.
La classificazione CAT III, come ben spiegato in questa pagina wikipedia, non è altro che l’equivalente del nostro VM18, ma a differenza di quest’ultima
categoria finivano per farne parte solo opere davvero, come dire, estremamente inappropriate a un pubblico impreparato.
Inutile dire che “The Untold Story” era
molto più che inappropriato, visto che è comunemente riconosciuto come uno dei film più brutali del cinema di Hong Kong. La sceneggiatura fu affidata a Law
Kam-fai, con il quale Danny Lee aveva già realizzato il devastante “Dr. Lamb” (1992), basato sulla carriera del serial killer Lam Kor-wan, il macellaio di
Hong Kong.
Ma uno degli elementi che davvero fecero la differenza in "The Untold Story" fu la straordinaria interpretazione di Anthony Wong nei panni del protagonista:
fu talmente abile nel catturare i tratti del killer che il pubblico non poté fare a meno di chiedersi se l'uomo sullo schermo non fosse uno psicopatico anche nella
vita reale. Danny Lee, nei panni dell'agente incaricato del caso, fu funzionale alla necessità di alleggerire l’insostenibilità di certe inquadrature, aggiungendo
situazioni virtualmente comiche che facevano leva sulla goffaggine dei giovani poliziotti. Ho scritto “situazioni comiche” perché immagino che così potessero
apparire agli occhi dello spettatore indigeno (noi le definiremmo più che altro “totalmente stupide” o “completamente fuori contesto”), ma è innegabile che
riuscirono a bilanciare efficacemente la violenza espressa sullo schermo.
Il film si sviluppa come un giallo d’indagine che descrive in dettaglio il lavoro dei poliziotti per venire a capo dell’eccidio di un certo numero di persone, le cui
membra mozzate vengono portate a riva, già nella scena iniziale, in una spiaggia solitaria di Macao. Sin dalle prime inquadrature ci scopriamo a simpatizzare
per la poliziotta, interpretata dalla bravissima Emily Kwan, vittima del sessismo dei colleghi, costretta a fare i lavori peggiori senza mai ricevere uno straccio di
elogio e a ricevere frecciatine sessuali che dopo un po’ finiscono anche per annoiare. Ma il vero lato umoristico si manifesta con l’arrivo del capo della polizia
Lee (Danny Lee), che per l’occasione si fa accompagnare sul luogo del ritrovamento da una prostituta (e tutte le volte che Lee apparirà sullo schermo sarà
accompagnato da una prostituta diversa, ciascuna più volgare di quella che l’ha preceduta).
La giovane e inesperta squadra di poliziotti assegnata al caso è senza
indizi poiché non ha mai affrontato qualcosa di così orribile, ma guidata da Lee riesce a recuperarne alcuni che puntano al nuovo proprietario del famoso
ristorante Eight Immortals. Ed è proprio a questo punto che si scatena l’elemento horror, che allo spettatore viene presentato sotto forma di una serie di
allucinanti flashback.
Anthony Wong, che interpreta il pluriomicida (e per il quale ha giustamente ottenuto il premio come miglior attore protagonista al 13° Hong Kong Film
Festival, caso unico per un film CAT III), è, come detto, assolutamente perfetto nella parte dello squilibrato. Nel corso del film assistiamo all’evoluzione del suo
personaggio e veniamo trascinati con lui nelle profondità del degrado umano: lo vediamo barare a mah-jong, lo vediamo uccidere e dare alle fiamme un
debitore, lo vediamo stuprare ferocemente una cameriera in una scena talmente cruda che allo spettatore viene voglia di strapparsi gli occhi, e lo vediamo
uccidere senza pietà, con una bottiglia rotta, dei bambini, farli a pezzi e ricavare hot-dog dalle loro carni, in un crescendo inarrestabile di follia piuttosto difficile
da dimenticare.
Tutte queste scene ci vengono presentate in una maniera estremamente esplicita e disumana, ed è forse per questo che la fama sinistra di “The Untold Story” è
giunta fino in Occidente. La sequenza dello stupro, eseguita con una manciata di bacchette da sushi che finiscono per sventrare la malcapitata, è forse una delle
più violente e prolungate mai viste al cinema (senza contare che, a differenza di simili prodotti orientali, qui a Hong Kong gli organi genitali non sono sfocati).
La strage conclusiva è anche peggio e si riesce persino a notare l’orrore negli sguardi dei giovani attori che assistono agli omicidi simulati di quelli che nella
finzione scenica sono i loro genitori. Addirittura, si arriva a chiedersi come il regista abbia potuto sottoporre dei bambini a una tale tortura psicologica solo per
esigenze di copione.
Negli ultimi 20 minuti il film si trasforma in un dramma carcerario e da questo momento in avanti il crollo psicologico del protagonista diventa ancora più
evidente. Lo sguardo malvagio nei suoi occhi si spegne e inizia a prevalere quello della vittima, sottoposta alle brutalità più atroci ideate dai suoi compagni di
carcere che, oltre a massacrarlo di botte di continuo, lo costringono a fare cose ripugnanti con la sua urina. È sorprendente come il regista riesca in questa fase a
giocare con le emozioni del pubblico, spingendolo quasi a dispiacersi per il trattamento al quale il protagonista è sottoposto. Almeno finché non assistiamo alla
sua confessione finale.
