lunedì 21 ottobre 2024

La Grande Abbuffata: Švankmajer e il "cinema del dettaglio"

Non credo ci sia un altro regista, tra quelli che conosco, che abbia trattato il tema del cibo in maniera coerente e continuativa, fin dagli anni ‘60, come Jan Švankmajer. Avrei potuto inserire questo articolo su di lui in qualunque parte dello speciale, ma se l’ho fatto in questo preciso punto, dopo le parti dedicate alle creature dell’horror, è perché ritengo che Švankmajer in un certo senso superi e surclassi l’horror. Esaminandone solo l’estetica, per quanto inquietante, è difficile classificare a pieno i suoi film come horror, ma i contenuti sono tutta un’altra faccenda. Quello di Švankmajer è un cinema psicanalitico, dove l’orrore affonda le radici nel subconscio (nelle nostre pulsioni e processi organici, nei nostri pensieri e desideri reconditi, nella fascinazione per l’oscuro e l’ondivaga dualità della natura umana) e allo stesso tempo è esterno a noi (nel dialogo amoroso, la dialettica sociale e politica, il progresso, la società dei consumi). Questo orrore è filtrato dalle lenti del surrealismo, inteso come viaggio interiore, dove i desideri e le paure più segrete dell’uomo possono facilmente tramutarsi da sogni in incubi. È un orrore che colpisce emotivamente anche quando la ragione non è in grado di individuarne la causa. Se ad esempio prendiamo un corto come “Do pivnice” (1983), ci rendiamo conto dell’effetto disturbante che il regista riesce a ricreare con pochissimi elementi, usando la suggestione psicologica come leva, senza bisogno di mostrare nulla se non qualche chiaroscuro, l’ambientazione claustrofobica e le espressioni degli attori. Tuttavia, alcune di queste opere sono passibili di una seconda lettura che sconfessa quella più immediata, anche per merito di una buona dose di humour nero. 
Come “Zamilované maso”, del 1989 (“Meat love”, che potremmo tradurre come carne innamorata, più o meno), dove in poco più di un minuto vediamo una coppia di bistecche ballare, poi avvinghiarsi nella farina nella parodia di un rapporto sessuale e finire assieme nella padella. Se l’immagine è così potente il merito non è solo del suo autore, perché l’atto del mangiare è già di per sé una metafora che racchiude due grandi opposti, la vita e la morte, e non c’è bisogno che rammenti qui la connessione del sesso con la morte (“la petit mort” dei francesi). 
E ancora, in “Flora” (*), brevissimo corto (appena 30”) sempre del 1989, la creatura composta di vegetali legata al letto, che marcisce mentre tenta inutilmente di afferrare il bicchier d'acqua sul tavolino accanto, rappresenta un malato allettato che aspetta impotente la morte, l’irridente parodia dello stato vegetale/vegetativo, ma nel corpo, tempio dell’orrore, la morte e la vita convivono, e dal disfacimento della materia si origina altra materia (la putrefazione che nutre i vermi). Come Giuseppe Arcimboldo (che di Švankmajer, praghese, è uno dei riferimenti pittorici), che unifica il tempo e lo spazio, anche il regista ceco allude all’immortalità. 

L'arsenale alchemico di Švankmajer sono gli oggetti di scena: infatti, oltre che per la tecnica della stop-motion il regista è famoso per prediligere pupazzi e oggetti di uso quotidiano che di rado sono creati apposta per le riprese (come le marionette del “Faust”), più spesso sono oggetti già usati da qualcuno e quindi pregni di esperienza, per “recuperare la relazione magica con le cose che avevano i nostri predecessori” (cito da un’intervista del 1997). Il loro essere oggetti vissuti ne fa in un certo senso il ricettacolo di un potere magico in grado di penetrare nell’inconscio dello spettatore. Oggetti a cui dà vita con l’animazione, concedendogli (di solito in una struttura circolare, dove gli eventi si ripetono a catena) di disfarsi e cannibalizzarsi a vicenda fino a negare la propria stessa natura. Questa vocazione “plastica” consente di mostrare una materia in continua trasformazione e che di continuo divora se stessa, in una sorta di dimostrazione del principio della fisica per cui nulla si crea e nulla si distrugge (l’“eterno ritorno”), della difficoltà dell’uomo a creare oggetti funzionali (**) e del principio dell’incomunicabilità sociale, che completa la rappresentazione della totale omologia fra oggetti e corpi. 

Flora (1989)
Cinema del dettaglio”, in relazione a Švankmajer, sta a significare che l’inquadratura intera viene spesso sacrificata a favore di un’inquadratura che isola dal contesto ora un particolare ora l’altro, concedendo all’occhio dello spettatore di vedere dettagli che nella vita quotidiana difficilmente riesce a percepire. Questa ostinazione per il dettaglio serve anche per ottenere un effetto di saturazione, come nel lungometraggio “Otesánek”, con i numerosi primi piani dei piatti consumati dai personaggi, delle mani che si servono e delle bocche che li mangiano, e che scatenano per reazione quasi una sensazione di disgusto. In una tale visione, in cui il cibo e l’atto del mangiare (e l’atto “magico”, alchemico del cucinare) sono onnipresenti, non solo le persone (“Jídlo”), ma anche gli oggetti sono cannibali (le bambole di “Jabberwocky”, le teste d’argilla di “Možnostidialogu”, gli scarponi dentati di “Do pivnice”, il tronco di legno di “Otesánek”), e la ragione ultima è che il mondo intero è cannibale, impegnato com’è a fagocitare incessantemente se stesso. 

Suita” (“Historia naturae”, 1967), ispirato alla wunderkammer del re boemo Rodolfo II (***), è una metafora della natura e della vita umana e del destino che queste condividono. Si tratta di una breve storia dell’evoluzione divisa in capitoli (animali acquatici, esapodi, pesci, rettili, uccelli, mammiferi, primati, uomo), al termine dei quali una bocca umana in primo piano ingoia del cibo: è la vita che si nutre di altra vita, la catena alimentare con l’uomo al suo vertice (o così ci piace pensare). Alla fine, l’amara verità: panta rei, tutto scorre. Dopo l’ultimo segmento del film le labbra e la carne sono scomparse dal volto, ormai ridotto a un teschio, a simboleggiare il decadimento e la sparizione inevitabile di tutta la materia vivente.

In “Picknick mit Weissman” (“Picnic with Weissman”, 1968), lo scenario è più che mai surreale. Il titolo è ironico, perché Weissman, al picnic, non si vede - anche se il suo abito appeso a una gruccia e steso al sole fa benissimo le sue veci - anzi, non ci sono affatto figure umane, ma solo diversi oggetti: alcune sedie, un armadio, una pala, un grammofono, e così via. Gli oggetti sono umanizzati, interagiscono fra loro senza una mano umana a guidarli, e quella pala che scava senza sosta rompe l’incanto bucolico del paesaggio rendendo il tutto un po’ sinistro, finché l’autunno non ammanta tutto con le sue foglie e dall’armadio un uomo esanime, legato e imbavagliato, cade nella tomba scavata dalla pala: eccolo qui, il nostro Weissman. Mentre l’oggetto si fa antropomorfo (le sedie che giocano a carte, il vestito che “mangia” delle prugne, ecc., con la fotocamera che scatta una serie di "foto di famiglia" degli oggetti senzienti che finiranno per sostituire le vecchie fotografie, di persone reali, che erano appese sull’anta dell’armadio), l’uomo diventa oggetto (Weissman, inerme, che viene sepolto). In un sistema in cui il materialismo è diffuso, l’oggetto e l’umano sono ormai interscambiabili, sintomatologia dell’identificazione dell’uomo in ciò di cui si circonda (da “sei quello che mangi” a “sei quello che consumi” il passo è breve). 