Per concludere, “The Untold Story” è di gran lunga uno dei più famigerati horror CAT III mai realizzati a Hong Kong, e certamente quello che più di ogni altro ha contribuito a tracciare il solco per quella che sarebbe presto diventata una vera tendenza, un film che ha dato il via a una valanga di imitazioni, nessuna delle quali si è mai nemmeno avvicinata, per qualità e per brutalità, all’originale. Con ciò non intendo dire che tutto quello che arrivò negli anni seguenti sia classificabile come spazzatura; alcune di queste imitazioni (chiamarli sequel sarebbe improprio) sono tutto sommato piacevoli e meriterebbero una visione, sempre avendo ben chiaro in testa che l’originale è proprio su un altro livello. Vale però la pena spendere due parole almeno sui sequel “ufficiali”.
Il primo a sbarcare nelle sale dell’ex colonia cinese fu “The Untold Story 2”. Era l’estate del 1998, quindi più o meno cinque anni dopo il capostipite. La produzione è ancora saldamente nelle mani di Danny Lee e per la sceneggiatura fu confermato Kam-Fai Law. Il regista Herman Yau, in quel tempo impegnato a realizzare l’esalogia “Troublesome Night” (1997-1999), sei film horror-comedy tutti vagamente collegati tra di loro, cede invece la macchina da presa a un esordiente Yiu-Kuen Ng, che non farà affatto rimpiangere il suo collega.
Troviamo di nuovo Anthony Wong ma, ahimè, questa volta non nella parte del protagonista (e ho la sensazione che questa scelta abbia influito non poco sul risultato finale), bensì nella parte dell'agente Lazyboots, un poliziotto imbranato che mangia a sbafo e dimentica continuamente in giro la pistola d’ordinanza. Il nuovo volto scelto per il personaggio del ristoratore è invece quello di Emotion Cheung, affiancato per l’occasione da Yang Fan e Alien Sun.
Il film narra una vicenda completamente diversa e, secondo la wikipedia cinese, si ispirerebbe a un caso avvenuto del 1993 nel distretto di Tai Po, sempre a Hong Kong. Chung e la moglie Kuen gestiscono una tavola calda tra alti e bassi fino all’arrivo di Feng, la cugina di Kuen, appena trasferitasi in città. Quest’ultima si rivelerà una vera psicopatica: in men che non si dica seduce il marito della cugina, lo rende succube e lo costringe a liberarsi della moglie che, come avrete già immaginato, finirà fatta e pezzi e servita a tavola. Un film tutto sommato piacevole, magari non all'altezza del primo, ma è senza dubbio ottimo intrattenimento.
Nel 1999 arriva un nuovo sequel: ritroviamo ancora una volta Danny Lee, Kam-Fai Law e, dietro la mdp, ritroviamo Herman Yau, il regista del primo capitolo. Il cast è completamente rinnovato tranne per Danny Lee, che indossa nuovamente i panni dell’ispettore puttaniere già visto nel primo episodio. Il film questa volta sarebbe ispirato sul primo caso di condanna senza testimonianze e senza prove avvenuto a Hong Kong, nel quale quattro giovani furono dichiarati colpevoli di omicidio esclusivamente sulla base della loro confessione registrata, senza che venisse mai ritrovato il cadavere. Il film, detto tra noi completamente superfluo, conserva il tema dei corpi smembrati ma è privo dell’aspetto culinario che aveva contraddistinto i suoi predecessori.
Io speravo che fosse solo un film, non la ricostruzione di una storia vera... Intendiamoci: non che ammazzare nove persone, pur senza trasformarle in ingredienti da cucina, sia meno grave. Però, diamine, sembra l'atto quarto del "Tito Andronico" di Shakespeare...
RispondiEliminaDa Jeffrey Dahmer a Ted Bundy, da John Wayne Gacy a Ed Gein, più o meno tutti i killer più famosi sono finiti sul grande schermo, specialmente in Occidente, ma nessuno di quei film sembra sia stato fatto con l'intenzione di far vomitare lo spettatore (anche se di roba per cui vomitare ce ne sarebbe stata, volendo). "The Untold Story" è di tutta un'altra pasta: poco intrattenimento e conati indotti a non finire.
EliminaRicordavo la storia che avevo letto qui sul blog, e non cercherò mai qesto film (né qualunque altro CAT III, mi pare di capire)... Non ce la faccio a guardare questo genere di cinema, mi fa stare proprio male... :--/
RispondiEliminaLa maggior parte dei CAT III è robaccia di serie zeta. Il terzo "Untold Story", citato nel post, è per esempio meno sanguinoso di un qualsiasi horror adolescenziale anni Ottanta americano...
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