Jabberwocky”, del ‘71, comincia con una citazione dei versi di Lewis Carroll da cui prende il nome, quelli di una bizzarra poesia contenuta in “Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò” che parla dell'uccisione di un drago chiamato Jabberwock (passeranno quasi vent’anni prima che Švankmajer si cimenti nell’adattamento dei romanzi di Alice in un lungometraggio dai toni molto più oscuri del materiale di partenza). Questo serve a introdurci nel magico mondo dell’infanzia, dove la fantasia può rendere qualunque cosa reale, tra giocattoli e arredamento vecchi di un secolo. Ci sono alcuni elementi di affinità con il precedente “Picknick mit Weissman” (l'armadio, le sedie, l'abito vuoto “animato”), siamo però all’interno di una stanza, la stanza di un bambino, nella quale le bambole e altri oggetti si animano, e la natura irrompe e invade lo spazio. Le atmosfere s’incupiscono, come a volte accade quando la fantasia è a briglia sciolta, o nella dimensione del sogno: da oggetti in disfacimento emergono altri oggetti, le mele brulicano di vermi, delle bambole cucinano e divorano parti di altre bambole, e infine un coltello a serramanico danza sul tavolo per poi trafiggersi e accasciarsi in un lago di sangue. Nel mentre, una matita traccia a più riprese un percorso per uscire da un labirinto, ma ogni volta un gatto lo distrugge con una zampata: la manifestazione della nostra parte animale, l'inconscio che tenta di circoscriverci nel labirinto dell'infanzia ogniqualvolta la mente cerca di trascinarcene fuori. Ma prima o poi si cresce, l’allegro vestito dell’infanzia viene sostituito da un anonimo completo da lavoro e (proprio come il gatto finito in gabbia) ci si ritrova intrappolati nella vita da adulto, che soffoca ogni spensieratezza e immaginazione: la matita riesce infine a tracciare una linea fino all’uscita del labirinto e oltre, ma il tratto si tramuta in uno scarabocchio che si avvolge su se stesso senza apparente scopo, proprio come senza scopo appare a volte la vita.

Dimensions & dialogue” (“Možnosti dialogu”, 1983) è un racconto per immagini diviso in tre parti che descrive l’essenza dell’umano. Nel primo segmento, “Dialog věčný“ (dialogo infinito), delle teste in stile Arcimboldo fatte di frutti, oggetti di uso domestico e oggetti di cancelleria si incontrano, e ogni volta una delle due tritura e assimila l’altra, in un’originale variante della morra cinese, finché tutte non assumono le stesse identiche sembianze. Le immagini simulano, né più né meno, l’uniformazione caratteristica del mondo moderno. In "Dialog vášnivý” (discorso appassionato), il secondo segmento, due figure di plastilina, maschile e femminile, si dissolvono sessualmente l'uno nell'altra per poi ridividersi nelle forme precedenti, ma dalla loro separazione avanza della materia (un figlio?) che nessuno dei due vuole reclamare; dopo l’amore, le due figure cominciano a lottare fino a ridursi in poltiglia. In questa visione fosca e cinica (ma è forse solo una mia percezione) la vita è una lotta continua che non cessa neppure quando ci sono i presupposti per l’attrazione e l’armonia. Infine, in "Dialog vyčerpávající” (dialogo estenuante) due teste maschili estraggono dalla bocca coppie di oggetti (spazzolino e dentifricio, scarpe e lacci, eccetera) che a volte si combinano, ma più spesso sono incompatibili fra loro, e nella lotta fra opposti, qualcuno finisce sempre per soccombere.

Do pivnice”, sempre del 1983, è una fiaba nera in cui una povera bambina compie un viaggio dantesco in cantina, dove è stata mandata a prendere delle patate, passando dalla luce del giorno a un mondo oscuro e notturno, tetro, dove l’immaginazione (è solo immaginazione?) gioca pessimi scherzi. La cantina, collegamento col sottosuolo e i suoi abitanti magici, luogo alchemico per eccellenza, culla arcana del nostro inconscio, è il luogo dove affrontare le più grandi paure, tra scarponi dentati che addentano croissant, un gatto nero (come quello di “Jabberwocky”, che comparirà in altri lavori del regista) che sbuca dal nulla e due simulacri umani (quelli di due vicini appena incontrati per le scale) che compiono strani rituali: l’uomo in pigiama ha un giaciglio di carbone, la donna prepara dei dolcetti con un pastone di carbone in polvere e uova. Quando la via d’uscita è ormai stata imboccata, la bambina fa cadere le patate e il corto termina, come spesso terminano i sogni, senza mostrarci il finale, con lei che si appresta a scendere di nuovo nel buio, accompagnata dagli incessanti lamenti del gatto, per riprenderle. E con lei, anche noi “lasciamo ogni speranza” nel discendere, di nuovo, quelle scale verso l’ignoto. Il tema del doppelgänger può far pensare che la cantina stessa sia una dimensione “altra”, parallela e sconosciuta, dove il cibo è il risultato di una trasformazione e, metamorfizzando l’organico e l’inorganico, esprima una sorta di equivalente del mistero eucaristico.

Come altri lavori di Švankmajer anche “Jídlo” (“Food”, ‘92) è tripartito, ma sembra rovesciare il processo alchemico anziché assecondarlo. Il corto esamina il rapporto umano con il cibo in tre segmenti dedicati ai tre pasti principali, colazione, pranzo e cena, ma esemplifica anche quelli che sono i rapporti di forza in seno alla società. Nella prima parte, “Breakfast”, un uomo si procura la colazione mettendo del denaro in un distributore automatico molto particolare, fornito di istruzioni complete: un corpo umano. Infatti, c’è un altro uomo seduto a tavola proprio di fronte a lui: chiudendogli il naso gli si fa aprire la bocca, gli si mettono i soldi sulla lingua, e così via. Per farlo funzionare (cioè fornire cibo, posate, tovaglioli) bisogna infliggergli un pugno o un calcio, in una geniale parodia dei colpi noncuranti che si danno ai distributori riottosi. Il primo uomo prende poi il posto dell’uomo-distributore mentre un altro commensale entra nella sala, in una sorta di catena di montaggio umana infinita. L’ispirazione potrebbe essere “Tempi moderni” di Chaplin (1936), ma non saprei dire quale delle due immagini sia più terrificante: entrambi i registi hanno descritto ciò che vedevano. 
Nella seconda parte, “Lunch”, due commensali di un ristorante, ignorati dal cameriere, in preda a una fame inestinguibile prendono a divorare tutto ciò su cui riescono a mettere le mani, finché da mangiare non rimane altro che la loro stessa carne. Abbandonando l’utopia della redistribuzione della ricchezza, vediamo traslata l'immagine di un sistema economico in cui la ricchezza si basa sulla sottrazione delle risorse. Qui l’antropofago è un uomo d'affari e l’altro un vagabondo: il ricco che “fagocita”, non più solo fuor di metafora, il povero. 
Nella terza parte, “Dinner”, un uomo seduto al tavolo di un ristorante aggiunge al piatto una gran quantità di contorni e condimenti. A un certo punto si scopre che l’uomo ha una mano di legno, la sinistra, sulla quale inchioda una forchetta. Scopriamo anche che il suo pasto è la sua mano mancante, dalla quale rimuove la vera nuziale per poi tagliarla, mentre anche gli altri avventori del ristorante sono intenti a nutrirsi di parti del proprio corpo (vi lascio il piacere di scoprire quali).

Conspirators of Pleasure” (“Spiklenci slasti”, 1996) è un lungometraggio che mostra uno sparuto gruppo di personaggi che coltiva segretamente morbose perversioni. Queste piccole manie sembrano allontanarli dalla società, condannandoli alla solitudine, ma in realtà la forza di tali pulsioni li accomuna in un “cospirazionismo” rivoluzionario di cui sembrano vicendevolmente ben consapevoli. Il signor Pivonka e la signora Loubalová sono due vicini di casa che conducono un rapporto sadomaso a distanza: entrambi hanno un fantoccio dell’altro che uccidono al culmine di un preciso rituale (il travestimento di lui da “uomo-pollo”, con testa in argilla decorata di cartapesta e vere penne di gallo, più ali nere ricavate dal tessuto di un ombrello, è da antologia). La postina, la signora Malková, va in estasi imbottendosi naso e orecchie di mollica di pane, come un uccello da fois gras. Il capitano della polizia Beltinsky ha la passione per le spazzole chiodate, che si passa sul corpo portando il concetto di igiene a livelli inediti, mentre sua moglie Anna, una giornalista, fa di alcune carpe un surrogato delle scarse attenzioni che riceve da suo marito. Anna a sua volta è l’ossessione amorosa del giornalaio, il signor Kula. L’uomo per hobby costruisce strani automi con materiali di recupero, che usa per fare autoerotismo mentre guarda il notiziario di Anna. Questo racconto, così surreale, passa dal grottesco all’horror alla commedia nera con estrema facilità, con punte da (sgangherata) spy-story, ed è senz’altro suscettibile di una lettura psicanalitica, oltre che politica. Proprio in quest’ottica dobbiamo considerare il tema del cibo secondario, come in un certo senso è, ma anche funzionale a rappresentare un mondo preda delle manie più primordiali e radicate. 

Infine, nel 2000 Švankmajer realizza “Otesánek” (“Little Otik”), lungometraggio che s’ispira a una vecchia fiaba ceca, “Otesánek”, che ha diversi elementi in comune con quella di Cappuccetto Rosso. La fiaba è narrata da Karel Jaromír Erben nello stesso libro che vediamo leggere a uno dei personaggi, la piccola Alzbetka, in varie scene del film. In calce ne trovate la traduzione completa (****). Come nella fiaba, anche nel film abbiamo una coppia, Bozena e Karel, che non riesce a concepire un figlio. La moglie, soprattutto, è affranta, così un giorno, durante un soggiorno in campagna, suo marito le porta un ceppo di legno con le fattezze di un neonato che ha trovato nel bosco. Chiaramente, si tratta di una pessima idea. Nella sua follia Bozena si affeziona davvero al ceppo, lo chiama Otik e finge una gravidanza per poterlo poi presentare ai vicini come se fosse davvero suo figlio. Karel la asseconda, ma accade l’impensabile: sua moglie, trattando il ceppo come se fosse un essere vivente, gli ha infuso la vita. Otik però non è un bambino normale, cresce in modo abnorme, ma il vero dramma è che dimostra un appetito vorace, non accontentandosi del cibo da neonati, ma pretendendo sempre più carne. Gli sventurati che per sbaglio si avvicinano a Otik svaniscono nel nulla e la polizia comincia a indagare, ma solo Alzbetka, la figlia dei loro vicini, intuisce la verità: Otik è una creatura di legno magica  dall’appetito insaziabile che continuerà a mangiare e a crescere a meno che non venga uccisa, come nella fiaba di “Otesánek”.
Il film e la fiaba sottostante stimolano molte riflessioni, da quelle sul significato di essere genitori (ed educatori) al prezzo da pagare per realizzare i propri desideri. Ognuno di noi ha delle aspettative su se stesso, e poco cambia se siano proprie o indotte dalla società (per  una coppia giovane, essere genitori), e se non si raggiunge ciò che ci si prefigge ci si sente fallaci, imperfetti, e la vita diventa una spasmodica attesa che ciò che si desidera si verifichi. In altre parole è nel successo o nel fallimento personale “predeterminato” che si delinea il nostro ruolo nel mondo, ma non sempre l'oggetto del desiderio, quand’anche lo si raggiunga, riesce a colmare il nostro vuoto interiore. Il cibo in psicologia è esattamente questo, non è solo qualcosa che serve per vivere, ma anche un modo di soddisfare le nostre pulsioni, ed ecco che l’appetito insaziabile assume un grande valore simbolico, che Švankmajer nel suo film enfatizza di continuo con le numerose scene dei pasti. 

Food (1992)
(*)“Flora” è un dipinto realizzato da Arcimboldo nel 1589 (cui seguì tempo dopo la"Flora meretrix", dipinta con il seno nudo). 
(**) Concetto che ha richiesto all’ingegnere e psicologo Donald Norman oltre duecentocinquanta pagine per essere sviscerato con il suo saggio del 1988 "La caffettiera del masochista. Psicopatologia degli oggetti quotidiani“. 
(***) Švankmajer è membro del gruppo surrealista praghese: ha una formazione in Arti Applicate e Arti Musicali, con specializzazione in scenografia e regia delle marionette, ma è anche un pittore. La sua speciale passione per il Manierismo e per Arcimboldo in particolare è però legata anche alle sue radici, dato che, come sappiamo, l’imperatore Rodolfo II (1552-1612), che fu il mecenate del pittore milanese, stabilì la sua corte proprio a Praga. Oltre ad Arcimboldo, nel cinema di Švankmajer vi sono omaggi a grandi maestri della pittura come Leonardo, Magritte, Bosch, e Mikuláš Medek, solo per menzionarne alcuni, oltre a influenze teatrali e letterarie. 
(****) La seguente traduzione dal ceco è stata realizzata con un traduttore automatico, pertanto non solo non è un gran che, ma ci potrebbero essere delle imprecisioni, anche perché ho eliminato o sostituito qualche termine a cui proprio non riuscivo a dare un senso compiuto: tuttavia, credo che basti a farvi capire a grandi linee la storia. «Un uomo e una donna vivevano in una casetta alla fine del villaggio, vicino alla foresta. Erano poveri, ma volevano comunque un bambino. "Rallegratevi di non avere figli", diceva la gente, "perché voi stessi non avete nulla da mangiare!" Ma loro rispondevano: "Se mangiamo noi, mangerebbe anche nostro figlio. Se solo ne avessimo uno". Una mattina un uomo stava scavando dei ceppi nella foresta. All'improvviso dissotterrò un ceppo che rassomigliava a un bambino piccolo. Aveva solo bisogno di un po' di potatura. L'uomo portò a casa il ceppo e disse alla donna: "Ecco quello che volevi: il figlio di Otesánka". La donna avvolse il bambino in una coperta, lo cullò tra le braccia e gli cantò... "Vieni, vieni, vieni, piccolo Otesánek! Quando ti svegli, piccolino, ti preparo la pappa: dai, dai, dai."All'improvviso il bambino cominciò a muoversi nella coperta e cominciò a gridare: "Mamma, ho fame!" La donna mise a letto il bambino e corse a cucinare il porridge, il bambino lo mangiò tutto e gridò di nuovo: "Mamma, ho fame!" La donna corse subito dal vicino e gli portò una tazza piena di latte. Otesánek bevve, deglutì, ma dopo un po' urlò di nuovo. La donna gli chiese: "Perché, tesoro, non ne hai ancora avuto abbastanza?" Ma andò al villaggio e portò il pane. A casa lo mise sul tavolo e uscì a prendere l'acqua per la zuppa. Ma appena uscì, Otesánek si srotolò dal piumone, mangiò in un attimo il pane e gridò... "Mamma, ho fame!" La mamma accorse di corsa, avrebbe voluto aggiungere del pane alla zuppa, ma non c'era più. Otesánek stava in un angolo e la guardava dal basso. "Otesánek, non hai mangiato quel pane?" "Ho mangiato, mamma, e mangerò anche te!" Aprì la bocca e all'improvviso ingoiò sua madre. Il papà tornò a casa dopo un po'. Non appena Otesánek lo vide, gridò: "Papà, ho fame!" L'uomo rimase sorpreso quando vide davanti a sé un Otesánek grosso e grasso. "Dov'è la mamma, tesoro?" chiese. "L'ho mangiata e mangerò anche te." E aprì la bocca e già aveva papà dentro di sé. Ma Otesánek più mangiava, più aveva fame. Nella casetta non c'era più niente da mangiare, così andò a curiosare per il villaggio. Incontrò una ragazza che trasportava una carriola piena di trifoglio dal campo. "Devi aver mangiato proprio tanto per avere una pancia così grande!", gli disse la ragazza. Otesánek rispose: "Ho mangiato prima il porridge, poi una tazza di latte, una pagnotta, mamma, papà -e mangerò anche te!" Aprì la bocca e la ragazza e la carriola scomparvero nel suo ventre, poi incontrò un contadino che trasportava il fieno dal prato. Il carretto si trovava sulla sua strada. Il contadino fermò il cavallo e alzò la frusta. "Non puoi spostarti? O ti colpirò con la frusta!" gridò. Ma Otesánek lo ignorò e disse tra sé e sé: "Ho mangiato prima il porridge, poi una tazza di latte, una pagnotta, mamma, papà, la ragazza con la carriola... e mangerò anche te!" E prima che il contadino potesse fare qualunque cosa, si ritrovò con i cavalli e un carro nella pancia. E Otesánek continuò. Incontrò un guardiano di porci nel campo. Ci prese gusto e li ingoiò tutti, compreso il guardiano. Poi vide un pastore con un gregge di pecore. "Ho già mangiato tanto," dice a se stesso, "ma ti sistemerò lo stesso." E ingoiò le pecore e il pastore insieme al cane Voríšek. Vagò per il villaggio finché non incontrò una nonna che coltivava cavoli. Otesánek non ci pensò due volte e cominciò a ingoiare le teste dei cavoli una per una. La nonna protestò dicendo che Otesánek aveva già mangiato abbastanza, ma lui aggrottò la fronte e disse: "Ho mangiato prima il porridge, poi una tazza di latte, una pagnotta, mamma, papà, una ragazza con una carriola, un contadino con il fieno, un guardiano con i maiali, un pastore con gli agnelli - e mangerò anche te!" E voleva inghiottirla. Ma la nonna era intelligente. Squarciò il ventre di Otesánek con una zappa, lui cadde a terra e Voříšek saltò fuori per primo, seguito dal pastore e dalle pecore. Dietro di loro corse una mandria di maiali con un guardiano, poi un cavallo con un carro pieno di fieno e un contadino. Uscì anche la ragazza con la carriola, e finalmente uscirono mamma e papà. Vissero poi felici e contenti, ma non vollero mai più un figlio.» 

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